La teoria mimetica di Girard è molto ambiziosa nella sua pretesa di indicare l’origine di tutti i riti e di tutti i miti sorti in tutto il mondo, ma il suo grande vantaggio è di essere molto semplice nei presupposti, si basa su fatti facilmente verificabili da chiunque.
La difficoltà maggiore è stabilire con certezza che sia effettivamente – e dovremmo dire anche, se vogliamo essere ortodossi, storicamente – all’origine di ciò che pretende di spiegare. Finché troviamo nei riti e nei miti tracce di disordini, lotte, accuse, espulsioni o linciaggi non ci sono forti dubbi: La violenza e il sacro è un testo che insiste in maniera quasi estenuante su quanto l’avversione in ogni sua forma nasconda una forte componente mimetica. In ultima analisi la regola generale è sempre la stessa: il modello che si imita e il rivale su cui si vuole prevalere tendono a coincidere.
Lo sforzo maggiore è invece richiesto quando non sembra potersi osservare alcuna reminiscenza di antiche rivalità o alcun tipo di lotte. Se nei miti è difficile non trovare alcun riferimento, perché raccontano di personaggi praticamente sempre antropomorfi, ci sono molti rituali che non sembrano avere nessun aggancio con la teoria mimetica, come quelli volti a contrastare la siccità o una pestilenza, i riti di passaggio, il rituale riservato a un morto che nessuno ha ucciso. Girard analizza questi casi e ha argomenti da proporre, eppure resta difficile non immaginare che sia inevitabilmente condizionato. Lui stesso ammette che un fattore come il tempo, cioè l’inevitabile presenza di tappe diacroniche, complica il processo di ricostruzione di un’origine comune ancora rintracciabile in tutti questi fenomeni.
È quindi molto interessante e utile confrontarsi con un altro studioso, che non può essere condizionato dalla teoria mimetica nelle sue osservazioni. In una nota a una fondamentale raccolta di miti greci, la Biblioteca di Apollodoro (ed. ita. a c. di G. Guidorizzi, Adelphi), James G. Frazer (1854-1941), uno dei padri dell’antropologia culturale (citato dallo stesso Girard in La violenza e il sacro) riporta alcuni atteggiamenti particolari riservati ai suicidi, quindi individui che nessuno ha ucciso (non essendo morti misteriose si potrebbe dire: nemmeno gli dèi).
Lo spunto è il trattamento riservato al corpo dell’eroe suicida Aiace (è famosa la tragedia di Sofocle su questo soggetto). Apollodoro dice che fu l’unico tra i caduti a Troia a essere inumato e Filostrato, come riporta la nota di Frazer, spiega il motivo ricordando una legge che vietava ai suicidi di essere arsi. L’antropologo non cerca l’origine di questo trattamento, si limita a confrontarlo con quello di altri.
È molto diffusa tra i popoli primitivi la paura nei confronti del fantasma del suicida, perciò devono agire sul corpo del morto per rendere impotente il suo fantasma. L’ossessione è tale che se per esempio la vittima si è impiccata a un albero, quello viene divelto dalle radici e distrutto anch’esso. Inoltre sono richieste tutta una serie di precauzioni da parte di chi passa vicino al luogo in cui è avvenuto il suicidio e da parte dei parenti.
Ma perché tanta paura? Il fantasma potrebbe catturare il passante o tormentarlo, è in grado di scagliare pietre e persino di impedire alla pioggia di cadere (quindi diventare un problema per l’intera comunità). Ma c’è un’altra ragione che ritorna costantemente al fianco di tutte queste.
I Baganda dell’Africa centrale comunemente seppelliscono i morti, ma nel caso dei suicidi li bruciano perché dicono che se il fantasma del suicida non viene annientato spingerà altri a seguire il suo esempio, cioè a imitarlo. Se la persona si è uccisa in casa nessuno vuole più abitarci per paura di essere indotto a commettere lo stesso atto, cioè di nuovo a imitarlo. I Banyoro formulano esplicitamente la maniera in cui un suicida può danneggiare l’intera tribù: inducendo sempre più gente al suicidio. Ancora una volta torna il riferimento all’imitazione, per di più indicato come minaccia per l’intera comunità.
Qui non si afferma che è a partire dalla paura dell’imitazione che si arriva alla paura che il fantasma scagli pietre o impedisca alla pioggia di cadere, d’altra parte è sorprendente che venga attribuita al pensiero “primitivo” la consapevolezza di quanto l’uomo sia mimetico e che ad attribuirgliela sia un antropologo che non ha elaborato alcuna teoria mimetica.
Spunti forse ancora più curiosi li offre Robert Graves, un romanziere e studioso per molti aspetti lontanissimo da Girard (l’unico elemento forse in comune è la stima per Frazer), nella sua più nota opera La Dea Bianca (1948). Senza che la violenza in quanto tale sia mai l’oggetto della sua riflessione, per spiegare il motivo del tabù presente nei confronti di tutti i cibi di colore rosso, afferma: «il rosso era il colore della morte in Grecia e nella Britannia» (ed. Adelphi, trad. it. di A. Pelissero, p. 192). Non certo un colore qualunque per indicare la morte; in effetti, anche se non detto esplicitamente, è chiaro che non si parla di una morte qualunque benché diventi – curiosamente – l’emblema di qualunque morte.
Graves non sa nulla dei “segni vittimari” di cui parla Girard, ma si sofferma sui numerosi personaggi mitici zoppi. Riflette anche sui tanti che hanno come punto debole il piede (il più noto ovviamente Achille), poi sui riti in cui si zoppicava e sull’uso di certe calzature. A certo punto ci offre un’ipotesi che se avesse avanzato Girard avremmo subito pensato che era condizionato dalla sua tesi: «Ermes-Mercurio è comunemente rappresentato in punta di piedi: forse perché non poteva poggiare il tallone a terra? È probabile che le ali d’aquila dei suoi sandali non fossero in origine simbolo di velocità, ma segno della sacertà del suo tallone, e quindi paradossalmente simbolo di zoppia» (p. 380).
Ultima curiosità, più di vent’anni prima di Girard e senza nessuna finalità in merito a qualche lettura del mito di Edipo, Graves era convinto che in Grecia e anche in altre parti d’Europa fosse stato ampiamente diffuso il sacrificio rituale del sovrano.
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