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Machiavelli e il pensiero moderno | Sul fondamento dello Stato

di Sebastiano Lisi


La grande debolezza del pensiero moderno è la falsa identificazione che ha sempre fatto tra lo scientifico e la cancellazione dei rapporti vivi, la loro riduzione alla pura oggettività delle cose.

René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo




Si potrebbe affermare, seguendo Girard, che la grande forza – in questo caso premoderna, o meglio, antimoderna per anticipo – del pensiero politico di Machiavelli, della sua interpretazione e rappresentazione delle cose nascoste della politica, sta appunto nel tenere fermi di fronte al proprio sguardo i rapporti vivi, senza alcuna riduzione a una loro pura oggettività di cose. Il pensiero di Machiavelli sarebbe una scienza della politica, nel senso in cui Girard intende l’impresa scientifica, proprio perché non cade nella falsa identificazione sopra affermata, ma questa sarebbe anche la ragione per cui il suo pensiero è stato giudicato, dalla gran parte degli interpreti che si sono succeduti nel tempo, sì acutissimo, ma non sufficientemente scientifico, anzi irrimediabilmente non scientifico, sulla base del canone e dei criteri di scientificità codificati dal pensiero moderno – a cominciare da Cartesio. Machiavelli resta troppo, anzi completamente, legato ai rapporti vivi, e per questo il suo pensiero costituisce agli occhi dei moderni una sorta di scandalo ed è percepito come estraneo – straniero o nemico –: perché nel suo pensiero non c’è mai astrazione oggettiva pura, ma lo sguardo della sua mente resta puntato sulla materia vivente – umana – della politica; e ciò può costituire un pericolo per la salute e la tranquillità dell’ordine di pensieri della comunità scientifica – e politica – moderna. E questo sguardo vede chiaramente, come forse nessuno né prima né dopo di lui (tranne Carl Schmitt, forse, non certo però con pari perspicuità antropologica), che il conflitto – la mimesi di rivalità, con Girard – è una dimensione-momento costitutivo della politica – inestirpabile: è il proprium della sua realtà. L’estirpazione, o meglio, il superamento definitivo di questa dimensione-momento costitutivo è il compito che invece si è dato il pensiero moderno, sin dai suoi esordi, sul terreno delle cose della politica. Questo pensiero, proprio perché si rende conto del carattere essenziale del conflitto, ha sempre provato a comprendere, spiegare, giustificare il conflitto, ma lo ha fatto sempre ricercandone il superamento definitivo: si potrebbe dire, con Girard, la sua espulsione, la sua eliminazione sacrificale. Eliminazione che, il pensiero moderno, nelle sue diverse declinazioni teoriche di filosofia della politica, ha ritenuto necessaria al fine della salute del corpo politico, fino a spostare il luogo proprio del conflitto in un tempo-luogo pre-politico: lo stato di natura – euristicamente ritenuto logicamente e ontologicamente anteriore rispetto alla formazione del corpo politico in senso proprio –, il cui superamento definitivo diventa l’atto di fondazione dello Stato. Il suo ricadere in una situazione di conflitto, infatti, è concepito dal pensiero politico moderno come il pericolo più grave – ferale per il corpo politico – che, per essere superato, richiede una nuova espulsione del conflitto.

Il pensiero politico moderno, si potrebbe sostenere, costruisce e mette in opera, in senso proprio, una comprensione e una concezione della politica per l’espulsione-eliminazione del conflitto, producendo, di fatto, un misconoscimento del conflitto stesso quale costituente il proprium della politica.


Il conflitto, infatti, è ritenuto il pericolo assoluto per la salute della comunità politica: pericolo che va estirpato, ma ciò può avvenire solo se è trattato come estraneo alla comunità politica, come patologia e non come fisiologia del corpo sociale, quindi eccezione o anomalia nella vita della comunità politica. Nel pensiero politico moderno, sin dal suo abbrivio teoretico in senso proprio, il conflitto fa la figura del capro espiatorio, di ciò che va sacrificato affinché la società politica abbia fondamenta sicure e si mantenga in salute. Per il pensiero politico moderno, da Hobbes in poi, se c’è lo Stato non può esserci conflitto, e se c’è conflitto non può esserci lo Stato; ma Hobbes è in una posizione di eccezione poiché il suo pensiero, assumendo il conflitto nella sua radicalità – al fine della sua definitiva e completa eliminazione dalla vita civile –, inaugura il pensiero politico in senso moderno, costituendone di fatto la fondazione teoretica. È certo vero che per molti filosofi o scienziati della politica lo Stato comprende sempre – non può non comprendere – varie forme di conflitto, ristretto o allargato, che fanno parte della sua realtà effettuale, ma le pongono sempre nella prospettiva teorica della loro necessaria esclusione o eliminazione al fine della piena salute del corpo politico; le interpretano sempre come situazioni di malattia che contraddicono comunque la sua salute, e non come la normale salute della condizione di svolgimento della sua vita – verso cui, semmai, porre attenzione che non degenerino in forme di conflitto estreme o terminali.


Il pensiero politico moderno, in un certo senso, si potrebbe affermare, al momento della sua formazione teoretica, a causa della situazione d’escalation di rivalità e violenza – di guerra, quasi, di tutti contro tutti – che vivevano le società europee del XVI e XVII secolo, in una situazione quindi di stretto contatto con ciò che è il proprium della politica, fonda la propria concezione generale dello Stato sull’espulsione di ciò che costituisce la dimensione essenziale della politica: il momento del conflitto (genitivo oggettivo e soggettivo). Stretto contatto reso ancora più acuto e urticante dal movimento stesso di discesa nella completa immanenza – il processo di secolarizzazione – da parte del pensiero avviatosi con la modernità, e ciò per l’impossibilità teorica e spirituale, ormai, di potere ancora attingere, con piena convinzione e in perfetta buona coscienza, a una comprensione genuinamente provvidenziale del conflitto sulla base di una concezione integralmente teologica della politica, così come avvenuto per tutto il medioevo da Agostino a Tommaso. Il pensiero, quindi, avendo abbandonato la prospettiva provvidenziale, al conflitto non poteva più trovare alcuna giustificazione di questo tipo – e averne conforto –, e ogni sua comprensione, da questo momento, per avere efficacia, sia gnoseologica sia pratica, doveva e poteva unicamente fondarsi sulla stretta e immanente logica del reale. Si tratta della nascita della mitologia politica moderna, per la quale il corpo politico è veramente tale – sano e vivo – quando è privo di ogni conflitto, mentre, volendo restare più aderenti al reale, ai rapporti vivi, come fa appunto il premoderno Machiavelli, si potrebbe sostenere che, il conflitto – il polemos, “padre” o “re” di tutte le cose, anche della politica –, è la vita stessa del corpo politico, la sua dimensione costitutiva e il suo momento istitutivo.


Il pensiero politico moderno, in altre parole, quale fondazione mitologica dello Stato, sarebbe pensiero sacrificale – al pari di ogni altra mitologia antica e nuova –, così come sacrificali, secondo Girard, sono tutte le altre forme culturali della modernità. Il pensiero politico moderno sarebbe sacrificale, e avrebbe una fondazione sacrificale, perché fonda il mito moderno della politica sacralizzando lo Stato secondo il meccanismo del doppio vincolo (double bind): qualificando negativamente la dimensione conflittuale della politica, che appunto è fatta vittima dell’accusa di rappresentare il pericolo assoluto, quando invece rappresenta il proprium della politica, la sua vita stessa; e qualificando positivamente quella della composizione e stabilizzazione del conflitto, che è fatta oggetto di un’astrazione teorica assoluta, quando invece è un’ipostatizzazione, una canalizzazione e cristallizzazione del conflitto in forme istituzionali, che rimangono vitali, per il corpo vivo della società, finché vitale e sufficientemente plastico rimane il rapporto con la loro fonte, con il loro fondamento costitutivo: la dimensione e il momento del conflitto – padre, o re, di tutte le cose. Il corpo politico muore, non quando è attraversato dal conflitto, ma quando le istituzioni, che in esso sempre trovano fondamento, non sanno più riflettere plasticamente le forme da esso assunte – della cui dinamica le istituzioni stesse sono attori attivi e passivi –, e da esso non sanno o non possono più trarre alimento: conflitto che può raggiungere anche un alto grado di parossismo – e allora è la loro forma storicamente puntuale a essere minacciata – quando la sua forza di contagio non è più frenata per mezzo di una capacità politica in grado di produrre una sua canalizzazione istituzionale. Questa capacità di frenare, intesa in senso teologico-politico, è il katechon.


In un certo senso ha un fondo di verità affermare che Machiavelli è un pensatore premoderno – o antimoderno. Molti aspetti e presupposti delle sue concezioni, infatti, sembrano rispecchiare categorie di pensiero di questo tipo e, come nel caso della storia, addirittura precristiane. Ciò si può riscontrare per gran parte dell’orizzonte di pensiero tracciato dalle sue concezioni: dalla natura sempre uguale degli uomini, alla comprensione della storia e del tempo storico – storia che non sembra includere né progresso né linee di direzione in senso moderno, ma avere forma circolare e linee di ciclo che sembrano scavalcare all’indietro, sul piano del concetto, l’intera era cristiana –, fino al modo di considerare gli autori antichi e le loro opere – e di farvi riferimento: meno come fonti e documenti, secondo i canoni della moderna disciplina filologica, che modelli da seguire, poiché insuperati quanto a dottrina e giudizio delle cose politiche.

Al fine di comprendere il carattere premoderno della concezione della storia di Machiavelli, un utile raffronto può essere fatto fra il suo pensiero e lo schema concettuale elaborato da Koselleck in Futuro Passato, in cui “spazio di esperienza” e “orizzonte di attesa” connotano le due categorie della temporalità storica che ha il suo avvio con l’apertura della storia inaugurata dalla rivelazione di Cristo e dall’annuncio della sua parusia. Per Koselleck all’interno di questo schema concettuale si inscrive anche la concezione del tempo storico del pensiero moderno che vede, per un processo di profonde trasformazioni con modalità sempre più accelerate, un progressivo restringimento dello spazio di esperienza e una continua espansione dell’orizzonte di attesa, fino a giungere allo sviluppo di forme secolarizzate di escatologia per elaborazione e rielaborazione ideologica, sia del travaglio culturale e politico che condusse alla Rivoluzione Francese, sia dell’esperienza culturale e politica in essa maturata e da essa avviatasi. E ciò pur tenendo conto del dato storico, acutamente sottolineato da Koselleck, che al suo avvio il tempo moderno della storia era stato trattenuto e imbrigliato entro l’orizzonte d’attesa – fisso e finito – inscritto nella prognosi politica razionale conforme alle esigenze poste, e imposte, dalla nuova ragione assolutistica per l'istituzione e il definitivo consolidamento della struttura e dell’organizzazione moderne dello Stato. Credo che sia difficile comprendere Machiavelli all’interno di questo modello concettuale del tempo storico, perché nel suo pensiero l’eventuale spazio di esperienza, per estrarne gli insegnamenti utili, si allarga a tutta la storia passata, e il possibile orizzonte d’attesa comprende soltanto la messa in opera in realtà effettuale dell’attuale virtù e fortuna, intese nella precisa accezione politica e secondo l’intendimento politico che esse hanno nel pensiero di Machiavelli. Questa distanza dalla modernità, a guardare attentamente, non riguarda soltanto la concezione della storia implicita nel suo pensiero, ma riguarda anche la sua concezione della politica, che a quella della storia strettamente si lega, e che insieme sono fondate e tenute dalla sua concezione antropologica.


Se tutto ciò è vero, si può sostenere, il pensiero di Machiavelli, allora, non solo ha un’ispirazione e una modalità di comprensione premoderna e precristiana, ma costituisce, per l’intera modernità, una vera e propria anomalia selvaggia, il perfetto candidato a svolgere il ruolo di vittima espiatoria di tutte le sistemazioni teoriche sacrificali successive, sia da parte del pensiero sacrificale laico che da parte di quello cristiano, secondo le nuove forme di sapere che la scienza – non solo politica –, vera e propria mitologia di nuovo tipo, assumerà in epoca moderna. La rappresentazione, nel senso di Girard, dei fatti e delle relazioni delle cose della politica, da parte di Machiavelli, non ha alcun carattere mitologico o mitopoietico – nonostante Il Principe possa indurre a pensare il contrario –: è, anzi, la completa decostruzione di ogni mitologia politica. Il suo pensiero, ancora oggi, sebbene sia stato molto studiato secondo i crismi e i canoni cari all’intelligenza disciplinare – e così, nel suo ambito e per suo metodo, si tentasse pure di addomesticarlo –, non per questo ha perso punto della sua anomala selvatichezza.

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