di Ludovico Cantisani
“La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”: questo versetto, trionfale, del Salmo 118, sarà notoriamente ripreso dal Cristo in uno dei pre-annunci della sua Passione, il che basterebbe a farlo rientrare a pieno titolo in un discorso girardiano sul mimetismo e il sacrificio, quale è quello che ci accingiamo a fare. Più incerto è il suo legame con una malattia quale la schizofrenia, la cui prima designazione clinica risale ai primi del Novecento, ad opera dello psichiatra svizzero Eugen Bleuler, desideroso di rinnovare la definizione classica della Dementia praecox.
Da un lato, con questo breve saggio cercheremo di tratteggiare lo scarto concettuale che, dal salmista, ci porta direttamente allo studio scientifico della schizofrenia, e alle sue possibili applicazioni in sede storica e politica; dall’altro, proveremo ad analizzare più nel dettaglio le possibili convergenze tra i sintomi della schizofrenia e gli elementi-cardine della teoria mimetica, fino ad un punto in cui si annulli la differenza tra un eccesso di mimesis e uno stato di “inimitabilità”. A scanso di equivoci, ci teniamo a dire che non siamo né psichiatri né psicoanalisti: ma, affascinati dal ricorrere e dal ritrovarsi della schizofrenia in molti ambiti diversi, abbiamo voluto provare ad applicare la potenziale universalità della teoria mimetica anche a questo campo. Cercheremo allora di maneggiare con la maggior cura possibile tutte le tesi ed il linguaggio che si riferiscono agli ambiti neurologici e psicopatologici del discorso, consapevoli di aggirarci in un campo minato.
Per quanto paradossale possa essere questa mossa, ai fini di una strategia del discorso, cercheremo di fare a meno di Girard per una prima parte della trattazione: fare a meno di Girard nel senso di utilizzare il suo armamentario concettuale, ma non le analisi che, in modo specifico in Delle cose nascoste, lui ed eventuali suoi interlocutori hanno condotto sul tema della schizofrenia e dei disturbi mentali in genere. In un secondo momento, ovviamente, torneremo a Girard e ripercorreremo le occorrenze della schizofrenia lungo il complesso della sua opera, onde verificare fino a che punto le sue analisi corrispondono a quello che abbiamo detto ignorando volutamente questi passaggi.
Pur amandolo, faremo a meno di ricorrere anche al Julian Jaynes de Il crollo della mente bicamerale: ci limiteremo a dire che, benché estremistica e scientificamente dubbia, la sua interpretazione della schizofrenia come sopravvivenza, ancor prima neurologica che psicologica, della mentalità primitiva è una delle cose più potenti e forse profonde che siano mai state dette sull’argomento. Eviteremo di rifarci altresì anche all’Anti-Edipo di Deleuze & Guattarì: il giudizio di Girard a riguardo, secondo cui “l’elogio della schizofrenia” delineato dai due nel saggio “rappresenta nel suo genere una vetta insuperabile”, è tranchant; lo si può condividere in larga parte, a patto però di riconoscere, nell’Anti-Edipo e in generale nell’opera deleuziana, non pochi concetti e formule che risultano precise, anche se anti-logiche, nel comprendere la contemporaneità e un largo numero di fenomeni presenti in essa.
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Cos’è la schizofrenia? Secondo l’Enciclopedia della Scienza Treccani, la schizofrenia è un “disturbo mentale contraddistinto dalla perdita del contatto con la realtà”, una vera e propria “psicosi caratterizzata da un processo di disgregazione della personalità psichica” che “si manifesta con gravi disturbi dell’attività affettiva e del comportamento”, in primis deliri e allucinazioni. Forse il suo rappresentante più chiacchierato è il “presidente Schreber”, al secolo Daniel Paul, autore di alcune Memorie di un malato di nervi su cui si sono andati a impelagare alcuni degli intelletti più fini del Novecento.
Secondo una delle ultime edizioni del DSM, il celebre e perennemente contestato Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders edito dall'American Psychiatric Association, tra i sintomi caratteristici della schizofrenia rientrano, accanto ai deliri e alle allucinazioni, disturbi del linguaggio, una certa disorganizzazione comportamentale che può sfociare nella catatonia, e un senso perenne di distacco sociale che implica anaffettività, disturbi dell’attenzione e una tendenza ad evitare il contatto visivo. Pure è significativo come allo spettro della schizofrenia sia sovente collegata anche una tendenza all’ecoprassia: vale a dire, “la ripetizione per imitazione dei movimenti altrui, tipicamente riscontrato nella schizofrenia di tipo catatonico”.
Se la mimesi è sempre stata riconosciuta come uno degli elementi alla base di ogni forma di apprendimento umano, se tutto il processo di crescita è accompagnato da figure di “modelli” e ispiratori, in ambito scientifico si parla di facial mimicry per indicare l’imitazione automatica delle emozioni facciali di un altro individuo, aspetto imitativo che risulta centrale per comprenderle. È altresì noto che questa capacità di facial mimicry sia drasticamente ridotta in persone affette da schizofrenia o autismo, e sono state anche proposte delle soluzioni empiriche, a metà strada tra esperimenti scientifici ed esperimenti sociali, che miravano a ridurre questo genere di difficoltà empatiche. Insomma, attorno allo spettro dello schizofrenia si può riconoscere tanto un parossismo quasi parodistico della mimesi, quanto una sua incapacità: entrambe queste polarità vengono riassunte nel termine tecnico dismimia, che indica, in neurologia, un “disturbo della mimica, sintomo di malattie neurologiche e mentali; può essere quantitativa, con esagerazione mimica (come nella corea) o diminuzione (come nel morbo di Parkinson), oppure qualitativa (manierismi, smorfie, imitazione di gesti come nella schizofrenia)”, secondo la solita Treccani. Particolarmente problematico in questa direzione è il cosiddetto “disturbo fittizio autoimposto”, noto anche come sindrome di Münchausen per ovvi motivi “la simulazione o la produzione di sintomi psicologici o fisici che non hanno alcuna causa esterna evidente”; la mimesi di altri malati reali, se vogliamo, il che pone seri problemi anche rispetto a un concetto classico di io. Benché ci aggiriamo lungo territori distanti da quelli della critica letteraria e dell’esegesi religiosa che rappresentano gli ambiti privilegiati di applicazione della tesi girardiane, tutto questo risuona estremamente vicino all’orizzonte concettuale e ancor di più lessicale in cui la teoria mimetica si espande.
Jean-Michel Oughourlian, il neuropsichiatra con cui Girard ha dialogato in Delle cose nascoste
Interessantissimo ai sensi girardiani del discorso risulta sapere che alcuni esperti hanno ipotizzato che alla base della schizofrenia ci sia un malfunzionamento dei processi di simulazione neurali, ovvero dell’attività del sistema dei neuroni mirror e neuroni canonici: se davvero un malfunzionamento dei famosi “neuroni a specchio” può essere visto come una causa o con-causa del disturbo schizofrenico, ci troviamo di fronte a un’importante conferma del nesso che lega, in maniera forse bi-polare, la schizofrenia ai problemi posti dal mimetismo. I neuroni a specchio sono i neuroni che hanno “a carico” le transazioni intersoggettive, sono i neuroni a cui si può imputare la potentissima capacità mimetica umana. Già svariati anni fa il famoso neuroscienziato italiano Vittorio Gallese, annoverato tra gli scopritori dei neuroni a specchio, riconobbe nella teoria mimetica girardiana un’importante convergenza nei confronti dell’allora recente scoperta, fino a indicare nel pensiero di Girard, in un paper accademico ad esso dedicato, “un quadro di partenza ideale per favorire un approccio multidisciplinare allo studio dell’intersoggettività umana”. Se negli ultimi anni molto si è detto, e ancor più speculato, sui nessi tra neuroni a specchio ed empatia, o neuroni a specchio e autismo, può essere decisamente fertile portare avanti un discorso - quantomai ipotetico, s’intende - sulla schizofrenia da una prospettiva tendenzialmente girardiana.
La pregnanza del tema e di questo accostamento si fa forte, tanto più che la schizofrenia viene sovente accostata a uno status di alienazione, di estraneità, rispetto al gruppo, rispetto al nucleo sociale di (supposta) appartenenza: verrebbe da sospettare che nello schizofrenico vi siano i “segni vittimari” giusti perché esso possa girardianamente diventare, in caso di bisogno, oggetto di persecuzione se non vero e proprio capro espiatorio della comunità di cui far parte. La storia europea è colma di schizofrenici o supposti tali che hanno avuto un simile vissuto: Van Gogh e Artaud, Artaud che si specchia in Van Gogh, sono due degli esempi più noti, per quanto, almeno, per il pittore la diagnosi si inserisca nel registro del dubbio. Dall’altro lato, non si può sottovalutare il fatto che la schizofrenia può anche essere associata a una tendenza alla violenza eteroriferita: colpisce leggere, sulla base di statistiche, che gli schizofrenici subiscono “un rischio significativamente maggiore di essere vittime di reati violenti”, ma anche che “la schizofrenia è stata a volte associata a un più alto tasso di atti di violenza”. Ci troviamo di fronte a una polarità non dissimile a quella riconosciuta per i nessi tra schizofrenia e capacità mimetiche, per cui non è così facile, e forse neanche giusto, ridurre lo schizofrenico al mero status di vittima. La questione si fa ancora più complessa se, Artaud e Schreber alla mano, si riflette su quanto spesso la schizofrenia annoveri tra i suoi sintomi complessi di persecuzione: a quel punto, ipotizzare per lo schizofrenico una condizione di capro espiatorio diventerebbe de facto una complicità nella malattia, se non un contagio. Tanto Schreber quand’era - finezza di fine Ottocento - “malato di nervi”, quanto l’Artaud postumo di Succubi e supplizi si immaginarono al centro di vere e proprie congiure cosmiche - una reazione meravigliosamente esagerata a quello stato di passività, di “succubità” appunto, che entro una certa misura accompagna l’esistenza di ognuno.
Proviamo a tirare le somme, partendo proprio dalla condizione di isolamento sociale che, nei limiti dell’indiscutibile, spesso gli schizofrenici vivono, per loro scelta o per cacciata altrui - normatività dell’espulsione. Possiamo dire che gli schizofrenici spesso hanno capacità di imitazione, e quindi anche di comprensione dei comportamenti altrui - già far seguire la comprensione all’imitazione è però una scelta di campo - che si rovescia quasi parodisticamente, in alcuni casi in cui la schizofrenia è di tipo catatonico, nell’ecoprassia. Se prendiamo per vera l’ipotesi che la schizofrenia dipenda anche da un malfunzionamento dei neuroni a specchio, o, per uscire da un ambito neurologico che non ci compete, che la schizofrenia possa essere interpretata come una dismimia, ecco che ci si profila un quadro particolarmente chiaro e particolarmente denso. E in questo discorso potrebbero rientrare, con le giuste distinzioni, anche gli autistici.
Gli schizofrenici hanno difficoltà a capire le relazioni sociali: mancando di mimesi, c’è un tutto un ampio raggio di sfumature, di coreografie sociali, di sottintesi comportamentali ed emotivi che non colgono, o che imparano a rispettare in ritardo, e, per così dire, “a freddo”. Molti grandi interpreti del teatro e del cinema italiano, da Vittorio Gassman a Fabrizio Gifuni, hanno più o meno scherzosamente fatto riferimento a un fondo schizofrenico dell’arte attoriale: e si potrebbe provare a ipotizzare che nella schizofrenia, quando essa voglia normalizzarsi e provare a passare inosservata in contesti sociali “normali”, sia indispensabile una certa misura di messa in scena. Non è detto che ciò le riesca - ma uno schizofrenico sufficientemente consapevole di sé che provi a minimizzare il suo disturbo in circostanze “normali” finirà per adottare una posa camaleontica, con effetti più o meno riusciti a seconda dell’occasione. Si potrebbe arrivare a immaginare, per quelli che, parafrasando la nota formula riferita all’autismo, si potrebbero definire “schizofrenici ad alto funzionamento”, una presa di coscienza tardiva ma esplicita di tutta una serie di convenzioni, di prassi sociali che negli individui privi di tali disturbi sono invece del tutto implicite e inconsapevoli, ai margini dell’inconscio, proprio in virtù della capacità mimetica che sin da piccoli hanno esercitato. Se per tutti noi viene spontaneo e anzi automatico esercitare tale capacità in molti momenti disparati della nostra vita, per uno schizofrenico la mimesi può essere quel vesti la giubba a tratti umiliante sotto cui passare per vincere una parvenza di normalità. O, se è vero che la tendenza all’anaffettvità di individui schizofrenici e psicotici in genere può anche portare alcuni di essi ad avere insospettate capacità di manipolazione, questa mimesi auto-imposta, razionale oltre ogni freddezza e consapevolmente calcolatrice può anche trovare ambiti di applicazione impressionanti.
Lasciano sempre il tempo che trovano le diagnosi a posteriori, retrospettive, compiute a distanza su individui morti da decenni se non da secoli - eppure non può lasciare indifferente la frequenza con cui sembra emergere una certa qual correlazione tra schizofrenia ed esercizio del potere. Da un lato, alla schizofrenia sono spesso associate manie di grandezza: in questo, Schreber è impareggiabile, quasi messianico. Dall’altro lato, per diversi uomini di potere di ogni tempo sono state avanzate interpretazioni diagnostiche di vario tipo, indecise se tributare loro un’epilessia segreta, o una schizofrenia ben nascosta, e comunque non diagnosticabile ai loro tempi: si parla di figure di una costellazione piuttosto variegata, che da Cesare va a san Paolo fino ad Hitler e oltre, fino ad arrivare ai nostri giorni con Trump e Putin “accusati” - temo sia il termine giusto - di essere schizofrenici; accusa che per giunta Putin nel 2017 ha rispedito al mittente, tuonando contro una “schizofrenia politica” presente nel dibattito pubblico americano ai danni di Trump.
La precisione diagnostica rispetto ai singoli casi è ininfluente: la cosa che conta è rilevare questo nesso, in alcuni specifici casi forse arbitrario ma nel complesso del discorso non ingiustificato, tra schizofrenia e potere, o tra epilessia e potere. L’indifferenziazione che, in questa sede di discorso, si trovano a condividere la schizofrenia e l’epilessia, può essere accettata: sia perché alcuni legami tra le due malattie sono indubbiamente presenti anche se tuttora oggetto di indagine medica, sia perché entrambe postulano, di fondo, uno status di estraneità rispetto alla comunità nel suo complesso. Tanto l’epilessia quanto la schizofrenia possono rientrare fra i vissuti di estraneità radicale. L’epilessia anzi è, per rifarci alla costruzione di Girard, uno dei segni vittimari per eccellenza: e non possiamo esimerci dal ricordare en passant l’importanza tributata da Carlo Ginzburg al dato biografico dell’epilessia di cui soffriva il pioniere dell’antropologia Ernesto de Martino.
In uno dei saggi contenuti nella recente raccolta La lettera uccide, Ginzburg rapportava infatti l’epilessia di de Martino alla sua scelta di occuparsi dapprima di quell’“altra Italia”, dell’Italia del Sud rurale in cui si muovevano maciare e tarantolati, e poi, nell’ultimo tassello del suo percorso, dell’Apocalisse tout court. Esperienze di estraneità suscitate da disturbi psichiatrici o neurologici possono essere un viatico per una comprensione più profonda, ancorché prospettica, del mondo in cui si vive, ma rispetto al quale ci si sente appunto estranei: la letteratura del Novecento, analizzata efficacemente anche dallo stesso de Martino negli appunti per La fine del mondo, è piena di esperienze così, e lo stesso Ginzburg, in una delle sue precedenti raccolte intitolate Occhiacci di legno, aveva brillantemente posto l’accento sulle potenzialità epistemologiche ed ermeneutiche della lontananza e dell’estraneità di sguardo.
Ecco allora il ritorno del salmista, l’inaspettata pregnanza esistenziale di quella pietra scartata poi diventata fondamento e testata d’angolo. Da emarginato, e auto-emarginato che era, uno schizofrenico può polarmente passare ad essere un individuo di successo capace di attirare, di “magnetizzare” e in caso di necessità anche di manipolare le persone attorno a lui, sotto determinate circostanze. Se si potesse rivelare esatta quella diagnosi di schizofrenia da più parti riferita ad Hitler, tutto il suo percorso biografico può essere letto in questa chiave mimetica. Dall’altro lato, resta sempre valido l’appello prudenziale: “psicopatologizzare” i carnefici della storia è solo un modo secolare per demonizzarli, un tentativo apertamente ingenuo di escluderli dall’umano. Lo diceva lo stesso Girard, nell’ultimo rigo di Portando Clausewitz all’estremo: “voler rassicurare significa sempre contribuire al disastro”. Definire, a prescindere da ogni diagnosi scientifica, Hitler “pazzo” è un modo sbrigativo per liquidare il problema delle cause storiche, sociali, antropologiche e psicologiche che hanno portato lui, e la Germania intera, al duplice disastro della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto. In questo senso, un tentativo di approccio psicologico al “caso Hitler” capace di invidiabile equilibrio può essere ritrovato ne La persecuzione del bambino di Alice Miller, nelle pagine dedicate al Führer.
Quest’interpretazione del passo dei Salmi alla luce delle polarità di un’esperienza schizofrenica, della possibilità che un emarginato diventi tutt’a un tratto un leader, sa di essere provocatoria, ma spera di risultare anche sincera. Non ignoriamo, d’altra parte, l’importanza attribuita da Girard stesso a questo passo comune all’Antico e al Nuovo Testamento, e originariamente apparso in uno dei salmi più “vittimari”: rievocato da Gesù subito dopo aver pronunciato la parabola dei vignaioli omicidi, viene collegata da Girard al concetto di skandalon e, in generale, al carattere arbitrario e fondativo di ogni sacrificio rituale. “Dal momento che di questa pietra non è detto nient’altro, se non che viene scartata, è solamente questa espulsione a farne la testata d’angolo, e a fare degli autori dell’espulsione i costruttori che altrimenti non potrebbero essere. La metafora è trasparente”, concludeva Girard ne La voce inascoltata della realtà.
Girard stesso ha dimostrato, qua e là nei suoi scritti, un’attenzione occasionale ai nessi tra la sua teoria del mimetismo, e i disturbi psiconeurologici. Parlando dei paranoici nel primo dei saggi che compongono il primo atto de La pietra dello scandalo, Girard attribuisce loro una singolare consapevolezza mimetica, benché inespressa e infine fuorviante. “Il carattere meccanico e inavvertito del mimetismo all’interno dei rapporti più normali fa sì che questi malati si credano oggetto di un’attenzione mimetica universale” per cui finiscono per ritenersi “il centro dell’universo”. Il presidente Schreber, il più inquietante zoo di disturbi psiconeurologici a cavallo dei due secoli, può amichevolmente concentrare.
“Tu prova ad avere un mondo nel cuore
E non riesci ad esprimerlo con le parole
E la luce del giorno si divide la piazza
Tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa
E neppure la notte ti lascia da solo
Gli altri sognan sé stessi e tu sogni di loro”
Fabrizio De André, Non all’amore né al denaro né al cielo
Non finisce qui. Girard, ne Il superuomo nel sottosuolo, “diagnostica” una schizofrenia nientemeno che a Nietzsche, perlomeno al Nietzsche immerso nel circolo vizioso dell’Ecce homo, ormai mimesi impazzita alla ricerca disperata di interlocutori e fama. “Il silenzio totale che lo circonda induce Nietzsche a pose sempre più istrioniche, a un tipo di comportamento che è inevitabile catalogare come una classica schizofrenia, sebbene non vi sia alcuna soluzione di continuità rispetto alle più moderate espressioni di autostima reperibili negli scritti che precedono”, con scandalo schivato degli adoratori di Nietzsche. E in coda al paragrafo, Girard aggiungeva una frase che ben s’attanaglia a quel vissuto schizofrenico polare, per cui all’emarginazione segue uno studiato successo, che si può riconoscere in biografie come quella di Hitler: “la differenza tra l’uomo psicologicamente sano e quello malato può dipendere, a questo punto, dal maggiore o minore successo delle relazioni che essi riescono a intrattenere con la folla”. A differenza di Hitler, che ha goduto del successo - e poi della più rovinosa Caduta - in vita, Nietzsche stesso è stato attraversato da una polarità non dissimile, ma quando la fama gli ha arriso, era già sprofondato nella pazzia definitiva. Lascia il tempo che trova chiedersi quanto la pazzia stessa non abbia cementato il mito di Nietzsche, al termine di un secolo che dell’individualismo e di un certo parossismo anche morboso della personalità aveva fatto la propria bandiera - segnali del fatto che l’intellighenzia europea stava iniziando ad accorgersi del fantasma di Nietzsche c’erano già negli ultimi mesi che precedettero il crollo di Torino, come testimonia il suo scambio epistolare con Strindberg bruscamente interrotto in un ghigno. La pazzia di Nietzsche nondimeno, senza rivestire quel carattere “fondativo” di cui invece può vantare i diritti Socrate con la sua cicuta rispetto ad ogni platonismo a venire, conferisce una sinistra portata al suo insegnamento, alle sue filosofie. La pazzia di Nietzsche è, in un certo senso, l’esito ultimo del suo dionisismo, trovatosi, in una solitudine assoluta, senza né Pentei né Zagrei da sacrificare.
Il testo di Girard in cui la schizofrenia gioca un ruolo maggiore è però, e inevitabilmente, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo - inevitabilmente, anche perché uno dei due interlocutori di quello che è rimasto la più corposa ed enciclopedica esposizione della teoria girardiana era Jean-Michel Oughourlian, tra i più celebrati neuropsichiatri contemporanei. Andando in direzioni completamente diverse da quelle calcate pochi anni prima dall’analogo duo filosofo-psicoanalista composto da Deleuze e Guattari per L’Anti-Edipo, Girard, Oughourlian e Guy Lefort parlano abbondantemente della schizofrenia nel “libro terzo” della vasta opera, intitolato non a caso Psicologia interindividuale. In questa trattazione della schizofrenia, gioca un ruolo essenziale l’espressione double blind coniata da Gregory Bateson, irripetibile figura di psicologo e antropologo a cui si deve anche il termine schismogenesi. Un passaggio della conversazione tra Girard, Oughourlian e Lefort risuona particolarmente illuminante: quello in cui Girard afferma che alcuni psicologi del “gruppo di Paolo Alto”, influenzati dalle teorie di Bateson e dal suo double bind, “sono subito pervenuti a meccanismi di esclusione vittimaria” nell’elaborazione di una pragmatica della comunicazione umana. Adottando perennemente la prospettiva di “tutti gli elementi ‘sani’ del gruppo”, senza mai porsi fino in fondo la domanda fatidica sulla definizione della normatività, certa psicologia e ancor di più certa psichiatria possono autocondannarsi a rimuovere, se non addirittura a rinnovare, meccanismi di persecuzione o comunque di designazione vittimaria. Ogni diagnosi è una condanna, a modo suo. Muovendo da prospettive completamente diverse, anche il trio capitanato da Girard arriva, non diversamente da Deleuze & Guattari, a una critica o perlomeno a una messa in crisi delle categorie tradizionali della psichiatria: un elemento di polemica riassumibile nella sconsolata frase di Girard secondo cui “la psichiatria considera il malato come una specie di monade”.
Torniamo ai nostri rampanti schizofrenici. La vittima non è mai autoironica, ma sa essere beffarda. “Satana è stato beffato dalla Croce” era la conclusione a cui, partendo da san Paolo, arrivavano Girard e la sua interlocutrice Maria Stella Barberi, nella parte dialogica de La pietra dello scandalo intitolata Il rovesciamento del mito. Il Cristo è la più beffarda delle vittime - lo sapeva bene Buñuel, che ne fece ridere l’effigie di fronte agli sforzi automaceratori del povero Nazario. Cristo, morendo in Croce, per chi crede in Dio ha sconfitto la morte stessa, per chi segue le teorie di Girard ha svelato il fondamento vittimario della civiltà e dalla mitologia tutta. In quest’accezione, quella che Cristo propaganderebbe altro non è che una consapevolezza, una cognizione, quasi una prescienza del sostrato sacrificale in cui costantemente rischiamo di ricadere. Che “la verità renda liberi” è una frase ad effetto ancora da verificare, ma se di consapevolezza si parla, ne sono campioni proprio le vittime. Per carità, nelle religioni più antiche o presso gli Aztechi non saranno mancate vittime felici di essere condotte all’altare, così come anche alcuni cristiani dei primi secoli arrivarono al paradosso di autodenunciarsi alle autorità imperiali pur di morire martiri. Ma, posto che i sacrifici umani propriamente detti appartengono più alla Preistoria che alla storia almeno per quanto riguarda il Mediterraneo, ci restano come capri espiatori nel senso autentico del termine soprattutto le vittime di persecuzioni statali, giudiziarie o popolari: i già citati martiri cristiani dei primi secoli, gli ebrei vittime di pogrom lungo tutti i duemila anni della loro diaspora, lebbrosi, eretici e altre categorie su cui più volte Girard ha posato lo sguardo, per illustrare le convergenze tra gli “atti inquisitoriali” e simili, con i testi degli antichi miti sacrificali e fondatori.
Per tornare a uno dei paragrafi precedenti, c’è uno storico italiano che, raccogliendo la sfida postuma di Benjamin, ha impegnato gran parte del suo percorso intellettuale proprio a ricostruire la prospettiva della vittima, cercando di leggere contropelo i processi dell’Inquisizione e altri documenti persecutori: Carlo Ginzburg, che abbiamo già citato a proposito del suo scandaglio nel retroterra personale delle ricerche di de Martino. La sua trilogia di libri dedicata a eretici, streghe e altre “minorità” dell’Italia e dell’Europa a cavallo tra Basso Medioevo e un fioco Rinascimento - I benandanti, Il formaggio e i vermi, il più ampio Storia notturna. Per una decifrazione del Sabba - sono dei veri e propri classici della storiografia contemporanea, capaci di illustrare anche metodologicamente l’importanza di uno sguardo estraneo e vittimario.
Con invidiabile autocoscienza, replicando la stessa mossa cognitiva operata sul defunto de Martino, in un altro dei saggi de La lettera uccide ha evidenziato en passant il fondamento biografico della propria ricerca vittimario, in un passaggio che stupisce anche per prosa:
“Quello che ho raccontato fin qui è banale. Però, di fronte al profilarsi di una ricerca, è giusto dire qualcosa su chi si è posto delle domande – in questo caso, colui che vi parla. Mi limiterò all’essenziale. Sono ebreo; non ho ricevuto nessuna educazione religiosa; non conosco (purtroppo) l’ebraico. La persecuzione, di cui serbo ricordi incancellabili, ha fatto di me, durante la guerra, un bambino ebreo. Le religioni mi appassionano. Ai fenomeni religiosi ho dedicato una parte considerevole del mio lavoro di storico. Sono ateo”
Nella postfazione alla nuova edizione adelphiana del suo libro d’esordio I benandanti ritorna in maniera profonda e quasi beffarda quest’acquisita consapevolezza autobiografica, proiettata retrospettivamente sui principi della propria ricerca:
“Quando mi proposi di studiare le vittime della persecuzione della stregoneria non pensai affatto alla mia esperienza infantile. L’analogia tra streghe ed ebrei rimase allora del tutto inconsapevole. Emerse di colpo (avevo più di trent’anni, avevo scritto nel frattempo vari libri) quando Paolo Fossati, storico dell’arte che lavorava ad Einaudi, mi fece notare che per un ebreo la scelta di studiare streghe ed eretici era ovvia. Proprio quest’ovvietà, che riconobbi subito come tale, mi lasciò sbalordito. Averla rimossa per tanto tempo mi parve incredibile. Retrospettivamente penso che la rimozione abbia permesso all’analogia di agire nel profondo”
Non vogliamo certo psicoanalizzare Ginzburg - che, con queste poche frasi, neanche ci dà il margine di farlo - ma, sulla base di tutto il suo percorso da storico attorno ai perseguitati tra il Quattrocento e il Seicento, ripetere ancora una volta, un’ultima volta, il senso profondo e cognitivamente positivo dell’esperienza vittimaria.
In un sacrificio condotto a regola, la vittima, propriamente, non si salva mai - ma ci sono vittime mancate, come Theodor Adorno, salvatosi dall’Olocausto grazie a un pronto espatrio negli USA al momento dell’ascesa del nazismo, che ancora in cima alla sua Dialettica negativa confessava di sognare spesso “di essere stato ucciso nelle camere a gas nel 1944 e di vivere da allora l’intera esistenza solo nell’immaginario”. Ma non tutti i sacrifici sono condotti a regola, e non tutte le vittime di gruppi mimeticamente coesi ai loro danni versano il sangue fino a morirne - non tutte le vittime versano il sangue, a ben vedere. Da questa ipotetica esperienza di supplizio senza uccisione, così come da ogni esperienza di estraneità radicale, può emergere una consapevolezza non facilmente comunicabile, anzi dolorosamente esclusiva per il singolo - eppure, agli occhi della vittima scampata alla persecuzione, questa consapevolezza negativa è essenziale, perché non diventi realtà il suo maggior timore, quello che si rinnovino la persecuzione e la violenza, quello di ritrovarsi di nuovo ad affogare, succubi di un gruppo, da cui sono stati sempre e per sempre esclusi. Dioniso bambino, in mezzo ai Titani, squittiva, prima di esserne lacerato: ma una volta risorto e diventato adulto, non ha esitato a fare a un altro ciò che non voleva venisse rifatto a lui - e non ai danni dei Titani, per vendetta; lo σπαραγμός, Dioniso lo organizzò a suo cugino.
The Fall, cortometraggio di Jonathan Glazer
La consapevolezza vittimaria non deve per forza risolversi in quel vissuto schizofrenico, accostabile miticamente al trionfale verso del salmista, per cui dall’emarginazione si passa al successo e alla manipolazione: anche questo sarebbe un processo polare, ampiamente ripetuto nel corso della storia ben al di là dei confini della schizofrenia, quello grazie al quale la vittima si fa carnefice. In altri casi - si pensi a Kafka, vittima segregata e nevrotica del mondo, ma del tutto immune da ogni “risentimento del sottosuolo” - una condizione vittimaria più o meno spiccata è il preludio a una comprensione ex negativo e upside down della società e delle sue strutture, quali esse sono realmente al di là di ogni copertura positiva e positivista di cui le fondazioni e le fondamenta possono godere. Se davvero la verità rendesse liberi, le vittime, le vittime di ogni genere, si potrebbero ampiamente accontentare di questo. Purtroppo, la realtà è più complessa di ogni Vangelo - ma resta il brivido verticale di chi è stato gettato da una folla in festa nel pozzo ed inaspettatamente è riuscito a risalirne, e l’orgoglio un po’ macilento di non aver mai chiuso gli occhi, neanche nel buio della condanna. Forse hanno avuto ragione, al di là del loro estremismo quasi parodistico, Deleuze e Guattari, a risemantizzare la schizofrenia come un ideale irriducibile di complessità. O per dirla un’ultima volta col Vangelo: “«Mi chiamo Legione» gli rispose, «perché siamo Molti»”.
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