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Ogni sacrificio è un battello verso il cielo | Girard e Calasso, editoria e confini

di Ludovico Cantisani


"Per secoli si era letto dell'Agnello nell'Apocalisse. Nessuno aveva osato raffigurarlo. Era come se fosse legato nel testo. Poi van Eyck provò - e apparve qualcosa di abbagliante, unico. Nessuno osò ripeterlo". È quest'unicità ad essere la protagonista del Sotto gli occhi dell’Agnello a firma di Roberto Calasso, autore ed editore più attento alle immagini di quanto a un primo sguardo trasparisse. Ma quest'attitudine sospesa tra celebrazione e nascondimento, esposizione e gnosi, faceva parte forse del suo côté benjaminiano. Fatto sta che Sotto gli occhi dell'Agnello, quarto e al momento maggiore dei libri da lui selezionati per un'uscita postuma, si confina nella parola per innalzare un dipinto. Per accendere il Logos, nientemeno. Un polittico di paragrafi potrà trascrivere un polittico di significati?

“È necessario credere

Bisogna scrivere

Verso l'ignoto tendere

Ricordati Baudelaire, Baudelaire”

Baustelle, Baudelaire



Il percorso letterario di Roberto Calasso non ha bisogno di presentazioni - o forse sì, altrimenti non si giustificherebbe l’esistenza dell’ottimo Letteratura Assoluta di Elena Sbrojavacca, da un anno a questa parte imprescindibile viatico all’opera calassiana. Opera che è molteplice, insinuante, a tratti invisibili. Come è noto, Calasso è stato al tempo stesso uno scrittore e un editore - operando al massimo grado in ciascuno dei due campi. Della casa editrice Adelphi, assistette in prima persona alla fondazione - e, via via che scomparve la “vecchia guardia” rappresentata da Bobi Bazlen, Giorgio Colli, Luciano Foà e altri nomi leggendari dell’editoria e della cultura italiana di metà secolo, Roberto Calasso ha assunto una posizione sempre più centrale nelle gerarchie della casa editrice, fino al punto di acquistarne la maggioranza delle quote azionarie nel 2015, quando l’Adelphi rischiava di essere assorbita nella controversa operazione “Mondadori”.

Come scrittore, il percorso di Calasso può essere suddiviso in due grandi tronconi. Nei molti volumi da lui pubblicati per la Piccola Biblioteca Adelphi, assistiamo alla gemmazione del suo pensiero: si va da titoli quali L’impronta dell’editore, una riflessione elegantissima sul suo stesso mestiere, a divertissement sul tono di Come ordinare una biblioteca, passando anche per La follia che viene dalle ninfe, una delle porte d’accesso privilegiate al pensiero calassiano, raccolta variegata eppure monotematica di saggi che spaziano dalla Lolita di Nabokov alle aporie della secolarizzazione. Ma il vero sforzo ermeneutico e concettuale di Calasso lo si può trovare nell’altro troncone della sua attività letteraria, quello maggiore, da lui stesso definito come Opera Unica: un insieme di undici libri - si vocifera l’uscita di un dodicesimo - tematicamente separati gli uni dagli altri, eppure legati da un’impercettibile, solidissimo fil rouge tutto giocato sulle correspondances che si possono rivenire tra mitologia classica e mitologia vedica, tra l’opera di Baudelaire e la pittura del Tiepolo, tra i racconti di Kafka e l’immaginario cristiano-giudaico.

Expressa nocent - è questo il motto della prosa di Calasso, tutta basata sui sottintesi, sugli accostamenti inespressi, sulla possibilità - lasciata al lettore - di cogliere nessi che lo scrivente si limita a sussurrare soltanto. “Una storia gnostica, quella che ci manca, è fatta in gran parte di intersignes, avvertimenti insoliti, coincidenze, forme erratiche, reliquie sepolte, segnature fisiognomiche, costellazioni latenti nel cielo del pensiero”, avvertiva già la Rovina di Kasch nel 1983, il libro che, secondo Italo Calvino, trattava “di due argomenti: il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto”. Da Talleyrand all’eroe sumero Utnapishtim, voce narrante del - ad oggi - ultimo tassello dell’Opera Unica La tavoletta dei destini, il passo è ampio, l’abisso arbitrario: quella di Calasso è una letteratura assoluta, come intitolava il suo saggio la Sbrojavacca, proprio perché affidatasi al potere salvifico della pagina con la potenza di una fede ignota, che garantisce per la continuità e l’organicità impalpabile dell’intero progetto.

Gli stessi volumi, più brevi, della Piccola Biblioteca Adelphi possono essere visti come un approfondimento o un’anticipazione di alcuni dei libri dell’Opera Unica: La follia che viene dalle ninfe riprende e riconduce a prosa saggistica alcune delle tonalità immaginifiche che avevano fatto il successo de Le nozze di Cadmo e di Armonia; Ciò che si trova solo in Baudelaire, pubblicato postumo nell’autunno del 2021, riparte dove La folie Baudelaire del 2008 si era fermato: l’imminente L’animale della foresta, la cui uscita è prevista in estate, dovrebbe reimmergersi nel labirinto kafkiano di cui già K. del 2002 era stato un primo, grandioso scandaglio; e Sotto gli occhi dell’Agnello, se è vero che c’è un dodicesimo libro dell’Opera Unica sui Vangeli in attesa di pubblicazione, di quest’ultima pubblicazione postuma potrebbe essere l’aforistica anticipazione.

In questa sede, ci interessa di Calasso tanto l’attività editoriale quanto la componente concettuale: ci interessa questo crocevia, perché ci proponiamo di indagare le consonanze e le dissonanze del rapporto tra Roberto Calasso e René Girard.


Il rapporto tra Calasso e Girard affonda in radici antiche. Proprio a Calasso e all’Adelphi si deve la diffusione in Italia dell’opera di Girard: fu infatti sotto l’egida dell’Adelphi che nel 1980 uscì in traduzione italiana La violenza e il sacro, il saggio, datato 1972, con cui per la prima volta Girard parlava apertis verbis della sua teoria del capro espiatorio; e, se l’anno successivo fu Bompiani ad andare a recuperare il libro d’esordio del pensiero girardiano, quel Menzogna romantica e verità romanzesca in cui già affiorava l’intuizione del desiderio mimetico scoperto lungo la letteratura europea tra Seicento e inizio del Novecento, tutte le altre opere maggiori di Girard uscirono per l’Adelphi, fino a Portando Clausewitz all'estremo, del 2008. Qualche altro scritto minore, libro-intervista o raccolta di saggi è apparsa per altri tipi editoriali - la Feltrinelli, Raffaello Cortina Editore, Marietti 1820 - ma nel complesso della sua opera Girard è stato un autore decisamente adelphiano.

Tra Girard e Calasso c’è stata anche una conoscenza personale, com’era inevitabile per una collaborazione editoriale protrattasi per quasi quattro decenni. Una conoscenza personale che non ha disdegnato lo scambio concettuale, a volte con toni anche di critica. Particolarmente suggestive a tal riguardo sono alcune testimonianze, reperibili facilmente su YouTube, come un dibattito tra Girard e Calasso sul tema del sacrificio trasmesso dalla televisione francese nel 1990, una lezione tenuta da Calasso al Collège des Bernardins su invito dello stesso Girard, e un altro intervento tenuto, stavolta in inglese, dall’editore alle René Girard lectures, nel novembre del 2014. I passaggi cruciali del rapporto concettuale tra Girard e Calasso si sono però consumati sulla carta, e, in modo specifico, in due dei libri fondamentali dell’Opera Unica calassiana: il già citato La rovina di Kasch, con cui l’Opera Unica è iniziata nel 1983, e il più recente L’ardore, pubblicato dall’Adelphi nel 2010.


“Girard è uno degli ultimi ‘porcospini’ oggi sopravviventi, secondo la tipologia che Isaiah Berlin ha sottilmente derivato dal verso di Archiloco: La volpe sa molte cose, ma il porcospino sa una sola grande cosa. La sola grande cosa che Girard sa ha un nome: capro espiatorio”. Con queste frasi sottili, anche la figura di René Girard si affaccia nel carnival of souls che compone La rovina di Kasch - si affaccia, per ricevere i più vividi complimenti e la più sostanziale delle critiche, non meno di Talleyrand, Durkheim, De Sade, Melville, Chateaubriand, e delle innumerevoli altre figure che compongono questo mosaico narrativo e concettuale a un tempo.

Siamo nel 1983: La violenza e il sacro è arrivata in Italia da tre anni, Il capro espiatorio è uscito in Francia da pochi mesi, e verrà tradotto e pubblicato dall’Adelphi solo nel 1987 . Menzogna romantica e verità romanzesca si muoveva in un territorio diverso, più letterario che antropologico sempre che Girard si possa relegare alla mera antropologia, ma Calasso non esita a rinvenire la genealogia diretta oltre la quale si muove il pensare impuro calassiano. “L’assioma di Durkheim - ‘il religioso è il sociale’ - è uno di quei falsi princìpi che velano una incombente verità. Solo un’altra sorta di genialità, quella di René Girard, sarebbe riuscita a spingere l’analisi sino al fondo feroce che Durkheim non aveva presagito nel suo assioma”, è la premessa che Calasso antepone alla sua critica. “Per Girard, tutte le speculazioni teologiche sul sacrificio, tutta quella parte del groviglio sacrificale che non conduce soltanto al capro espiatorio sono tentativi sacerdotali di occultare l’orribile verità. Così, pur con eroica intelligenza, egli accetta il gioco più squallido dell’Occidente: ‘demistificare’, ‘demitizzare’, ‘smascherare’ prima di essere stati iniziati al mistero della maschera”.

Già qui la prosa di Calasso sembra implicare un primo errore, ma l’ammirazione che prova per il francese è altrettanto stringente. Al netto di tanti monismi accessori succedutisi tra il 1789 e il 1919 - quando Freud, con Al di là del principio di piacere, tornò a un dualismo Eros e Thanatos - Girard possiede il dono della sintesi esatta, della sintesi evangelica. “Tutta la sua opera può essere letta come un abbagliante commento alle parole di Caifa: Expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo, et non tota gens pereat. Caifa sta qui per il politico”. (Ci mancherà la prosa di Calasso, questa sua imponente abilità nel costruire la potenza di ogni frase, quando anche la pubblicazione dei suoi scritti postumi sarà finita). In questo suo soffermarsi sul latino ecclesiastico dei Vangeli tradotti e ri-tradotti, Girard lancia già un primo ormeggio verso quello che, quasi quarant’anni dopo, sarebbe stato Sotto gli occhi dell’Agnello - ma ne La rovina di Kasch, non affronta ancora a petto nudo la rivelazione cristiana; intende occhieggiare, senza partitismi, la rivelazione calassiana…



È da questo momento che prende il largo la critica di Calasso a Girard. Critica che in un certo qual modo vuole rispettare ancora più di Girard, credente dichiarato, la sfera autentica del sacro, proprio come Girard, nel 2007, avrebbe voluto portare Clausewitz a pensare oltre sé stesso. Qui però si torna indietro.

“Girard proietta all’indietro, sino alle origini, quel delirio che l’Occidentale prima sprigiona e poi prende per vero, con un brivido credulo: l’autonomia della società, la sua pretesa di riferirsi soltanto a sé stessa” - è questo, per Calasso, il vero, insuperabile limite, della linea di pensiero di Girard. Se il padre fondatore della sociologia francese aveva attestato che il religioso è il sociale, “Girard applica con rigore (forse per primo) l’assioma di Durkheim, che egli definisce ‘la più grande intuizione antropologica del nostro tempo’”. In questo modo però, obietta Calasso, “alcuni dati elementari” restano fuori dal discorso: “L’irreversibilità del tempo, la morte, la fame, la desiderabilità. Sono le cose ultime: Girard vuole solo trasformarle in prodotti del conflitto mimetico che sfocia nella violenza del sacrificio. Eppure, anche in una società attratta all’inganno del sacrificio, esse rimarrebbero intatte”. Che finanche la morte, nel volgere di strani eoni, possa morire, era per Lovecraft un incubo speranzoso - ma era unicamente un sogno.

“Con la sua ipotesi, Girard può spiegare la ciclicità del tempo, non la sua irreversibilità; può spiegare l’assassinio, non la morte; può spiegare il conflitto dei desideri mimetici, non l’esistenza del desiderio. Rovesciamo allora l’assioma, diciamo: il sociale è il religioso”. In questa discrepanza, in questo ribaltamento, si consuma la partita tra Calasso e Girard - e Durkheim. Proseguendo lungo questa china, in anni recenti - più notabilmente, in quell’Innominabile Attuale che è un capolavoro sin dal titolo - Calasso arriverà ad una formulazione ancora più radicale della sua teoria: la società, non avendo più null’altro da sacrificare, prima sacrifica il sacro in toto, poi finanche sé stessa. Il terrorismo, in quanto sacrificio privo di modus, invariabile incidente di percorso lungo la via della secolarizzazione, è una delle tesi più folgoranti del libro del 2017, una di quelle che, forse, avrebbe attratto quantomeno l'attenzione di Girard.

Sottile è notare che, per Calasso, erronea sia anche l’individuazione dell’Origo fornita da Girard. “Girard presuppone che all’origine non vi sia morte, ma un assassinio - e precisamente un linciaggio. Ma prima del linciaggio, c’è la fame: in essa si congiungono morte e assassinio. L’impossibilità di sopravvivere se non si mangia… questo evento primordiale è il fondamento del sacrificio, il ṛta indissolubile. Offrendo il sacrificio, noi accettiamo di essere un giorno noi stessi divorati, se non dagli uomini, da quegli dèi che sono gli ospiti invisibili al banchetto”.

Le origini: non meno della Fine, una delle grandi ossessioni del pensiero occidentale sin dal suo sorgere ionico. Nei confronti del discorso sulle origini, Girard tenta un approccio più scazoonte, trasversale, indiretto, non lontano da certe riflessioni di Nietzsche sull’inattualità, o di Jaynes sulle sopravvivenze della “doppia mente” primitiva negli scrittori e negli schizofrenici moderni… Girard, con la sicurezza che solo la fede cristiana poteva dargli, rischia il tutto e per tutto tentando in pieno XX secolo un’indagine sulle Cose Nascoste sin dalla fondazione del mondo. La sua attenzione è risucchiata dai miti fondatori, dalle tragedie classiche e dalla Bibbia cristiana, dal modo in cui l’Antico Testamento si risolve nel nuovo; non mancano approfondimenti e a volte anche monografie sul post Christum natum, su Shakespeare, Nietzsche, Clausewitz, Hölderlin e altri autori della modernità variamente commentati in Delle cose nascoste, ma la potenza dello sguardo abissale di Girard deriva proprio dal suo status di archeologia, di rivelazione, non priva di una certa aurea auto-sacralizzante, del fondamento nascosto che ha avvolto l’intera storia dell’uomo.

Se si abbraccia con lo sguardo tutta l’Opera Unica calassiana, si avverte invece, e facilmente, un approccio di tutt’altro tipo. La Rovina di Kasch inizia in medias res, con Talleyrand che parla in prima persona, lui, “sulla soglia di questo libro”, l’alfiere della controrivoluzione, “l’ultimo che ha conosciuto le cerimonie”. I due successivi tasselli dell’Opera, Le nozze di Cadmo e di Armonia e Ka, parlano sì dei miti originari, rispettivamente della cultura classica e della cultura indiana, con particolare attenzione alle ierogamie e ai sacrifici, ma da quel momento in poi il gusto archeologico di Calasso si disperde, si immola alla folla e, rientrando nel tempo, affronta nell’ordine Kafka, Tiepolo, Baudelaire e la temperie dei suoi anni. L’ardore, di cui presto arriveremo a parlare perché riprende e ribadisce la critica a Girard formulata in Kasch, segna un nuovo punto di svolta nella direzione della sua Opera, perché di nuovo si torna all’Antico, e all’Oriente: ma l’età preistorica sarà indagata ne Il Cacciatore Celeste con un impareggiabile equilibrio tra fascinazione e scientismo, e dopo, L’Innominabile Attuale che si risvolgeva dritto per dritto verso l’ineffabile contemporaneo, Il libro di tutti i libri e Le tavolette del destino si imperticano rispettivamente sull’Antico Testamento e sulla mitologia sumera innanzitutto per riattestare il potere assoluto della Scrittura.

“Portando all’estremo” un ulteriore elemento di critica che sembra emergere da quel passo de La rovina di Kasch sul problema delle origini in Girard, si potrebbe dire che il contrasto profondo di questo crocevia Calasso-Girard sta proprio qui: a differenza di Girard e anche di un Heidegger, l’autore dell’Opera Unica non è propriamente un pensatore delle origini, dell’Origine. L’Origine gli interessa solo in quanto nutre una rete di correspondances che connette i Veda con Kafka, Baudelaire con i sumeri, Proust con gli indiani. La differenza che c’è tra Girard e Calasso non è dissimile da quella che passa tra un teologo e un mistico: Girard rispetta la linearità del tempo, la successione delle ére destinata cristianamente a sfociare nel contrappasso di un’Apocalisse; tutto in Calasso attesta se non una feda un’impressione della circolarità del tempo, un eterno ritorno in cui Nietzsche celebra la sua aurora affiancato dagli dèi stessi che, condannando il mondo ideale, il tedesco aveva pensato di estinguere.

Eccolo, l’autentico crocevia, una delle più profonde componenti del chiasmo che ha opposto due dei più grandi e complessi pensatori emersi sul finire del Novecento. Per Girard, c’è una successione sacrificale, e c’è un punto di rottura, rappresentato dal Cristo a metà della storia, oltre il quale non è più possibile celebrare sacrifici istituzionalizzati con l’illusione che la vittima sia colpevole o peggio ancora connivente col coltello che la sgozzerà - ma continueranno ad esserci vittime espiatorie fino a quando la rivelazione cristiana non sarà recepita in toto. Per Calasso, la questione è un’altra: riciclando un’espressione cara al suo odiato Deleuze, ai suoi occhi tutto è gemmazione. Ciò non toglie che all’origine di (quasi) tutto Calasso riconosca pur sempre un sacrificio, in maniera forse ancora più radicale di Girard: il patron dell’Adelphi dedica il suo secondo libro al dedicare, e lunga tutta la sua opera, in entrambi i tronconi, continua ad attestare la Fame dell’Invisibile - con tutto che, dei due, era Girard il cristiano praticante, mentre Calasso alla sua ultima intervista con Fazio ha rivendicato di aver sempre adottato nei confronti dei testi sacri un approccio “né confessionale né laico” e quindi “senza aggettivi”, indefinibile. Ma non per nulla siamo a un Crocevia, dei cui pericoli ci avvertivano già le tragedie tanto care a Girard: è in questi passaggi liminari, in questi dialoghi con l’ombra, quando si è costretti a prendere posizione di fronte all’Invisibile e il non parlarne equivale al negarlo, che si rivengono quelli che sono i limiti e i confini imprescindibili delle nostre possibilità di riflessione culturale.


Torniamo adesso alla linea principale della critica principale mossa da Calasso a Girard - il biasimo di non aver saputo problematizzare fino in fondo quel vecchio assioma positivistico di Durkheim, atto a sacralizzare il sociale.

“Mentre attraversi le stanze infinite

Di questa casa nascosta agli dei

Scrivi a tuo padre che non tornerai”

Baustelle, Il minotauro di Borges


“Nulla meno dell’unanimità è ciò che ci è richiesto per uccidere”. Ne L’ardore, da alcuni giudicato come la maggiore opera di Calasso, la tematica sacrificale si interseca presto lungo pagine che, nel trattare dei Veda, continuamente guardano anche al nostro Occidente incerto. “Il sacrificio è un gioco dove le cose non sono mai del tutto quello che sono”, con buona pace di Aristotele, e per la gioia di Vernant; “il sacrificante è la vittima, però non lo è mai del tutto”, è un’altra riflessione cocente dello stesso libro.

"L'istituzione della dieta carnea fu una necessità, ma soprattutto una colpa, una immane colpa. Per giustificare la necessità, si provvide a dar forma all'edificio teologico del sacrificio, tempio-labirinto, dalle biforcazioni innumerevoli". Ma questa necessità del sacrificio, una colpa istituzionalizzata, nascondeva un segreto ancora più fosco. "Quella colpa alludeva a un'altra colpa, più radicale, di cui il sacrificio sarebbe stato una conseguenza: la colpa dell'imitazione, di quella scelta remota che aveva spinto una specie di esseri predati ad appropriarsi di comportamenti tipici dei loro nemici predatori". Contro Hegel, che aveva definito notoriamente l'uomo come un animale malato, Girard ripropone, estremizzando Aristotele, un'idea dell'umano come animale mimetico par excellence. Se il passaggio da cacciati a cacciatori resta al centro di un altro dei tasselli maggiori dell'Opera Unica calassiana, il vertiginoso Il Cacciatore Celeste, L’ardore già gli premetteva una variazione sul tema della mimesi girardiana, che è al tempo stesso un omaggio e una critica al fondatore della teoria mimetica.

Calasso lo riconosceva senza problemi - torniamo a Kasch: “l’ipotesi di Girard tocca una verità a cui nessun antropologo si era mai avvicinato, sfiora la ferita aperta del sacrificio, impone la domanda più grave e sempre elusa: ‘Chi immolerà chi?’”. “Ma nulla è più insopportabile del sacrificio che continua a operare nell’età che lo rinnega”, tuonava Calasso in un altro punto de La rovina di Kasch. Eppure la domanda su chi è il sacrificando e chi è il sacrificatore si ripercuote immutata, e instancabilmente, anche nel nostro tempo voglioso di secolarizzazione. Il paradosso è gustoso, e già dai tempi antichi: “occorre che vi sia assenso e gioia da parte della vittima”, perché il sacrificio sia gradito agli dèi. Delle conseguenze di un sacrificio nefasto è meglio non parlarne - lo sa bene Ifigenia, lo sa bene Agamennone, lo sanno bene gli Atridi tutti.

Rispetto ai tempi de La rovina di Kasch, la critica calassiana al pensiero girardiano si è ulteriormente affinata e seghettata - per quanto nell'interregno tra i due libri Calasso abbia pubblicato per l'Adelphi una decina di saggi del francese. “La domanda ultima che il sacrificio pone: perché, se si vuole un contatto fra l’umano e il divino, occorre uccidere un essere vivente? Stranamente, è proprio questa domanda, che sta alla radice di tutte le altre, a essere elusa nelle varie e opposte teorie del sacrificio. Girard non la elude, ma perché intende il sacrificio come puro fatto sociale, dove il divino è solo una facciata di comodo. E allora la violenza sacrificale diventa lo sbocco di una violenza diffusa. Ma se il divino, come lo intendevano gli antichi teologi, fosse esistente - anzi fosse la pienezza dell’esistente -, come si spiegherebbe la continua ripetizione di atti cruenti che gli vengono rivolti?”.

Paradosso gustoso: René Girard, fosse l’ultimo dei grandi pensatori cristiani, minimizzerebbe il divino in un’ottica omni-sociale. E la questione ultima del sacrificio resta pur sempre inespressa. A differenza del sacro cuore di Baudelaire, il simbolo non è ancora messo a nudo.

Nei paragrafi successivi de L’ardore - siamo in uno dei suoi capitoli più alti, quello conclusivo, sibillinamente intitolato Antecedenti e conseguenti - Calasso opera quel chiasmo che tutte le quattrocento pagine precedenti, e se vogliamo tutta la sua Opera Unica fino a quel momento, preparavano: il crocevia tra la teoria occidentale del sacrificio, arrivata al massimo della sua autocoscienza e delle sue criticità con Girard, ed il pensiero originario dei Brāhmaṇa sul medesimo tema. Se “la tesi dominante nell’antropologia del ventesimo secolo, acutizzata ed estremizzata nel pensiero di Girard” sancisce che “ogni società, per sopravvivere, ha bisogno del sacrificio”, vuoi “come istituzione che produce un effetto omeostatico, vuoi “come meccanismo che permetta di concentrare la violenza prodotta al suo interno su una” sola “vittima”, i Brāhmaṇa staticamente consciano di una verità più radicale. Questa verità attesta che “il mondo si fonda sul sacrificio”. Il sacrificio si compie “quando il sovrappiù di energie disponibili viene bruciato”. Un passo ancora, e saremmo già dalle parti dell’ecologia.

La critica a Girard formulata ne L’ardore approda su toni austeri e desolati. Comprendere non implica per forza il risolvere, e l’analisi non è per forza una liberazione, lo sa bene Calasso - contro Gesù, e contro Socrate. “L’illusione di Girard è consistita nel pensare che il sacrificio nella versione brahmanica fosse un camuffamento dell’altro sacrificio, che mira all’espulsione di un capro espiatorio. Ma obbedendo a questa illusione, Girard non faceva altro che ripercorrere il movimento interno alla società secolarizzata, che non riesce più a vedere la natura o una qualsiasi altra potenza di là da sé stessa, e ritiene di coincidere con il tutto. Alla religione della società, che è la forma suprema della superstizione, l’attenzione del pensiero non si è ancora rivolta, se non per barbagli, come talvolta in Simone Weil. Eppure sarebbe questo l’immane oggetto di contemplazione che ci sfida, così smisurato e pervasivo da non essere percepito neppure come oggetto”. Anche la società si avvia ad assumere i ranghi di quell’Invisibile, così a lungo cercato e poi disdegnato. Aporie.



Il cristianesimo implica la fine dei sacrifici. La secolarizzazione approda alla fine dei riti. La secolarizzazione imita quanto più possibile le strutture e le iconografie cristiane, lo ha dimostrato Ginzburg - la secolarizzazione è gelosa di ogni elemento religioso che possa ancora sopravvivere tra le sue maglie, scrive MacGregor nelle ultime pagine di Vivere con gli dèi, altro grande titolo adelphiano. Pensare la fine dei riti implica celebrare la fine della comunità - nell’impossibilità sopraggiunta di ogni funerale. A Girard, si deve pur sempre la fermezza di sguardo imprescindibile pensare la necessità del sacrificio, almeno per le civiltà arcaiche. A Calasso, l’indicazione di una possibile sortita radicale, che potrebbe portare alla fine di ogni sacrificio e forse sinanche di ogni rivelazione - nell’immanenza delle correspondances. Ma come pensare al di fuori della società, nella foresta? È di questo tenore il pensiero che ci resta da pensare.

Citiamo liberamente da L’ardore, lasciando scorrere la prosa. “Nella sua purezza, la società secolare ignora i riti. Ma sbarazzarsene non è cosa facile. Per giungere a questo, drappelli di protestanti dovettero sgombrare il terreno, lasciando in eredità, fra l’altro, le guerre di religione. Nella società secolare, i riti sopravvivono per certe necessità giuridiche: il giuramento nei processi, le formule predisposte nei matrimoni. Tutto il resto è fatto di inveterate abitudini, come i compleanni. Così le sfilate militari o le allocuzioni dei capi di Stato il giorno di Capodanno”.

Piacevolezza della secolarizzazione, suo furore. “Svegliarsi, in un mattino scialbo o radioso, e sapere che non si ha alcuna incombenza, verso nessuno. Farsi un caffè, guardare fuori dalla finestra. Sentimento di una durata informe, impregiudicata. Indifferenza. Per giungere a questo, vari millenni erano passati. Ma nulla ne rimaneva, se non una cortina opaca, su ogni lato. Nessuno celebrò il fatto come una conquista. Era la normalità, finalmente raggiunta. E questo era il punto decisivo: il tempo non era già occupato, scandito, ferito da gesti obbligatori, in mancanza dei quali si temeva che tutto potesse disfarsi. Questo avrebbe potuto produrre una sensazione esaltante. Così non fu. Così la società secolare non ha saputo apprezzare le sue scoperte”.

Adesso il vuoto. “La prima sensazione fu quella di un vuoto. E di un certo tedio, che gli era connesso. L’animale metafisico si guardava in giro, senza sapere a che cosa appigliarsi. E la società secolare, guardando a sé stessa, si è trovata inconsistente. Subito ha sentito il bisogno di qualche causa a cui aggregarsi, per darsi corpo e una riconquistata saldezza. E, con le cause, sono tornati gli obblighi. Perché allora aver abbandonato i riti? Le cause sono sempre più grezze dei riti. Sono altrettanti parvenus del significato”.

Questo è quanto. “Così la società secolare - e del pianeta intero potenzialmente si trattava - ha perso una grande occasione. Avrebbe potuto ritrovare una condizione di stupore davanti al mondo, però ormai a una distanza sicurezza, che la proteggesse dalla sua invadenza. Ma qualcos’altro è accaduto”. Questo qualcos’altro è innominabile, ma attualissimo.



“La teoria del sacrificio fa ruotare tutti i gesti ripetibili e reversibili - respiro, eros, musica - intorno ai due gesti irreversibili: mangiare e uccidere. Sono questi i due gesti in cui la freccia del tempo ferisce di una freccia senza guarigione. Ma il suo segreto è quel piccolo squarcio al suo centro: la piaga aperta nella vittima, la vita senza ritorno palpabile: l’esoterico dell’esoterico, il segreto del segreto, il tremendum ultimo, nel mondo arcaico, è la percezione più banale e diffusa nel mondo nuovo: l’irreversibilità del tempo. Ancora una volta il mondo senza dèi si rivela essere il mondo dell’esoterismo coatto” - La Rovina di Kasch, p. 184



Adesso che è morto anche lui, di Calasso affiora con insistenza il lato gnostico. Non che fosse una sorpresa, tanto più che a lui si dovevano le prime, grandiose edizioni dei Vangeli e delle Apocalissi gnostiche secondo Moraldi. Ma Calasso è più fine, sottile. Radicale. La sua gnosi va ben al di là della gnosi cristiana - la sua gnosi va ben al di là della gnosi antica tutta. Adesso, nelle ultime pagine di Sotto gli occhi dell'agnello, Calasso può permettersi il salto di specie: "almeno" - nientemeno - "la colpa precede l'esistenza". Finalmente, apertis verbis - poter dare ragione ai Veda. È in questa frase che culmina la ricerca sul sacrificio iniziata con La rovina di Kasch, per non dire con L'impuro folle. È in questa frase che Calasso, senza abbandonare del tutto la parafrasi e l'interpretazione del simbolismo cristiano che fa da cornice al suo ultimo libro, dice qualcosa di irriducibilmente suo. È qui che si rinnova anche la differenza abissale tra Girard e Calasso. Tra uno studioso dichiaratamente credente, e un - come definirlo? -- pensatore fa fin troppo passe-partout - palpabilmente dedito allo sguardo dentro all’invisibile, e all’inespresso. Forse è questa la verità che l’universalità delle strutture cognitive umane provano a formulare - al netto di ogni inconscio collettivo alla Jung, e di ogni sarabanda folkoristica di Frazer. Ma poi, in fin dei conti, cosa conta davvero? Il manuale approntato di decalogo su come non trovarsi ad essere la vittima? O la consapevolezza che vittima e sacerdote, sacrificando e sacrificatore sono due ruoli in continuo sovvertimento, destinati a coincidere? Il manuale spetta a Nietzsche, la consapevolezza a Calasso. Girard oscilla tra i due poli. Se l’esordio letterario di Calasso, prima ancora de L’impuro folle, può essere riconosciuto nel Monologo Fatale, il saggio posto in coda all’edizione di Colli dell’Ecce Homo, è evidente che anche l’ombra di Nietzsche si profila, nel confronto e nello scontro tra Calasso e Girard. Ma vano sarebbe spendere ulteriori parole per indagare come Calasso e Girard rispettivamente si posizionino, nei confronti del gran tedesco. A volte conviene lasciare la parola a un quadro - proprio come fa Sotto gli occhi dell’Agnello, ma con un’essenzialità ancora più sobria di un van Eyck.



"Se l'uccisione è l'inizio di tutto, Abele è il primo che tentò di metterla in atto. Tutta la storia, da allora, generazione dopo generazione, è una serie di accorgimenti per impedirglielo. L'uccisione viene elusa in ogni modo. E ogni volta torna. Allora Gesù decise di farsi uccidere, invece di uccidere. E con questo si oppose all'ordine del mondo, voluto da suo Padre. Il suo gesto fu la domanda che aveva sempre evitato: perché hai voluto così?". Questo lamento trova posto tra le ultime pieghe dell'Agnello calassiano, lì dove la prosa si perde a celebrare il retroscena salvifico dell'etimologia di Paraclito. Ma

“Io chiedo a ogni uomo che pensa di mostrarmi ciò che sussiste della vita”. Su questa affermazione dei Journaux Intimes dello scrittore francese si apriva Ciò che si trova solo in Baudelaire. Calasso sa essere tagliente anche post mortem. La risposta la si trova disseminata in tutta la sua opera, nei ricorrenti riferimenti a quel Resto che, un po’ bataillaniamente, veniva da lui posto in correlazione diretta con l’esigenza stessa del sacrificio. “Si tratta sempre di questo: come usare la parte eccedente, quella parte che, sommata alla società darebbe la natura”, sanciva un paragrafo de La Rovina di Kasch. A questo passo facevano eco molteplici voci de L’ardore, un libro che arrivava a scomodare il concetto cristiano di cinosi - in assonanza con lo svuotamento del vedico Prajāpati - per accarezzare la possibilità che il mondo stesso sia questo Resto, frutto di un autosacrificio di Dio ancora più paradossale da quello consumatosi sulla croce. Sacro resto, resto destinato a soffrire - solo un’Apocalisse, quell’autentica, potrebbe annullare il mondo fino a lasciarne neanche più un lacerto. Sparagmi: a questo si riducono i riti, quando di essi sopravvivono solo ricordi confusi e pantomime, com’è adesso, com’è sempre stato, perché dei riti si parla solo al passato.

Ne Il minotauro di Friedrich Dürrenmatt, autore pubblicato dall’Adelphi e particolarmente caro a Calasso, il figlio illegittimo di Pasifae e del Toro, il sacrificatore per eccellenza, restava ucciso dopo che Teseo, con un gioco di specchi, lo aveva fatto illudere di essere in procinto di incontrare un altro come lui, un altro sé: che fosse questo ciò che temevano, nelle rispettive solitudini intellettuali, Calasso e Girard?

“Che brutta storia esser liberi dentro

La solitudine dei corridoi

Essere liberi e uomini mai”

Baustelle, Il minotauro di Borges







Indicazioni bibliografiche


Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano 1983

Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi, Milano 2010

Roberto Calasso, Il Cacciatore Celeste, Adelphi, Milano 2016

Roberto Calasso, L’Innominabile Attuale, Adelphi, Milano 2017

Roberto Calasso, Ciò che si trova solo in Baudelaire, Adelphi, Milano 2021

Roberto Calasso, Sotto gli occhi dell’Agnello, Adelphi, Milano 2022

Friedrich Dürrenmatt, Minotauro, Adelphi, Milano 2021

Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano 2015

René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980

René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987

Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, Nottetempo, Milano 2021

Neil MacGregor, Vivere con gli dèi. Genti e credenze, Adelphi, Milano 2019

Elena Sbrojavacca, Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso, Feltrinelli, Milano 2021

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