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Qualcosa come il cristianesimo | 1. Considerazioni sulla Quarta Teoria Politica

Aggiornamento: 28 dic 2020

Un prato fiorito a Lione, Francia

La Quarta Teoria Politica, saggio-preghiera del politologo russo Alexandr Dugin, edito di recente in Italia per NovaEuropa (1), costituisce uno spunto interessante per riflettere di questioni politiche in dialogo con la prospettiva girardiana. In questo articolo imposterò un confronto tra i due pensatori come base per un’incursione futura in un raffazzonato vagheggiamento di un prima-del-politico, che sarebbe appunto il “qualcosa come il cristianesimo” del titolo.

Ho parlato di saggio-preghiera, e mi si consenta l'estro, perché da un lato la 4TP (così d'ora in avanti il libro e la teoria cui si riferisce) si presenta come sistemazione teorico-concettuale dei suoi propri presupposti, che concernono la definizione delle altre tre teorie politiche concorrenti (liberalismo, comunismo e fascismo), la proposta di un nuovo soggetto politico (identificato nel Dasein heideggeriano) e l'analisi antropologica della presente congiuntura storico-politica, innervata da una feroce critica rivoluzionaria del liberalismo contemporaneo e degli Stati Uniti in particolare; dall'altro lato, non si propone come formulazione finale di un dogma politico – nonostante l'apparenza categorica del titolo – ma come vademecum di pensiero, strumento funzionale alla costruzione di una teoria-prassi ancora da farsi, i cui presupposti (almeno quelli negativi) sono però abbastanza chiari. Per questo ho parlato di preghiera, anche con riferimento agli avvicinamenti alla teologia e al pensiero magico pre-moderno rivendicati dall'autore.

Accettate preliminarmente le basi concettuali proposte da Dugin, che si dichiara aperto ai più disparati contributi di pensiero (purché antiliberali e antimoderni), la 4TP è un campo aperto di riflessione. In questo spazio aperto vorrei inserirmi con un occhio all'antropologia girardiana, che Dugin non prende in considerazione.


Superficialmente, nel dibattito contemporaneo, si avvicina la 4TP alla recente riscossa dei populismi europei, accomunati da un universale rifiuto delle logiche globalistiche e liberistiche (e in questo veramente affini alla 4TP) e da qualcosa che assomiglia a un pensiero dell'identità nazionale. Va specificato, per giustizia, che quello che la 4TP propone non è un ritorno ai vecchi nazionalismi, ma un ripensamento del concetto di popolo sulla scorta della riflessione heideggeriana sul Dasein come modalità peculiare della vita culturale, religiosa e linguistica di un dato gruppo umano ("Dasein existiert volkisch"). Dugin propone di rifondare il soggetto politico sulla nozione di popolo intesa come fondo d'essere comune a tutte quelle porzioni di umanità (mi si perdoni la perifrasi, ma Dugin odia la parola "individui") che si riconoscono in una comune intesa linguistica, culturale, religiosa e, in definitiva, tradizionale.

Non è nazionalismo, ma ci somiglia, da un punto di vista esterno, perché considera positivamente la funzione storica e politica delle differenze. In questo senso, in quanto pensiero della differenza, la 4TP si pone in contrasto con la riflessione politica di Girard, che in Portando Clausewitz all'estremo (2) auspica più o meno esplicitamente un'escatologia ispirata ai Vangeli e all'Apocalisse, il cui telos sia l'avvento del Regno di Dio inteso come toglimento di tutte le differenze fasulle con cui gli uomini rimandano la parusìa del Cristo e la rivelazione della loro fondamentale identità, e quindi la fine della violenza mimetica intesa come tentativo di assimilazione dell'identità (fasulla, illusoria) di un altro essere umano o attore storico-politico, nel caso di rivalità tra nazioni. Le differenze proprie dei vari Dasein mondiali, in ottica girardiana, ricadono sotto la stessa misura, nemmeno di falsità, quanto di futilità, di gioco catecontico che ritarda la rivelazione fondamentale dell'identità di tutti gli esseri umani.

D'altro canto, esistono punti di contatto tra i due pensatori. Il più fecondo a mio avviso è la considerazione pressoché identica che Dugin e Girard hanno della postura geopolitica fondamentale della storia contemporanea, i cui attori professano una totalitazzione della propria specifica identità a scapito di quelle di altri popoli. L'esempio classico di Dugin è costituito dagli Stati Uniti, che affratellano i popoli del mondo, cancellandone l'identità, sotto la bandiera del liberalismo democratico-capitalista (3); l'esempio di Girard è la Francia napoleonica e postnapoleonica, che attacca il suo Altro-per-eccellenza, la Germania, allo scopo di portare la pace (4) – dei cimiteri, si intende: la pace in cui tutto sembra Francia, tutto parla francese, e il rivale-ostacolo tedesco è annientato nella sua essenza – ma si capisce che per i tedeschi la considerazione è reciproca e speculare. Sia gli Stati Uniti di Dugin che la Francia di Girard, non a caso, dichiarano di ambire soltanto alla pace – la pace, appunto, che ha inghiottito e annientato tutte le differenze, tutto l'altro-da-sè, nella propria totalità narcissica.

Diversa è tuttavia la prassi che i due autori suggeriscono ai potenziali attori della 4TP e – ma di "attori" Girard non parlerebbe – dell'escatologia girardiana, soprattutto in relazione al rischioso pensiero sulla "fine della storia", sotto la duplice minaccia del globalismo patrocinato dal pensiero unico liberal-capitalista (Dugin) e della crisi mimetica assunta a sistema nel collasso delle istituzioni sacrificali tradizionali (Girard) – per citare lo Jean Claude di Marcello Cesena: due modi diversi per dire la stessa cosa.

Sotto entrambi i riguardi, sia per Dugin che per Girard, la storia si è fermata. Per Dugin, tuttavia, la storia deve e può ripartire, riqualificando positivamente i differenti Dasein (5) in una prospettiva multipolare, non gerarchica e quindi non razzistica, che faccia del mondo un piacevole mosaico di identità ben definite, ognuna incamminata sul proprio sentiero storico-destinale. Per Girard, analogamente, la storia è esaurita, e il suo esaurirsi è pròdromo dell'Apocalisse – ma va bene che sia esaurita, e ferma, perché questa stasi potrebbe permettere all'Apocalisse, cioè al Regno, di accelerare il passo.

Sulla questione dell'eschaton, Dugin è meno categorico, anzi quasi fumoso: riqualificando positivamente le differenze culturali dei popoli, auspica una ripartenza della storia paralizzata nella totalità capitalistico-liberale (6); e tuttavia, in altra sede, ma nello stesso volume, dichiara la vocazione "soteriologica ed escatologica" della 4TP, e in particolare l'ambizione di "realizzare la fine dei tempi" (7).

Che cosa significano questi propositi apparentemente contraddittori? Si potrebbe pensare che Dugin, sulla scorta di Guenon, concepisca un identico pensato sotteso alle singole tradizioni culturali; identità fondamentale che ambisce a palesarsi contestualmente alla vera fine dei tempi (non quella fasulla, parodistica, scimmiottata dal trionfo del capitalismo liberale), e che i differenti popoli devono portare a compimento per entro il proprio sentiero destinal-culturale, à la Heidegger. Ma la storia autentica è solo e unicamente locale, dice Dugin, e una storia universale è possibile solo "sulla base della dominazione di una società sull'altra, imponendo la propria storia e, così, la propria identità sulla società asservita" (8). Rispondendo a Girard, Dugin direbbe quindi che l'umanità non deve volgersi unanimente alla Scrittura giudeo-cristiana per adempiere il proprio compimento storico, ma attenersi al proprio inviamento storico-culturale e lì trovare la salvezza – o, se ci disturba la cristianità del concetto: il proprio destino, l'eschaton appunto.

Il convincimento assoluto che la verità sulla mimesi violenta (questo il contenuto di verità universale che attende di essere rivelato, secondo Girard) possa passare solo dalla rivelazione giudeo-cristiana è notoriamente la più scomoda delle tesi di Girard. Non è impossibile rinvenire intuizioni analoghe a quelle del giudaismo e del cristianesimo nelle religioni rivelate dell'Oriente – quindi non è forse impossibile al resto dell'umanità salvarsi dal mimetismo violento anche senza consultare i Vangeli. Questa affermazione, che non posso suffragare in questa sede, ma nella quale credo personalmente, meriterebbe un approfondimento degno di considerazione (9).


La visione politica di Dugin e quella di Girard portano a conclusioni analogamente e specularmente rischiose. Dugin esalta le differenze culturali, che Girard vorrebbe sottomesse all'unica verità della Rivelazione cristiana. In questo senso, Girard ha un approccio totalitario alla questione, Dugin pluralistico (o multipolaristico, come lui stesso sostiene). D'altro canto, il fine ultimo della ripartenza storico-politica auspicata da Dugin sembra essere la ricomposizione di uno splendido mosaico di differenti culture riunite nei grandi spazi schmittiani (civiltà occidentale, islamica, slava, ciascuna con le proprie suddivisioni interne), nel cui contesto la storia universale divenga una "sinfonia delle diverse musiche delle storie locali" (10). Il grande e rischioso omissis del discorso duginiano è come si svolgerà la convivenza di questi tasselli di umanità divisa in culture locali – e riunite (come?) nei grandi spazi schmittiani, al cui interno le differenze tra le singole culture saranno lievi ma non assenti. La quasi-identità, sembra pensare Dugin (ma qui sono io che interpreto), è garanzia di convivenza pacifica più che l'assoluta diversità: un cinese dialogherà più facilmente con un mongolo che non con un francese; altrimenti perché riunirli nei grandi spazi? Eppure, Girard ci insegna che è proprio l'assottigliarsi della differenza a innescare più facilmente le rivalità mimetiche e i quindi i conflitti.

I popoli così divisi nel mosaico tradizionalista vivranno tra loro in pace? Nessuno può assicurarlo, afferma Dugin, il quale inoltre pensa che "guerra e pace sono sempre esistite, ed esisteranno sempre", e che "guerra totale e pace totale sono ugualmente ferali" (11). Senza giungere a proposizioni da avanguardia primonovecentesca, alla guerra marinettiana, Dugin sembra tuttavia accettare una valutazione possibilistica se non positiva del pòlemos, inteso schiettamente come guerra tra popoli.

La visione irenica di un'apocalisse del Regno sembra quindi inconciliabile con la 4TP, la quale però, come si è detto in precedenza, ha ambizioni soteriologiche ed escatologiche. Ora, cosa sono la salvezza e l'eschaton nell'ottica della 4TP, se non la pace del Regno? Il compimento dei singoli destini culturali dei popoli? Forse che l'apocalisse e la salvezza verranno indipendentemente dagli sforzi dei popoli di autocomprendersi e compiere il proprio destino? Così sembra lasciare intendere il capitolo sull'angelologia (12). Su questo punto Girard concorderebbe: è nota la sua sfiducia nella sola forza morale e intellettuale dell'uomo per la prospettiva della salvezza, che si attende dall'alto.

Perché dunque far ripartire questa benedetta storia, se la salvezza o l'eschaton sono in mano ai non-umani? L'eschaton è inoltre inconciliabile con la sopravvivenza del pòlemos, motore della storia. Si tratterebbe, in una prospettiva più girardiana, di un'ennesima riproposizione della figura di questo mondo, dell'istituzione di differenze che nascondono la Verità e ne ritardano la manifestazione. La 4TP non farebbe che ritardare l'apocalisse del Regno, rimettendosi a seguire le false differenze. Eppure, allo stadio cui siamo giunti, dal punto di vista di Girard, non esiste forse altra strada da percorrere che la china discendente sulla quale siamo incamminati, quella della tendenza all'estremo, e quindi del pòlemos assunto a frenetica matrice del sistema dei rapporti umani. Una prassi come quella della 4TP avrebbe quindi carattere catecontico (13): ritarderebbe l'apocalisse stessa, ma sorprendentemente avrebbe l'effetto simultaneo e contraddittorio di accelerarne la venuta, identificandosi con il male (le false differenze) che, in quanto attore dell'apocalisse, dovrebbe sconfiggere.

A questo rigurardo Girard dice eloquentemente: «Forse non abbiamo scelta. Forse bisogna passare di là» (14), cioè dal pòlemos delle false differenze – cioè dallo stesso che vuole la 4TP. Forse, cioè, questa riproposizione della figura del mondo in forma catecontica è esattamente ciò a prescindere da cui la Rivelazione non potrà mai avvenire, secondo la stessa profezia paolina.

Questi ragionamenti, che attribuiscono carattere catecontico alla 4TP, si basano sul presupposto legittimo che la 4TP poggi sullo stesso terreno da cui nasce l'escatologia evangelico-cristiana (15). Questo fondo, impensato da pensare, dovrebbe essere anteriore allo stesso cristianesimo e allo svelamento del mimetismo violento. Un sapere originario che ha qualcosa a che fare con il cristianesimo. Il pensiero sul mimetismo violento, fondamento del cristianesimo secondo Girard? Forse qualcosa che viene ancora prima. Altri hanno alluso a questo stesso fondo innominato (16). Teniamolo come oscuro riferimento di un possibile contenuto della Rivelazione apocalittica; se ne parlerà in futuro.


Un possibile dialogo tra Dugin e Girard sul tema dell'escatologia si potrebbe quindi impostare nel seguente modo. Una Quarta Teoria Politica che integrasse il contenuto di rivelazione proprio (tra gli altri, anche) del cristianesimo (inteso come fondo comune pensato da tutte le tradizioni mondiali) con la convinzione che ogni Dasein-popolo sia libero di giungere alla rivelazione nel suo proprium culturale, ci metterebbe al riparo dal totalitarismo etnocentrico girardiano – e quindi, noi poveri di spirito, e loro poveri aborigeni o induisti, dalla prospettiva inesaudibile di una conversione universale al cristianesimo rivelato. Un simile pluralismo innervato da una comune intenzione rivelativa comporterebbe ovviamente la necessità di una diversa intesa della Differenza come fenomeno proprio dell'umano, se accettiamo il pensiero di Girard contro le differenze, interpretate come contro-verità per eccellenza. Comporterebbe innanzitutto la necessità di un colloquio (Gespräch) sul contenuto della rivelazione a venire, identico per tutti i popoli – cioè quel qualcosa come il cristianesimo, come il sapere sul mimetismo violento, e che però non sia né l'uno né l'altro, ma qualcosa che viene prima, del cui svelamento è incaricata l'Apocalisse singolare e plurale che tutti attende. Differenza nell'identità, identità nella differenza. Ma di questo si dovrà dire più largamente, e tirando in ballo altri autori la cui parola ha già cominciato a risuonare negli strappi aperti dalle mie parentesi.


(1) Alexandr Dugin, La Quarta Teoria Politica, NovaEuropa, Milano 2017 (seconda edizione).

(2) René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, Adelphi, Milano 2008;

(3) Dugin, op. cit., pp. 89 e segg. Si parla del New World Order con riferimento alle tesi di F. Fukuyama sull'ennesima "fine della storia" sotto il giogo del capitalismo liberal-democratico stile USA.

(4) Girard, op. cit., p. 268.

(5) Dugin, op. cit., pp. 164 e segg.

(6) Ibid., vedi alle pp. 165, 233.

(7) Ibid., pp. 258 e segg.

(8) Ibid., p. 228, e cfr. p. 233.

(9) Ricco di spunti in questo senso è il verbale della riunione del Gruppo Studi Girard del 9 novembre 2018.

(10) Ibid., pp. 233 e 170.

(11) Ibid., p. 234.

(12) Ibid., pp. 239 e segg.

(13) Alludo qui alla riflessione di san Paolo sul katechon, in Tessalonicesi 2.

(14) Girard, op. cit., p. 169.

(15) Cf. M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013, p. 113: «Una teologia politica fondata sul katechon ha perciò senso soltanto all'interno di una concezione cristiana del tempo apocalittico». La "concezione cristiana" di cui parla Cacciari è forse quel fondo più originario del cristianesimo stesso di cui si dovrà dire. La narrazione apocalittica non è del resto un proprium del solo cristianesimo.

(16) Alludiamo già alla lettura derridiana degli Unterwegs zur Sprache di Heidegger, di cui si dirà poi.

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