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Portando Weininger all'estremo | Su emancipazioni, soggettività e femminismi

Aggiornamento: 14 gen 2021



Otto Weininger – intellettuale austriaco del primo Novecento, figura singolare di ebreo antisemita, antifemminista, autore di un libro clamoroso, Sesso e carattere, la cui tesi di fondo, inemendabile, è che la donna sia in tutto e per tutto inferiore all’uomo – è un personaggio che paradossalmente si può impiegare, con un bel numero di giravolte, ammetto, per una delucidazione della causa femminista per l’emancipazione della donna. Di tale auspicio mi proclamo io stesso convinto assertore, per sgombrare il campo da dubbi legittimi, dato che affronto il tema in compagnia del principe di tutti i misogini. Eppure, nonostante la natura complessivamente impresentabile del personaggio – è anche razzista e antisemita – Sesso e carattere l’ho letto con interesse e a tratti meraviglia, per motivi che dirò in seguito. Sia chiaro però che non è con ammiccamenti ironici, retropensieri, paradossismo da saltimbanco che mi accingo all’impresa di asservire Weininger alla causa femminista. L’obiettivo, barlume della mia mezza vocazione di radicale, è mettere a sistema gli irriducibili e le antinomie più estreme per vedere dove e come quagliano.


Parlando in termini generali, emancipazione del genere femminile non vuol dire solo parità di diritti – alla quale, per dire, Weininger è favorevole (1) – ma anche liberazione da un sistema di potere – il patriarcato – che orienta la società e i comportamenti di uomini e donne secondo codici di origine maschile. La stessa ingiunzione della realizzazione individuale, l’assecondamento della logica del capitale e del lavoro salariato, insomma l’ingresso in questa strana società che è la nostra, comporta automaticamente l’iscrizione e il timbro del patriarcato sulla donna. Non solo: se si seguono le più raffinate teoriche del movimento, il linguaggio stesso, “fal-logos” codificato dai patriarchi, improntato a una logica autocentrata e totalitaria, asservirebbe la donna a una forma mentis non sua, mascolinizzandola ovvero reprimendola e così determinando la limitatezza stessa della partecipazione storica delle donne allo sviluppo della cultura e della società (2). Emancipazione, quindi, etimologicamente, comporterebbe – all’ottativo – una liberazione da una schiavitù, nel senso anche di una redenzione – sostanzialmente un sinonimo, se pure non piace la declinazione religiosa: dal latino “redimere”, ricomprare, e col comprare anche liberare lo schiavo – che una vaga coloritura escatologica: si va verso un mondo migliore, un mondo libero.

Il femminismo storico si iscrive, mi sembra abbastanza chiaro, nella lunga tradizione di escatologie della liberazione in capo al Cristianesimo storico – che per primo, con Girard, vuol liberare gli oppressi – e si conclude, per ora, con la liberazione dei singoli individui dai generi culturalmente definiti (3); questo però passando cronologicamente per la liberazione della borghesia, quella del proletariato e quella delle minoranze etniche dai rispettivi oppressori storici. Dopo Cristo – o se si è schizzinosi: dopo l’Illuminismo– la storia universale corre verso la liberazione-redenzione di tutte le minoranze oppresse. Le donne si iscrivono in questa teleologia dell’emancipazione come uno degli anelli più importanti – forse quello più gravido di conseguenze filosofiche e sociali.

Redenzione o liberazione comportano un precedente stato di asservimento e schiavitù – e in tale condizione si suole infatti rappresentare la donna all’apice del patriarcato: asservita al focolare domestico, il suo “io” imprigionato, non libero di pensare e agire nella sfera pubblica. Nel mondo antico, la condizione schiavile implicava la riduzione dello schiavo a oggetto, a proprietà, bene mobile dal padrone (4) – e analogamente la donna oppressa dal patriarcato è contemporaneamente anche cosa smerciabile e manipolabile, condannata alla passività e al silenzio. Caratteristica eminente dell’oggetto è quella di non essere libero, oltre che muto – ironicamente, in questo senso: di esser “soggetto” o “assoggettato” – e di non avere un valore intrinseco, quale singola esistenza irripetibile, ma di riceverlo sintatticamente dai soggetti che ad esso si rivolgono, o dalla posizione che esso occupa nella rete di oggetti consimili o riferibili, di cui è copia o analogo, mai originale. Il valore dell’oggetto – ovvero della merce – è insomma sintattico e comparativo, e viene in luce espressamente nel campo di forze e sguardi incrociati del libero mercato, nel quale le merci guadagnano o perdono di stima in base a fattori eteronomi, minimamente connessi alle loro qualità intrinseche.

Ma perché tutte queste premesse economico-filosofiche? Allo scopo di tornare a Weininger, chiaramente: che nel suo delirio antisemita-antifemminista, equiparando giudaismo e femminismo, sostiene che la società proceda verso una svirilizzazione e una progressiva femminizzazione – e va da sé: giudaizzazione – che invece di sottrarre le donne alla condizione servile trasforma al contrario tutti gli “uomini liberi” in analoghi della donna-oggetto.

Bisogna capire cosa intenda Weininger con svirilizzazione: caratteristica eminente del maschio, a suo dire, è la possibilità di destare in lui una soggettività di tipo kantiano, logica ed etica, della quale la donna e l’ebreo sarebbero privi o meno provvisti. Non entrerò nel merito della questione, perché non ho né le competenze né la giusta posizione etnica o di genere per dire se la donna o l’ebreo siano privi del soggetto kantiano – ovvero se in qualche misura dispiaccia, alle donne o agli ebrei, sentirsi dire che qualcuno non vorrebbe attribuire al loro idealtipo, e non a loro come singoli individui, la nozione di soggettività kantiana, europea, storicamente determinata, e in generale piuttosto démodé. Voglio far presente che una delle critiche più importanti che da area femminista si rivolge al sistema patriarcale è appunto la pretesa che esista un’unica soggettività di tipo cartesiano-kantiano, e che questa sia concepita come unica e vera forma della soggettività umana in generale (5). È razzistico dire che la donna e l’ebreo non sono “umani” nel senso di quella specifica idea di “umanità” storicamente definitasi al culmine della società borghese europea e arrogantemente appiccicata al corpo del Pianeta nei secoli successivi? Indubbiamente sì, ma ce ne sbatte il giusto, credo…

Weininger, per semplice difetto storico, non ha la possibilità di portare “all’estremo” il suo ragionamento, rinvenendone la conferma lampante nel villaggio globale moderno, e dunque mi permetto di concluderlo io, con un paio di corollari: se la società e l’umanità vanno verso una femminizzazione – cioè una riduzione della soggettività libera a oggetto, perché “oggetto” era considerata la donna forgiata dal patriarcato (6) – e se il femminismo filosofico e quello politico non hanno ancora trovato una formulazione sostitutiva della soggettività libera che si sia iscritta come alternativa al soggetto patriarcale nel discorso collettivo (7), allora il nostro destino di post-umani è quello di essere ridotti a oggetti schiavili – cioè di diventare tutti, uomini e donne, queer e trans, quella stessa “cosa” oppressa che era – che è, pardon! – la donna sotto il patriarcato, per quanta retorica si faccia o si creda di fare sulla maggiore “libertà” del nostro mondo contemporaneo.


Si guardi a questa sentenza, apparentemente banale e nota, con prospettiva a volo d’uccello: gli esseri umani sono ridotti a oggetti non solo al modo delle “risorse umane” assunte, formate e scambiate nel mercato del lavoro, come se il discorso riguardasse la sola sfera economica. L’ambito è più vasto, e coinvolge la radice stessa dell’umano, cioè il problema della soggettività libera – senza la quale l’umanità, se pure non smette banalmente di esistere, va almeno ripensata daccapo.

Basta porsi alcune domande esplorative per rendersi conto che ciascuno di noi, se pure si considera libero, essenzialmente non lo è. I discorsi nei quali siamo immersi, qualunque ne sia la fonte, amplificati dalla Babilonia mediale, alienano in parte o del tutto la nostra autonomia e ci subordinano al famoso “sistema”, ai rapporti di forza e alle scale di valore consolidate che si perpetuano e si moltiplicano per via imitativa. Pensando alla nostra posizione nel mondo, poi, ben diversamente dal vituperato soggetto kantiano che se ne sta sotto le stelle con la legge nel cuore, rappresentiamo noi stessi come più o meno desiderabili oggetti di desiderio – nemmeno più come soggetti desideranti – iscritti in una rete sintatticamente ordinata di attribuzione di valore. Non valgo in quanto singola vita umana irripetibile – chi ti caga, in quanto nuda creatura? Ce n’è otto miliardi! – ma valgo in quanto ho una posizione sociale o lavorativa, possibilità economiche, frequentazioni e coiti con partner più o meno stabili, un patrimonio immobile e la stima di colleghi e amici. Non deriva forse da questo asservimento volontario alla logica sintattica di attribuzione del valore la capillare depressione cosmica che ci riguarda? E infatti con la pandemia siamo più depressi, perché abbiamo meno occasioni di rivestirci di valore sintattico, di mettere in gioco le nostre qualità nel mercato sociale. Ma è questo, l’umano? A me sembra che siamo come i prigionieri di un campo di concentramento che però credono di vivere in un villaggio vacanze, convinti dagli stessi video di propaganda che Hitler faceva registrare nei ghetti – e che però aveva il buon gusto di non somministrare almeno agli stessi ebrei. Ci guardiamo i numeri di serie a vicenda e ci chiediamo chi scopi con chi – perché è un ben strano campo di concentramento, questo, in cui tutti scopano o vogliono scopare! – o chi abbia più privilegi di chi. Il discorso è paradossalmente riassumibile in una battuta-profezia di Girard sul mondo che verrà, minimamente modificata e ribaltata solo di segno: «gli uomini saranno schiavi gli uni per gli altri». E qui ci tocca, tanto per non ripetersi, tornare a parlare del fantasmatico e fumoso ‘aLtRo’ – spero di averne così reso graficamente la natura spettrale – cui tanta attenzione si dedica su questo blog.

Tra le cose che più ripugnano Weininger, un posto speciale ha l’eteronomia, la subordinazione del soggetto alla legge d’altri. Il fatto di essere soggetti all’accusativo, in balia d’altri per ciò di cui ne va di sé stessi, è per lui il massimo scandalo. La donna, da questo punto di vista, è per Weininger oggetto di massimo disprezzo, perché dipende sempre dall’uomo, come oggetto di desiderio, come recipiente di valore e in generale come ostaggio della balìa d’altri – non dimentichiamo i figli, in questo novero (8). Da questo punto di vista, la figura dell’ebreo senza patria o radicamenti, ma sempre ospite od ostaggio, orbato di ogni residua sovranità, si sovrappone a quella della donna con speculare coincidenza – e non è un caso se, tra i massimi pensatori di matrice ebraica del XX secolo, Lévinas e Buber, il pensiero di una soggettività all’accusativo, antimoderna e femminile, riveste una posizione così centrale.

Le donne come gli ebrei, per Weininger, incarnano una soggettività veramente “soggetta”, d’oppressi supini e acquiescenti, subordinati all’alterità, che neppure soffrono come scandalo l’eteronomia che li investe, perché nemmeno la riconoscono – le donne – e quando ben la riconoscono – gli ebrei – cercano persino di venderla come “cosa buona”. Ben diversamente il maschio ariano-kantiano – sì, tra le altre cose il nostro sembra credere anche nella razza ariana – saldo nella sua legge morale, riassume il mondo entro la propria soggettività come “microcosmo”. Per questo motivo Weininger, lungi dall’accettare lo stato delle cose, auspica un movimento di liberazione di quel poco della soggettività kantiana che è dormiente nelle donne – chiaramente a guida maschile – e allo stesso tempo invita ciascun ebreo – e lui per primo, ebreissimo – a intraprendere un faticoso percorso di redenzione-liberazione che passi dal risveglio della suddetta soggettività in loro sopita. Credo che alla fine Weininger, giudeo aspirante ariano, non sia riuscito nel suo intento, oppure che disperasse di compiere questa desemitizzazione o defemminizzazione di sé stesso innanzitutto, perché si è suicidato a ventitré anni – e poco dopo l’uscita del libro. Neanche il tempo di provarci!

È innegabile che un certo femminismo, nei riguardi del discorso sull’emancipazione, persegua implicitamente le stesse logiche di Weininger – il più maschilista dei maschilisti – auspicando un risveglio delle coscienze femminili che non consista in altro che nell’autodeterminazione logico-razionale kantiana, virilissima, che segnerebbe un trionfo ironico e sotterraneo del patriarcato proprio laddove si inneggia al traguardo ultimo della liberazione femminile. La “guida maschile” sarebbe qui solo dissimulata, ma non consapevolmente abiurata. Cosa sono in fondo gli archetipi della donna "con le palle", la carrierista e le varie self-made businesswomen additate a scopo educativo se non le versioni finali dell’uomo borghese, razionale e self-made di cui il soggetto kantiano è una specie di distillato filosofico? (9)


Se il femminismo mediamente insiste a dire che l’emancipazione non è completa, e che il patriarcato sussiste in forme sotterranee e sibilline, io sono d’accordo, alla luce di quanto detto. Però occorre fare delle precisazioni: non è qui affatto il pensiero maschile-borghese, nella forma che potrebbe essere la soggettività classicamente intesa, a condizionare negativamente con la sua inerzia ideologica gli sviluppi del movimento. Piuttosto, bisognerebbe parlare dei dispositivi di potere e disuguaglianza che ci ha insegnato a riconoscere Foucault, il quale forse non viene letto oggi con sufficiente attenzione, e che invece saprebbe come sgombrare il campo da un semplicismo piuttosto diffuso, che cristallizza la nozione di “patriarcato” in un insieme di ben delineate e consolidate pratiche di oppressione, misconoscendone la natura rizomatica e, oso, indipendente dal genere stesso di chi le esercita. Foucault parla infatti di rapporti di forza, effetti di divisione e disequilibri che si è tentati spesso di leggere con la lente paradigmatica del potere-Legge in senso classico, “giuridico-monarchico”, dotato di un centro e intenzioni ben definite. Un nemico con un volto, dunque. Ma contro questa visione semplicistica e “ancien régime”, Foucault ci rammenta che il potere si esercita a partire da innumerevoli punti, all’interno di relazioni disuguali e mobili, e che le cosiddette “grandi dominazioni” – il patriarcato, per dire – non sono altro che effetti di egemonia sostenuti continuamente dall’intensità e dalla ripetizione di questi scontri – e nello stesso modo, per la Butler, sono stati codificati il genere maschile e quello femminile. Tali relazioni mobili e diseguali assumono retrospettivamente l’aspetto di una politica unitaria – ciò che permette la comoda querimonia contro il “patriarcato” che, come la “fede degli amanti”, che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Tutto questo per dire che i foucaultiani “discorsi sul sesso” che hanno prodotto lo stato presente delle cose – l’oppressione femminile, le discriminazioni, ma la stessa possibilità dei discorsi di genere – non sono codificati una volta per tutte da un potere-cis che starebbe al di là della barricata e contro il quale si muoverebbe un coerente potere-trans, che compattamente opporrebbe al discorso del patriarcato quello dell’emancipazione, ma sono invece prodotti e ri-prodotti costantemente da un sistema composto da rappresentanti più o meno coerenti del potere-cis (il tradizionalismo, la Chiesa, i conservatori) e rappresentanti spesso assai meno concordi – in quanto pluralisti! – del potere trans (il progressismo, la comunità LGBTQ e i liberal) che lottano tutti insieme “per la vita” – cioè per la biopolitica. (10)

Sottoposti a queste logiche rizomatiche di potere, presi in questi rapporti di forze mobili che la medialità universale amplifica, uomini e donne hanno visto la propria soggettività sempre più soffocata – la forza, dice Simone Weil, muta l’uomo in pietra – e come pedine di un gioco senza giocatori, il cui senso si riduce alla loro posizione sulla scacchiera da un istante all’altro, cose-buone per fare una mossa e presto “mangiate”, uomini e donne, dicevo, si sono ritrovati col tempo ad assomigliare sempre più alle donne-oggetto del patriarcato che si sarebbero dovute liberare. Non è forse vera quindi la profezia di Weininger, che una femminizzazione del mondo è avvenuta, ovvero una riduzione di soggetti potenzialmente liberi a oggetti, siano essi uomini o donne? E al giorno d’oggi chi non è – non si concepisce – come oggetto? Ancora: oggetto d’esame, d’analisi, di valutazione, di catalogazione – siamo una società che crea le “schede personaggio” con i curricula, e l’effetto di realtà che quei documenti producono è che tu vali – sei – quella roba lì. Che altro ci sarebbe da “valutare”, del resto? I libri che ho letto? I film che ho visto? Anche quelli “fanno curriculum”. E poi: una certa cura del corpo, un certo narcisismo che è carattere storico della donna sotto il patriarcato – e prodotto quindi del sistema – oggi lo vediamo esteso a molti maschi, la cui vanità supera – è maschilista dirlo? – quella dello stereotipo femminile. Un’attenzione smodata all’opinione degli altri, alla propria posizione in società, al proprio valore come prodotto di flussi di desiderio e interazione sociale – che erano, ripeto a costo di anatemi, caratteristiche della donna non ontologicamente definita, ma di quella donna ancora oppressa e forgiata dal sistema patriarcale – non vediamo oggi questo sistema come unica sorgente universale del valore degli individui? Nemmeno intuiamo un fuori da questo sistema – nemmeno riusciamo a capire la soggettività libera kantiana, tanto deplorata in sede di femminismo filosofico, e che oggi forse sarebbe il male minore.


Tutto questo per dire? Che ancora una volta la lotta per l’emancipazione femminile – ma a questo punto direi: l’emancipazione del genere umano, dato che gli uomini sono diventati pure loro oggetti – passa da una revisione della soggettività. Volevamo che le donne non fossero più oggetti ma soggetti. Volevamo però che non fossero soggetti borghesi – giustamente – ma che ci presentassero la loro soggettività femminile, libera da sovrastrutture patriarcali, liberatoria per tutti. Ci troviamo invece in un patriarcato ultrapotente ma privo di centro, totalitario ma mite, che non opprime però laddove vogliamo credere che lo faccia – come nei titoli degli articoli di giornale che osano circostanziare i “femminicidi”, oppure nelle parolacce come “troia” e “frocio”, che alimentano le discriminazioni, e che vorremmo o eliminare o rendere unicamente disponibili al “libero soggetto” che voglia autodeterminarsi tale. Tali pratiche censorie, di cui capisco in parte la ratio, ambiscono a una certa strategia di manipolazione del discorso che è però, a ben vedere, una resa incondizionata allo strapotere del linguaggio e un’umiliante ammissione – appunto – della nostra condizione di schiavi subordinati. Come dire: non essendo soggetti liberi di resistere alla persuasione discorsiva delle strutture di potere – la più eminente delle quali è il linguaggio – emendiamo la fonte stessa del potere, il Logos patriarcale! Un bel pruning neuronale che tagli le desinenze discriminatorie, nocive come il troppo sale, seasoning di asterischi che smorbano il giusto ed ecco ammanniamo un bel pappone proteico per questa umanità eternamente adolescente, che deve ancora crescere forte e sana e non può ascoltare le parolacce. Lobotomizzando il bad Logos gli impediremo di insinuarsi come “virus dell’intolleranza” nelle povere menti disarmate di questi eterni minorenni intellettuali che a quanto pare siamo!, incapaci di libero pensiero, sottoni del linguaggio razzista. No: la vera lotta si gioca, io credo, al di là del linguaggio, degli asterischi, degli stereotipi e financo delle buste paga, oso dire. Si gioca nello sradicamento dell’umano – della libertà – dai cuori delle persone – maschi e femmine. Si gioca nell’acquiescenza servile con cui ciascuno di noi si assoggetta a logiche di valore della propria persona ridotta a merce che non derivano dai sistemi d’oppressione classici, dalla famiglia, dalla comunità o né dallo Stato, ma dalla grande sintassi discorsiva della Società Liquida, la cui sostanza è un’immanenza bestiale e tiepida, un grufolamento nel quale tutto è prossimo e tutto è narcotico, tutto è ovattato e nulla ha valore se non in quanto elemento del discorso, descritto da un certo dispositivo di cui non si può indicare il centro di comando – bei tempi in cui Mussolini, Stalin e Hitler costituivano l’autoevidente incarnazione del potere e li si poteva appendere per i piedi! – ma che si subisce comunque, e anzi con una passività di cui fatichiamo a renderci pienamente conto, spesso travestendola da libertà di scelta – come se ordinare dal menu dell’all you can eat rendesse liberi!

La sovraesposizione mediatica, non si ripete mai abbastanza, è il massimo attivatore dell’annullamento sintattico di ogni trascendenza, della riduzione del luogo umano a contatore elettrico, scacchiera per robot, flipper automatico. In questo grande parco giochi dove cose cozzano con altre cose, corpi scopano con altri corpi, robot comunicano con altri robot, il luogo umano per eccellenza, la soggettività, è spazietto polveroso subito ingombrato di cianfrusaglia, che ne copra la vacuità un tempo forse feconda, ora soltanto orribile. Questo non-luogo universale dove tutto è fuso e rimescolato – “coito” lo chiama Weininger, ma è anche l’LCL di Evangelion – non ha spazio perché vi si liberino soggettività in senso classico, ma nemmeno le auspicate nuove soggettività del discorso femminista, che non sono altro, mi sembra, che l’abolizione del luogo dell’io e la completa e impensata acquiescenza eteronoma. Il discorso della tolleranza dei vari “diversi” che compaiono in questa pletora dell’identico, per esempio: l’accettazione dell’altro deve essere istantanea, aprioristica, quasi condizione stessa della nuova soggettività che si vuol chiamare ironicamente “liberal”, con un anglicismo che ha tutte le sembianze di una castrazione. Accettare il diverso non può non essere problematico per il singolo individuo, nella misura in cui egli, per accettare, deve prima confrontarsi con l’altro, cioè vederlo nella sua differenza invalicabile – di altro individuo innanzitutto, e poi di donna, di nero, di ebreo e via andare. Nel coito liberal, invece, l’altro fluisce come attraverso pareti osmotiche: passa, è considerato un breve istante, accettato certo, e presto congedato, perché si passi oltre. Esattamente così funziona il feed di Instagram. Ma l’amplesso non lascia tracce, non è nemmeno vero abbraccio dell’altro, ma interazione elettrica, scambio di bit, occhiolino da intenditore a intenditore, degustatore di alterità altrettanto liberale e illuminato che il qui presente soggetto post-umano. In parole povere: nulla ci offende, da soggetti liberal, ma nel senso che nulla nemmeno remotamente ci tocca – perché forse non c’è davvero più nulla da toccare, nulla contro cui urtare.

Nel discorso pubblico e civile siamo davvero tutti uguali. Non so se sia una mia impressione soltanto. Là dove viviamo – in società – e dove dovremmo teoricamente incontrare le persone, diciamo precisamente, pensiamo pure precisamente tutti le stesse cose. Ma chi incontriamo, alla fine? Con chi ci scontriamo? E si badi che non mi escludo dal novero: sono anch’io una specie di moderno liberale progressista che dice esattamente le stesse di tutti: questo articolo è lo sfogo di un frustrato… E se leggo Weininger è proprio dalla prospettiva di liberale radicale… ma c’è una soglia oltre la quale la tolleranza aprioristica e l’apertura incondizionata non funzionano più, ed è precisamente quando Weininger parla della donna in termini così squalificanti e indigeribili da togliere il fiato. Questo però vuol dire incontrare qualcuno: percepirne la differenza insuperabile, che mozza il fiato – tale è l’eros, che spesso si rivolge al torbido e si nutre di “zozzerie”. E proprio eroticamente, in quanto altrissimo, ho amato Weininger. Allo stesso modo in cui, universalmente criticato, in un ambito di minor peso socio-culturale, ho detto di amare i bislacchi adattamenti di Gualtiero Cannarsi dei capolavori dell’animazione giapponese.

Se la diversità è un valore, essa deve essere appunto valorizzata, non abolita nel discorso che la vorrebbe universalizzare e quindi sopprimere. Se parliamo tra noi due e siamo concordi su tutto, che ne è dell’incontro? Chi sei tu che parli? Chi parla? La differenza che fonda il soggetto è la principale vittima di un discorso confusivo la cui ultima frontiera è compiere anticipatamente in logos ciò che dovrebbe avvenire a livello personale, e cioè la liberazione stessa, l’abbattimento delle “mura dell’animo”. Tale equivoco si basa sul presupposto ormai classico (ma post-moderno) che non esista un fuori-del-discorso, e che la liberazione debba passare necessariamente dalla manipolazione del mondo-logos: e quindi le parole asteriscate, e tutte le varie correzioni a scopo educativo. Tutto sommato non posso dire di non capire l’intenzione, come ho già detto, sebbene ne disapprovi i presupposti e i fini ultimi, soprattutto perché in definitiva nichilistici. Possibile che non esista davvero un fuori-del-discorso da cui partire per sovvertire l’immagine del mondo forgiata dal patriarcato, senza sottoporre il vecchio Logos “casa dell’Essere” a un lifting al botulino? Qualcuno se l’è chiesto, prima di arrendersi all’impiego degli stessi mezzi usati dai regimi totalitari del XX secolo per rieducare le menti alla buona novella della tolleranza? Questa nuova soggettività trans (intendo in senso latissimo, come contrario di cis, e non mi riferisco alla sola sfera sessuale), che doveva abolire il logos maschile, e che ha scelto invece, messa alle strette, di parodiarlo e travestirlo – alludo ai Gay Pride, che politicamente sono appunto i più alti tentativi di scardinamento del discorso patriarcale – questa non-soggettività non-fallogocentrica eccetera eccetera… che ne è stato? L’abbiamo trovata? Ce lo domandiamo ancora, ogni tanto, che cosa potrebbe essere? Oppure non ce lo siamo proprio mai chiesti, che significhi essere individui nel XXI secolo?


Concludo positivamente, ricollegandomi a Weininger e proponendo tre strade, forse un po’ semplicisticamente, e certo ignorando altre e forse più nobili risposte – a tal riguardo, prego chiunque volesse di farmene edotto. Se siamo questa società del coito universale, dell’oggettivazione assoluta, della perdita della trascendenza e della schiavitù mite della società dei consumi – certo, se non si accettano queste poche premesse l’intero discorso decade – e se tuttavia siamo in cerca di una via di liberazione – o almeno di una narrazione escatologica, che ci induca la trepidazione dello schiavo cui è stata promessa redenzione – allora storicamente ci rimangono appunto tre vie, salvo nuovi sviluppi – e al netto di tutti i discorsi apocalittico-religiosi che a partire da queste premesse si potrebbero proporre, aprendo i Vangeli. La prima è un recupero attivo della soggettività razionale kantiana, che sarebbe poi l’auspicio di Weininger – ma che significherebbe sancire che tutto ciò che si è detto nel Novecento non vale assolutamente nulla, e che emancipare la donna voglia dire trasformarla semplicemente in un uomo. La seconda è questa specie di sperimentalismo oggettivista della liquidità liberal, questo soggetto-polvere che è tutto e non è niente, e ricorda davvero l’LCL di Evangelion o una mega-orgia. La terza, e qui ci fermiamo, sarebbe forse una via di mezzo tra le prime due, che coniuga la strenua difesa della soggettività intesa come differenza e l’eteronomia della stessa, che riceve sanzione e battesimo da un’alterità non però indifferenziata e fusionale, ma personale e viva – dal famoso “volto dell’aLtRo” – o che a partire dalla relazione definisce di volta in volta la soggettività – e questa è l’italianissima Adriana Cavarero (11).

Su questo blog si è iniziato a percorrere questa “terza via” in almeno un paio di modi – uno dei quali mi riguarda più da vicino, e cerca di isolare, nella costellazione di questi pensieri della relazione, il fenomeno della “maestria”. Ironicamente, se ne è trovato un esempio piuttosto maturo in Giappone, e più precisamente nella narrativa popolare animata che ha segnato le adolescenze dei coetanei di chi scrive. Laggiù di gender ce n’è un sacco, per dire – travestitismi, gender-swap, yaoi, yuri, donne-dominatrici: per tutti i gusti – ma nessuno penserebbe mai di censurare un anime di grande successo come Darling in the Franxx (2018), dove i classici robottoni salva-pianeta sono pilotati da un adolescente maschio in posizione patriarcale di comando e un’adolescente femmina piegata carponi davanti a lui, con delle maniglie montate sul culo. L’anime tra parentesi è molto bello, sebbene non si possa certo dire migliore del suo modello-ostacolo Evangelion. Da noi non sarebbe mai stato possibile non dico produrlo, ma nemmeno concepirlo. Su Netflix infatti non si trova. Però di Big Mouth, se credete, è appena uscita la quarta stagione.



* * *


(1) Otto Weininger, Sesso e carattere, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012, p. 336.

(2) Essenziali in tal senso le riflessioni di Luce Irigaray (Speculum. Dell’altro in quanto donna, 1974), ma si tratta di un tema piuttosto diffuso in area franco-italiana.

(3) Ma già si preparano nuovi fronti della liberazione! I prossimi oggetti-cosa in attesa di prodi redentori sono gli animali, per cui rimando alla nostra Bianca Nogara Notarianni e ai suoi articoli, e in generale a tutto il panorama anti-specista.

(4) La redenzione – che con le religioni storiche assume significati più ampi di quello meramente economico – comportava il pagamento del prezzo dello schiavo da parte di un “redentore” – voilà Cristo – che riscattando liberava: rendeva la libertà a un prezzo. Lo schiavo-oggetto, così redento, acquisiva così una libertà-soggetto della quale, comunque, non tardava a privarsi nuovamente, e in parte volontariamente, dal momento che sopravvivere come uomini liberi nel mondo antico non era questa gran pacchia – niente welfare state, centri commerciali o cinemini: e dunque meglio rendersi nuovamente in schiavitù a un pasciuto patrizio per il quale far lavoretti, dal quale farsi nutrire e nel cui seno morire placidamente in tarda età La figura del liberto romano, che viene redento con il suo gruzzolo messo da parte negli anni da schiavo, è l’unica che sopravvive al ciclo infinito delle liberazioni e successive riduzioni in schiavitù delle classi oppresse nel mondo antico. Il denaro rende liberi, dicono. Per approfondimenti, rimando ai saggi di Moses Finley sulla questione (Economia e società nel mondo antico, Laterza, Bari 1984).

(5) Mi vengono in mente, nel merito, Virginia Held (Etica femminista, Feltrinelli, Milano 1997), che fu la prima scrittrice femminista che lessi, e Sandra Harding, che però conosco solo indirettamente.

(6) E non perché lo creda chi scrive!, ribadisco spero inutilmente. La donna informata dal patriarcato è oggettivamente un oggetto – di sguardi, valutazioni, desiderio e volontà d’agghindo, cosa bella, muta e passiva – e se lo neghiamo con ciò stesso neghiamo il senso della lotta per l’emancipazione. Non intendo che le donne siano ontologicamente degli oggetti, ma che la donna fuoriuscita o quasi dall’immagine del mondo forgiata dal patriarcato non è altro che quello… Chissà se mi sono spiegato, gulp.

(7) Si potrebbe obiettare che, a livello politico, pensatrici come Judith Butler e Donna Haraway abbiano trovato in verità una nuova formulazione della soggettività, pluralistica e anti-identitaria, che si candida a sostituire il soggetto cartesiano e che ha effettivamente inciso nell’immaginario collettivo, soprattutto grazie al successo che queste teorie hanno incontrato presso la comunità LGBTQ. Il discorso da aprire a riguardo sarebbe molto ampio: se ne parla, in parte, nel seguito dell’articolo.

(8) Vorrei davvero far qualcosa per riabilitare almeno parzialmente questo diavolaccio di Weininger: quando parla della “donna”, per esempio, egli ne intende qualcosa come l’idea platonica, che non crede incarnata da nessuna donna in particolare (non generalizza, quindi), ma in grado minore o maggiore da donne e uomini – sì, pure loro! – dotati di caratteristiche femminili. Tra parentesi: premessa al libro intero è una teoria delle caratteristiche del maschile e del femminile che tra i fautori del discorso butleriano-foucaultiano sul genere come dispositivo culturale e in generale tra gli assertori della sessualità come spettro non dicotomico troverebbe non pochi consensi.

(9) Riconosco il semplicismo dell’argomento, alla luce del fatto poi che non conosco così bene Kant. Alludo a un nodo concettuale molto vago, che con la specifica filosofia di Kant ha solo latamente a che fare, e che è il soggetto cartesiano singolare e al contempo universale, autodeterminato e razionale, che viene alla luce durante i secoli del consolidamento della mentalità borghese (XVII-XVIII).

(10) Ho parafrasato quasi alla lettera le pp. 83-87 di M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1988, pagine straordinarie che dovrebbero costituire una specie di vademecum contro tutti quei semplicismi che si dicono quando l’opinione pubblica si scatena contro “il razzismo”, “il sessismo”, “il privilegio” e in generale tutte le scandalose manifestazioni di forza che i media cristallizzano in feticci con la loro malizia criminosa. A questo riguardo una bella chiosa verrebbe da Baudrillard (Le strategie fatali, SE, Milano 1997, p. 54): «Il potere, in fondo, non esiste: non esiste mai l’unilateralità di un rapporto di forze su cui si potrebbe costituire una “struttura” di potere, una “realtà” del potere e del suo moto perpetuo. Questo sarebbe il sogno del potere che ci è imposto dalla ragione. Ma niente vuol essere così, tutto cerca la propria morte, anche il potere», e infatti è la seduzione a vigere come norma dei rapporti di forza – i Sessantottini, dice sempre Baudrillard in un altro passo, con la loro protesta seducevano il potere a rendersi più forte e oppressivo. Ma questo ragionamento – gulp! – condurrebbe a chiose conseguenti sulle quali oggi è meglio tacere!

(11) A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013. Un altro testo della Cavarero e di Franco Restaino (Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano 2002) suggerisce un altro nome a me ignoto di fautrice di questo “sé relazionale”, cui gli autori dedicano le pp. da 111 a 115: Christine Battersby. Nel libro della Cavarero si trovano delle consonanze molto interessanti tra l’idea di “inclinazione”, immagine opposta alla “rettitudine” del soggetto maschile, e quel fenomeno di dipendenza e abbandono all’altro che abbiamo altrove descritto con la categoria giapponese di amae, come cioè soggettività inerme, in balìa d’altri, la quale non assurge mai a candidata figura di una nuova immagine dell’io. A torto? … Flflflflfl …

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