(per lə due B., devianti a modo loro,
che hanno scritto con me questa cosa)
Riprendiamo il discorso affrontato in un precedente articolo sulla storia e i fenomeni del Web: i temi delle post-comunità di internet, del rapporto tra immaginario e reale, dei nuovi codici espressivi delle generazioni recenti si impongono alla nostra attenzione come chiavi di lettura privilegiate per comprendere la condizione umana presente e quella a venire. La prospettiva girardiana adottata su questo blog e il problema della sua efficacia politica in senso lato permettono di inquadrare con più ampiezza e respiro temi così nuovi e complessi. L’occasione che mi fa ladro di questo spazio è la pubblicazione di un libro credo importantissimo, Tecnomagia di Vincenzo Susca (Mimesis, Milano 2022) del quale questo articolo si propone anche come mezza recensione.
Il testo di Susca muove da un’analisi socio-culturale consolidata (potremmo riassumerla con la trimurti Foucault, Debord e Bataille) per sviluppare un ragionamento molto chiaro. La società contemporanea, al fine di perpetuare la crescita e l’omeostasi del sistema del Capitale e dei consumi oltre i limiti materiali imposti dalla produzione di merci, ha consentito alle forze nude del desiderio e alle pulsioni di liberarsi dal disciplinamento che era ad esse imposto quando ne scriveva Marcuse negli anni Sessanta – e ciò al fine eminente di consentire al Capitale stesso di riappropriarsi di quei desideri e pulsioni in quanto base materiale e strumento di sollecitazione del desiderio di consumi improduttivi, rilanciati costantemente all’utente finale dal sistema dei media. La macchina cammina ancora in assenza di produzione – da un paradiso celeste-immateriale che i nostri media digitali avvicinano sempre di più alla superficie terrestre, favorendo la sovrapposizione perfetta dell’immaginario al reale, mentre l’Angelo arretra al cospetto delle rovine terrene.
Questo scatenamento delle pulsioni un tempo disciplinate ha tuttavia il difetto di portare con sé, come effetto collaterale, la sollecitazione continua di una serie di comportamenti che, con Bataille, potremmo definire improduttivi e antisociali, atti di pura dépense: divertimenti individuali o collettivi non finalizzati a un’utilità pubblica (rave e festini), consumi antisociali (stupefacenti, alcolici), dipendenze ludiche di vario tipo (gaming, gioco d’azzardo), sovraesposizione e uso improduttivo dei social media (meme, deepfake, montaggi, blogging e vlogging di sfrenato e svergognato autismo). Tale collateralità delinea l’antinomia inedita e geniale sulla cui base Susca, riprendendo Bataille, definisce il suo ritratto della società contemporanea: da una parte la residua compagine di valori condivisi dalle istituzioni e dalla pubblica morale, retaggio di vecchie idee mal digerite di mezzi liberali (un po’ spaesati, invero, dalla piega che hanno preso le cose ultimamente) che insistono a difendere con convinzione l’impegno, la dedizione dell’individuo alla propria crescita personale, intellettuale, professionale, ma anche il contributo attivo di ciascuno alla società e al bene comune – in una parola: la cura, comminata a ciascuno, che la vita che ci è stata donata sia in qualche maniera utile, che serva a qualcosa, che sia produttiva in senso ormai così lato da rasentare la perfetta rarefazione – poter arrivare a casa, la sera, dopo una lunga giornata spesa a fare non so cosa, e dire: “ho fatto la mia parte”. Cerchia, questa, alla quale mi picco e mi perito di appartenere da ormai molto, troppo tempo.
L’altra “parte”, invece – quella che durante il giorno invece si è fatta, che non ci consente di essere sereni con noi stessi, che ci forza ad ammettere che avremmo potuto fare di più – è quella “maledetta” (Bataille): il tempo improduttivo del cazzeggio, della droga, dell’onanismo, della non-cura di sé, a volte dell’autodistruzione, di tutti quei comportamenti che oggigiorno diremmo “devianti” oppure “antisociali”. Cerchia, quest’altra, della quale ho fatto parte come qualsiasi buon adolescente – e nella cui logica oggi fatico a re-immedesimarmi, come ogni buon adulto che si rispetti.
Aver creato e implementato una società battezzata a partire dai “consumi” che alimentano la crescita quotidiana apparente porta con sé il rischio costante che gli attori (o le marionette) di questa società finiscano un bel giorno per consumare più di quello che possono produrre – e persino più, ovvero altro rispetto a quello che la Macchina produce. Il che è terrificante, dalla prospettiva della Macchina stessa.
Quando il tempo del gioco trabocca dal suo argine ed allaga il tempo del lavoro, quando i neet e gli improduttivi saturano gli spazi privati delle casette striminzite dove, nelle intenzioni, avrebbero dovuto solo andare a riposare dopo una lunga giornata di lavoro – che ne è della società che il Novecento ha faticosamente edificato per noi sulle ceneri di due guerre mondiali? Il Sistema ha una risposta per ogni problema – il Sistema è perfetto – e ovviamente ne ha una anche per loro: non dovete lavorare per forza, ovvero si può “lavorare”, in un certo senso, anche da casa, ovvero assecondando in pieno le vostre pulsioni antisociali e distruttive; magari la vostra presentabilità sociale ne scapiterà un filino (non piacciono a nessuno, i neet), ma suvvia: quando cliccate su un banner o postate una foto o guardate un porno, state comunque producendo informazione, merce di prima qualità – e a noi può bastare anche questo (…ma a “noi” chi?, un attimo, cosa…? – sveeeeglia, Slothrop!). Non verrete pagati per questo – o forse sì, se si va avanti con il reddito di cittadinanza – ma questo è un dettaglio: la proporzionalità diretta tra lavoro e retribuzione era andata a farsi benedire molto prima che se ne accorgesse Marx, e quindi…
Il Sistema tira un sospiro di sollievo: può mettere a profitto anche questi scimuniti di neet e devianti, non un singolo spazietto della sfera privata o di quella pubblica devono essere sottratti al totalitarismo della produttività, e così anche gli sbandati sono, letteralmente, sistemati: messi a sistema. Fintantoché continuano a consumare i nostri prodotti (materiali, digitali, pornografici in varia forma…) essi sono dei nostri – sono nostri (ma di chi? … chi siamo noi? … sveeeeglia, Slothrop!)
Ma cosa succede quando questi emarginati danno vita sul Web a comunità creative e ricreative nelle quali la produzione e il consumo sono appannaggio degli utenti e i prodotti sono così disgustosi che non si può immaginare di trarne profitto o utilità in alcun modo?
Vediamone un esempio:
Questa, che potremmo ascrivere alla categoria dei meme, è una celebre fotografia del filosofo Nietzsche con diverse cancellature manuali e la scritta “BARO CENTO VOLTE DUNQUE / SEGO ELON”. E’ stata prodotta in una chat privata di un gruppo di devianti più o meno convinti e consapevoli di quello che facevano. Essa è il prodotto di una stratificazione di rimaneggiamenti di una stessa immagine filtrata attraverso un codice interpersonale (ovvero un idioletto) molto specifico del gruppo che l’ha prodotta; la qualità della fattura è mediocre, se non pessima, il prodotto digitale in sé è da molti punti di vista indecifrabile, inservibile, inguardabile. Certo, nel momento stesso in cui questo meme esce dalla chat privata e occupa lo spazio pubblico del Web, esso può essere intercettato dal Flusso (il mainstream) e diventare prodotto utile di un consumo di informazioni (può diventare “virale”) incorporandosi così all’istante alla logica della (ri)produzione. Ma è anche vero che l’impresentabilità e l’indecifrabilità sono una minima garanzia (non però perfetta) contro la sua digeribilità. La sua circolazione all’interno di una chat privata (fino ad oggi almeno) costituiva un’ulteriore barriera contro la sua appropriabilità da parte del Sistema.
Ora – immaginiamo un ipotetico, per quanto improbabile, aumento smisurato di meme altrettanto autoreferenziali, idiolettici e indecifrabili. Qualcuno ha già iniziato a farne circolare con successo di simili su alcune pagine come RaiAyanami o nicoldiz, forse trascurando il rischio connesso alla diffusione essoterica di pratiche così profondamente esoteriche come la pubblicazione dei “misteri” di un gruppo circoscritto di individui, una carboneria digitale. Come può il sistema ri-appropriarsi di prodotti così spigolosi? Come farne Sistema?
La risposta è semplice: basta sottoporli a una doccia di consenso, è sufficiente la totemizzazione e la feticizzazione di uno stesso contenuto culturale da parte di un numero sempre maggiore di persone per trasformarlo in strumento utile alla circolazione costante dei consumi. Quanti impresentabili alla Diprè abbiamo già visto monetizzati e monetizzanti nei cinque minuti di gloria loro concessi dalla profezia di Warhol? E’ chiaramente il consenso mimetico che definisce il valore degli innumerevoli kydoi che la Rete eleva a feticci usa-e-getta, motori fulminei e presto fulminati del web-consumo – è chiaramente l’accessibilità pubblica del desiderio privato (la contabilità del quoziente mimetico-valoriale di ciascun feticcio ben significata dalla conta dei like) a consentire la riappropriazione e la ritotalizzazione del contenuto originale da parte del Sistema.
L’unica forma di resistenza concepibile a una Macchina così perfetta assomiglia dunque molto da vicino a quel movimento che Girard in più opere e diversi autori di questo blog hanno insistito a nominare “ritiro” – e che è stato codificato oltre cinquant’anni fa, per mirabile eterogenesi dei fini, dall’Internazionale situazionista. Ritiro che ha una direzione e un punto di partenza molto precisi: dalla nuova sfera pubblica definita dalla Rete, dalla piazza sempre appropriabile dell’ ”emozione pubblica” (Susca) a una nuova forma di sfera privata, analoga a quella in cui fermentarono le rivoluzioni morali del Settecento schiacciate dall’occupazione dello spazio pubblico dalle insegne dell’assolutismo – pertanto abbiamo parlato, poco sopra, di una carboneria ovvero di una massoneria digitale: in definitiva di società segrete, di riti iniziatici, di una nuova cultualità immanentista, nichilista ma fortemente ritualizzata, i cui simboli religiosi sono tutti quei prodotti spigolosi, duri e impresentabili che il Sistema non può appropriare (1).
Intorno a questi prodotti si è definita sempre, e ben prima che la Rete raggiungesse questo livello di saturazione, una sorta di web-élite nichilista, snob e fortemente esoterica, i cui codici spesso indecifrabili e ancor più spesso privi di una referenza precisa organizzavano la loro resistenza irriflessa all’invadenza dei valori “buoni” della società dei consumi e della (ri)produzione riappropriandosi dei frammenti – o meglio degli scarti – che quella stessa società produceva. Tali rimanenze o briciole di prodotti digitali di consumo venivano letteralmente “presi in giro” (si pensi ai détournement situazionisti), “portati a spasso” lontano dalla loro significazione originaria, verso una nuova significatività autistica, idiolettica, generalmente impresentabile e pertanto non appropriabile dal Sistema. Senza saperlo, quei giovani sciocchi e nichilisti attuavano una forma di resistenza residuale che non può certo ambire al titolo altisonante di rivoluzione, ma che indubbiamente costituisce oggi la forma migliore e più efficace di disobbedienza civile al potere costituito.
Sto parlando – gettiamo la maschera – dei peggiori prodotti della nostra società: i “deviati” di cui oggi si parla con tanta ostilità ai piani alti delle nostre messinscene governative. Lascerò perdere i ben più attivi e consapevoli tossici e sbandati delle occupazioni, dei rave illegali e delle proteste di piazza: parlerò dei neet, dei leoni da tastiera, dei neonazisti e politicamente scorretti utenti di siti-spazzatura come 4chan e 8chan, di cui ho trattato anche nell’articolo su Dale Beran. Correggendo in parte il moralismo fin troppo legittimo con cui li ho considerati in precedenza, guardo ora a questi soggetti con la più fenomenologica sospensione del giudizio di cui sono capace. Se esiste una resistenza al blocco compatto del sistema di Capitale, consumi, utilitarismo borghese ed etica della produttività, è su siti come questi che (ancora) si può trovare.
Lungi da me però il sospetto che io stia elogiando queste “devianze”, se così insistiamo a chiamarle. La storia recente ha mostrato come esse possano essere manipolate quanto e anzi meglio dei loro gemellini istruiti e pettinati, frequentatori di siti politicamente corretti e utenti dei canali mainstream dell’informazione e dell’intrattenimento. L’elezione di Trump alla Casa bianca nel 2016 è essenzialmente il risultato della manipolazione di questo elettorato deviato da parte del team Bannon-Breitbart, che con una campagna elettorale in gran parte giocata sui codici nichilistici e demenziali dei meme di 4chan ha favorito la vittoria di Trump alle elezioni. Gary Lachman, nel suo brillante saggio (2), ha parlato a questo riguardo di “meme magick”, ovvero loro capacità dei meme di incidere positivamente sulla realtà condivisa agendo direttamente sulle emozioni pubbliche degli utenti del Web.
No – non vogliamo portare questi giovani nichilisti in palmo di mano come baluardi della resistenza culturale al più-che-tardo capitalismo – proprio perché grazie a loro uno dei massimi attori dell’oppressione capitalista, il miliardario Donald Trump, ha ottenuto il potere per quattro anni – e chissà. Piuttosto, li si dovrebbe rimproverare, perché se avessero sviluppato un’autocoscienza culturalmente fondata sul proprio dissenso, questo si sarebbe tradotto forse in una forma di resistenza attiva al Sistema – un club esclusivo di web-situazionisti, una massoneria del disagio. Un’associazione inutile e venefica per la morale pubblica, ma liberatoria per i suoi utenti, in quanto autocosciente della propria posizione, dei propri fini e dei propri limiti, pienamente realizzata in un conteso di sovranità culturale, politica e ideologica, al di fuori degli schemi precostituiti della morale pubblica.
Questi giovani nichilisti, che nel mio articolo su Dale Beran ho definito “angeli neri”, e di cui preconizzavo la trasformazione in massa amorfa-atomizzata e la conseguente totalizzazione in chiave neo-fascista, secondo la classica lettura arendtiana dello sviluppo dei totalitarismi, questi signori con le loro idiosincrasie son forse degni di una parziale palinodia e di una riflessione più precisa e sofisticata, da parte mia – per quel che vale. Vero è che un certo desiderio di fusione mistica nel corpo indifferenziato della massa è analogo negli adepti dei totalitarismi storici e di questi web-nichilisti, che sdegnosamente rifiutano il nome proprio per abbracciare l’etica dell’anonimato (sono, costoro, gli anon che danno vita paradossalmente sia ad Anonymos che a QAnon). Vincenzo Susca, in Tecnomagia, delinea giustamente uno scenario meno catastrofista: quello che accade è che questa disidentificazione misticizzante, questa dépense dell’identità individuale a vantaggio dello scioglimento mistico nell’LCL della demenza collettiva, non è appannaggio esclusivo dei web-nichilisti, ma adempie identicamente la funzione dissolutoria (che Bataille ascrive ai cultori della spesa improduttiva) anche nei più conformati e conformisti utenti di Instagram e dei social pettinati. Postare le proprie foto, condividere contenuti, gettare sulla pubblica web-piazza il proprio corpo (e il proprio cuore) significa spossessarsi di sé, sdoppiarsi e dimidiarsi per consegnare una parte (quella maledetta?) di noi stessi al giudizio dell’altro, dal cui concorso convergente sarà determinato il nostro successo e il nostro valore pubblico, che può tradursi in pubblica idolatria come in pubblica gogna – e sovente in entrambi contemporaneamente. Quanto di nascostamente suicidiario si cela nel desiderio di intorbidare la propria immagine nel pantano del Web, quanto di quell’anelito di scioglimento dei legami individuali e corporei che oggi assume così tante forme (droghe, dipendenze, sadomasochismo) trova almeno parziale soddisfazione nella consegna dei nostri scatti alla grande centrifuga dei social?
Vincenzo Susca crede che questa spossessione abbia a che fare con una tendenza (eminentemente infantile) all’abbandono nelle braccia – e al giudizio – dell’aLtRo (il Grande aLtRo del Web) che gli autori di questo blog, in contesti non troppo differenti, hanno raccontato con il termine amae, preso in prestito dalle analisi dello psicologo giapponese Takeo Doi (3). E’ in questo nodo dell’infanzia e dell’infantilismo che tutti i grandi temi che abbiamo variamente toccato sino a questo punto trovano il loro “punto di capitone” – ed è il motivo per cui credo che la riflessione su certi prodotti della fu cultura otaku (4) e dell’immaginario di anime e manga potrebbero fornire una chiave di lettura privilegiata per comprendere i tempi che ci riguardano e quelli che ci aspettano.
L’infantilizzazione dell’immaginario e delle generazioni a me contemporanee non è un tema nuovo. Che ci si chiami “bamboccioni” perché stiamo a casa di mamma e papà oltre i trent’anni o perché ci sposiamo tardi o perché continuiamo a guardare i cartoni – è storia vecchia. Forse si fatica a ricondurre questo fenomeno alla sua matrice socio-culturale più profonda – voglio dire la progressiva circoscrizione all’infanzia e all’adolescenza delle ultime potenziali e fattuali sacche di resistenza contro-culturale ancora accessibili. In un mondo in cui il Sistema ha a tal punto affinato i suoi strumenti di controllo e manipolazione mentale, solo gli ingranaggi non ancora perfettamente formati e istruiti, le “risorse umane” non ancora perfettamente ortopedizzate possono rinvenire ai propri piedi uno spazio libero dal Discorso – un comportamento infantile o antisociale che tarda a passare, un vizio, un onanismo disperato, un’improduttività inguaribile e sfiancante per i bravi genitori – uno spazietto invero minimo da cui spiccare il balzo del coniglio e uscire dal Discorso. Verso dove? Non si sa – con Kafka – ma certamente via da qui.
Ovviamente i nostri giovani, lungi dall’imbracciare i fucili della resistenza e rifiutare sdegnosamente la compromissione con i prodotti della società dei consumi, sono anzi tra i più ossessivi fruitori di questi – siano essi i programmi di fitness con cui si pompano i muscoli invidiati ai loro influencer, i vestiti alla moda che hanno visto su TikTok o gli anime consigliati su Crunchyroll. A loro vantaggio gioca però l’inesauribile fantasia e l’immaginazione anarchica dell’infanzia, che di quella sterile produzione seriale di telefilm tutti uguali, di scarpe e magliette perfettamente identiche, di cantanti progettati per il fine supremo dello spettacolo, da questa orrenda Caterva essi traggono ancora, con santa ingenuità, i più sciocchi, disgustosi e impresentabili détournements.
E’ difficile spiegare razionalmente il mio entusiasmo quando, sbirciando l’Instagram di un mio studente, lo scopro a condividere meme impresentabili, disgustosi, che inneggiano alle peggiori blasfemie sociali e civili, che si fregiano della propria indecifrabilità, dell’aura misterica ed esoterica che aleggia intorno al senso specifico dei contenuti che condividono. So che non sono davvero neonazisti, stupratori seriali, antisemiti e blasfemi di ogni pubblico decoro e buonsenso. Li conosco: la loro sensibilità, la timidezza con cui si avvicinano al loro prossimo, il loro sublime sdegno per le ingiustizie. So anche che, se interrogati sul senso di quel meme, sulla raffinata analogia che delinea via immagine tra sfruttamento commerciale del femminismo d’accatto e l’apartheid palestinese, non saprebbero articolare un discorso sensato in un italiano comprensibile. Chi se ne fotte. Condividere quel meme antisemita non vuol dire essere antisemiti – e non vuol dire nemmeno stare con Hitler o con i palestinesi o con chicchessia: esso è la Resistenza, punto e basta. Loro lo sanno – senza saperlo – ma ancora per poco! Verrò io, spiegherò loro l’antisemitismo storico, i valori dell’eguaglianza, del rispetto e della Resistenza (quella partigiana 1943-1945), la Repubblica fondata sul lavoro e sulla democrazia – e presto abbandoneranno quella forma irriflessa di resistenza (non partigiana) e di disobbedienza (in)civile: piegheranno la testa, prenderanno i loro primi soldini e imparerano a cantilenare la litania dei giusti e dei buoni, chiedendosi come e perché mai a sedici anni assemblavano reel di Instagram con hentai sullo stupro taggati con frasi romantiche che non c’entravano un cazzo, non avevano senso… Chi erano – chi eravamo – allora? Eravate – eravamo – la Resistenza, la sua versione modesta, residuale, contemporanea. Ora non siete – non siamo – più nulla…
Chiedo scusa per l’eccesso retorico e per il détournement, a modo mio. Mi avvio alla conclusione puntualizzando la necessità di sviluppare un’autocoscienza molto solida, per chi intende percorrere questi sentieri incidentati e pericolosi. Vincenzo Susca spiega chiaramente che tali pratiche irriflesse di resistenza culturale – che si manifestino nella forma dei rave, delle dipendenze, degli eccessi o dell’esoterismo snobistico – implicano complessivamente un movimento di abbandono dell’individualità e una consegna di sé all’altro come tappa intermedia di una pulsione di morte e confusione del proprio e dell’altrui che i party, la Rete e le droghe assecondano con perfetta rispondenza, quali strumenti privilegiati. L’etica – se così possiamo definirla – dello “spaccarsi di brutto” alle feste, spaccarsi di questo e di quello, farsi a pezzi – ma anche “fare a pezzi” la propria immagine vecchia, per risorgere nella nuova carne di un corpo tonico, palestrato, sexy – cedere a un’erotismo sadomasochistico, comminando il piacere insieme al dolore, dandola ma insieme negandola – lusingandola ma bastonandola quando serve, come la Fortuna – ma anche fare ghosting, simpare, sottonizzarsi! Qualunque cosa che evochi o mimi la spossessione e l’abbandono del sé sovrano – questi sono i ghiotti bocconi della resistenza-disfunzione, ma anche le chine scivolose lungo cui i più si perdono e non si trovano più.
L’autocoscienza – ovvero la consapevolezza di quel che si è e di quel che si sta facendo – è forse l’ultima garanzia, per noi post-umani consegnati a questo divenire così fosco e impreciso, di aver ancora presa su quanto sta accadendo – di essere ancora, in qualche forma residuale, soggetti e non semplicemente oggetti di questo collasso dell’individualità, dei valori tradizionali e del senso che il futuro ci apparecchia. Il consiglio del barone Julius di “cavalcare la tigre”, in quest’ottica, appare di un’efficacia ficcante e sorprendente, viste le premesse culturali “di sinistra” del mio discorso (5).
Ma può anche essere diversamente. Circa verso metà della terza parte del romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, il protagonista Tyrone Slothrop, nel corso di una rocambolesca incursione sul panfilo Anubis, incontra la piccola Bianca (dodici anni) e ha con lei un rapporto sessuale. E’ il momento più intensamente sentimentale della vita di Slothrop – eguagliato forse dalla commozione che prova al cospetto di Geli Tripping vestita da strega, molte pagine prima. Dopo questa sequenza, Slothrop sembra lentamente dissolversi dalla scena del romanzo, che continua tuttavia, nella quasi-assenza del suo protagonista, per altre quattrocento pagine. Lo troviamo, alla fine, come inebetito, prigioniero della Zona di cui è divenuto ganglio e transistor, perso nella contemplazione acida di un arcobaleno che non era quello che cercava. Bianca è scomparsa molte pagine prima, senza lasciar traccia, in punta di piedi – ma nel cuore di Slothrop “nessuna croce manca”. Bianca è l’infanzia seviziata dalle logiche del potere, è un non-personaggio che forse nemmeno esiste – forse non ha solo dodici anni – che si presta all’identificazione e alla disidentificazione feticistica dei desideranti, un totem bianco di cui Loro si sono serviti (chi sono “Loro”?, sveeeeglia!) – per catturarti, Slothrop, per metterti al Loro Servizio…
Eppure –
Si tengono abbracciati. Lei gli propone di nascondersi a bordo. -Sì, però prima o poi dovremo pur scendere a terra, a Swinemünde, per esempio, o da qualche altra parte. -No. Possiamo fuggire. Sono una bambina, so come fare a nascondermi. Posso nascondere anche te. Slothrop sa che può farlo. Lo sa perfettamente. In quel momento, in quel posto, sotto il trucco e la stravagante biancheria intima, lei esiste per davvero… l’amore, invisibilità… Per Slothrop è una vera scoperta. (6)
E però le cose vanno diversamente: Slothrop non scende con Bianca, resta a bordo per cercare lo Schwatzgerät, l’Imipolex G, i vari santi graal della sua stenta crociata. Finirà come finirà, nella Zona, come suo ganglio o transistor – come si è detto.
Tante sono le strade che si aprono per gli incamminati. A noi la scelta su quella da percorrere – da cavalcare – per restare a galla, senza perderci, in questo naufragare che inevitabilmente ci riguarda.
* * *
Così anche in V. Susca, Tecnomagia, op. cit., p. 174.
Gary Lachman, La stella nera, Tlon 2019, p. 29
Takeo Doi, Anatomia della dipendenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991.
Mi permetto di essere pessimista sui prodotti recenti dell’industria degli anime perché è evidente anche a un occhio meno esperto che essi sono stati ritotalizzati integralmente come prodotto di consumo di massa e rappresentano un baluardo di devianza solo se opportunamente fruiti, cioè se consumati e compresi a partire da una cultura di ciò che fu l’immaginario otaku tra gli anni Settanta e i Novanta – idioletto per emarginati, subcultura della devianza vera. La cosa più dolorosa in assoluto, per un appassionato come me, è che alcuni anime recenti sono comunque davvero ottimi – eppure non sono più la stessa cosa, perché sono su Netflix. Spero di essermi spiegato.
Se si pensa che lo sto citando come maître a penser per la tarda modernità, in tempi di governi di destra, dopo una mezza apologia come quella che ho colpevolmente e consapevolmente prodotto di rave, “culture della morte” e devianze giovanili di vario tipo! Chissà se sfuggirò così alla censura dei giusti – che non si sa più se siano al governo o all’opposizione… La parola al Barone: “Qui è importante un connubio naturale della vita [quella che piace alla biopolitica!] col rischio di là dall’istinto di conservazione [oci!], essendo considerate anche situazioni nelle quali la stessa eventuale distruzione fisica [corsivo mio] si fa parallela al raggiungimento del senso assoluto dell’esistenza e dà in atto la “persona assoluta” [ovvero una “soggettività fondata”, se così possiamo esprimerci]. In questo senso potremmo parlare della forma-limite del cavalcare la tigre” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Mediterranee, Roma 1995, pp. 104-105.
T. Pynchon, L’arcobaleno della gravità, Rizzoli, Milano 2013, p. 647. Per l’analisi della reader’s trap di Bianca mi rifaccio al saggio di Leo Bersani citato tra l’altro in questo pezzo di Bernard Duyfhuizen, dell’Università del Wisconsin.
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