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Revocare il reine Tor I | Grosse Zweideutige

Aggiornamento: 17 nov 2019


«Stimatissimo Signore, da molto tempo vorrei esternare senza alcun ritegno la gratitudine che provo nei Suoi riguardi; i momenti migliori e più elevati della mia vita sono infatti legati al Suo nome … al quale penso con la stessa venerazione, anzi religione quandam». Il primo incontro tra Richard Wagner e Friedrich Nietzsche si consuma nel giorno di Pentecoste del Maggio 1868, data che diviene per il docente di Basilea, allora poco più che ventenne, una sacra ricorrenza. Preso come per incantamento e condotto alle porte di Triebschen dalle note melanconiche di un piano, da un «accordo doloroso, continuamente ripetuto» («se è vero ciò che Ella una volta mi ha scritto, cioè che la musica mi dirige, Ella è in ogni caso il direttore di questa mia musica»), Nietzsche viene poi accolto da Wagner e Cosima von Bülow nella villa di Lucerna; luogo anzitutto simbolico, quale centro nevralgico e formicolante ritrovo di accoliti che da lì a poco si trasformerà in istituzione con il festival di Bayreuth. Varcarne il temenos è esporsi al nervoso flusso di desideri dei discepoli, circuito convergente verso il modello assoluto che è il compositore; il giovane e romantico Nietzsche sembra immediatamente soccombervi, tanto che l’evento può per lui significare rinascita battesimale: «Ella da allora vive dentro di me e agisce incessantemente come una goccia di sangue tutta nuova, che prima certo non avevo»… da Richard Wagner pare emanare un prodigioso chiarore, luce caleidoscopica nella quale la residenza svizzera appare tempio in cui il moderno Sofocle Dexion accoglie e nutre gli dèi, e tale è il suo alchemico genio che il precoce professore universitario si deve riconoscere, capovolto, in alunno ottuso: «la prego, mi prenda soltanto come uno scolaro, magari con la penna in mano e il quaderno davanti, con un ingegno molto lento e niente affatto versatile».


L’episodio capitale dell’incontro viene rielaborato e restituito come invertita immagine del miracolo pentecostale, in cui lo Spirito discende sull’eletto, lo lambisce in spire fiammeggianti e lo riempie della propria presenza; d’ora in avanti questi è ricevuto dal «pater seraphicus» come uno dei «figli beati», ed è custode di un dono cui sente corrispondere un pari destino - se adesso è in grado di parlare in lingue, ricambierà la grazia concessa diffondendo la buona novella, la redenzione dell’arte e degli animi ad opera dell’incantesimo «di amore e fuoco … del più grande mago benefico che esista, il drammaturgo ditirambico mosso dall’amore». Carisma divinatorio dello stregone è uno sguardo acuto e pervasivo, che permette di sondare ogni alterità e svelarne la natura intima («R. Wagner è stato finora l’unico, o almeno il primo, che abbia avuto il sentore di ciò che in realtà sono»), facoltà che abbraccia financo figure letterarie ed epoche storiche («Wagner sospinse la vita presente e il passato sotto il raggio luminoso della conoscenza»), che consente la stesura di impareggiabili libretti e musiche. L’apprendista, grazie all’illuminante contatto, può a sua volta generare La nascita della tragedia, campione di filologia immediatamente porto come omaggio sull’altare: «tutto quello che ho da dire sulla nascita della tragedia greca sarebbe stato detto da Lei meglio, più chiaramente e in modo più convincente … che cosa potrei raccontarLe, che Lei non abbia già indovinato da lungo tempo?». Il discepolo offre le sue opere come se stesso al mediatore, facendosi largo nella cerchia degli ammiratori, quasi alimentandosi del desiderio altrui in un frenetico gioco al rilancio (si rallegra che sempre nuovi individui giungano a condividere con lui il modello, e insieme confessa: «non potrei immaginare … di essergli più profondamente affezionato di quanto lo sono io - se potessi immaginarlo, lo sarei ancor di più»); sovraccarico che provoca il cortocircuito: l’aura del mediatore cresce vertiginosamente, a fargli assumere le fattezze della divinità che con un soffio dà la vita («che cosa saremmo se non potessimo averLa, che cosa sarei io se non un essere nato morto!»).



Si avvicina il 1876, l’ingresso del mostro sacro nell’arena di Bayreuth va introdotto da un degno panegirico, compito che Nietzsche avoca a sé, in virtù di un proprio (pari?) primato intuitivo: «mi sono accorto che coloro con cui ho rapporti si dimostrano incapaci di afferrare la Sua personalità come totalità, di sentire la profonda e unitaria corrente che in Lei attraversa vita, scritti e musica». Dall’altezza del Sinai, all’altezza della divinità, il fedele può scrutarne, lui solo, il volto, ed ecco che al compositore viene levata una lunga lode — la quarta Inattuale, che raffigura un Wagner munifico e benevolo, mosso da una smisurata e irremovibile fedeltà, personale cifra impressa in ogni opera musicale e in ogni umano rapporto: fedeltà che fa sì che egli sia, come Dio rivela di se stesso a Mosè, «non semplicemente dovunque e sempre, ma in ogni qui e in ogni ora» (1); ogni cosa in lui vuole trovare la propria voce, vuole essere da lui fecondata e innalzata a vita d’amore. «Che pienezza deve egli riunire e abbracciare per poter diventare tutto ciò!»: essere proteiforme e onnipervasivo, virile quasi fino all’impudico, la cui natura indifferenziata sembra celare una doppiezza. «Tutto cresce verso di lui, e quanto più la costruzione è ardua e difficile, tanto più si tende l’arco del pensiero ordinatore e dominatore … la violenza del corso e della corrente di Wagner può forse spaventare e respingere». Forse che lo charme wagneriano è solo maniera, un sortilegio a senso unico, che esclude possibilità di rapporto dialogico? Che non si tratti di maestria, ma ammaestramento tanto penetrante quanto impenetrabile? L’essenza della seconda persona impedisce la vista, rimane celata come inscrutabile «abisso (Abgrund) in cui riposano, accoppiate, forza e bontà». «Tutti gli sguardi che egli getta sulla terra e sulla vita sono raggi di sole che tirano acqua, formano nubi, stendono intorno vapori» - solo una relazione unilaterale e nessuna permeabilità può esservi tra occhi chiaroveggenti che si fanno invisibili, e il vedente che ne viene accecato.

Come il Pascal di Aurora, il devoto presagisce una certa immoralità e malafede nel proprio deus che rimane fere absconditus, ma prova vergogna nel confessarselo, e per vincere il proprio timore alza la voce, perdendosi in estatiche esaltazioni, magnificando lui che «solleva al cielo ciò che è debole, umano, perduto, per trovare finalmente amore e non adorazione, rinunciare completamente a se stesso». È possibile dissipare l’opacità, mettere a fuoco la figura eliminando lo sfarfallio dell’apparenza, riconoscere infine l’uomo dietro al teatrante? Persino nella massima prossimità della «amicizia stellare» l’Altro, quel grande ambiguo (jener grosse Zweideutige), conserva il proprio segreto e non si lascia decifrare; l’alterità fissata in volto, e fissata in idolo, si preserva nella libertà rispetto alla definizione che ne è stata data. L’interrogare indiscreto del discepolo sembra anzi collaborare attivamente al malinteso: la perfetta conoscenza va abolendo la distanza (non si accontenta della precaria e fragile comunione, brama piuttosto la fusione con lo sfuggente mediatore, di cui cerca i contorni), sfociando così nell’idolatria - la completa com-prensione diviene eidologia, la millimetrica vicinanza spalanca sotto di sé uno spazio smisurato! «Si può vedere che cosa offrissi in dono a Wagner - vale a dire me stesso…». Ma a chi dunque si è fatto dono della propria persona? Il sospettoso va alla ricerca di un indizio di un lapsus manifestante lo scherzo, mentre accarezza con lo sguardo l’estremo scandalo del seducente Male parodiante le spoglie del Bene. Si scopre con sgomento disarmato davanti al chiasmo assiologico, inerme preda di un anfibolico essere - la cui mano ora si posa, dimentica di sé «diffondendo benedizioni e salute», ora si si sporge solo per ghermire e tornare, egotisticamente piena, a se stessa; e l’oscillazione dell’equivoco è tanto più dolorosa, in quanto minaccia la solitudine dell’incomprensione e dell’abbandono, infrange la promessa di buona vita in mortifera menzogna.


Numerosi gli stralci biografici a giustificare la cosiddetta «rottura» ci raccontano come Nietzsche si convinca infine di una responsabilità tradita, ma più ampio ancora il segno che ne portano i suoi scritti. Pronto a rovesciare l’idolo, ma non ancora a riconoscersi idolatra, il filosofo si convince solamente della propria miscredenza: ha preso un abbaglio, ha creduto a torto; il maestro si è dileguato sotto allo sguardo disincantato, rivelandosi seduttore (colui che finge di essere guida, e così svia la sua vittima dal cammino che le è proprio), infido pagliaccio (Possenreisser), ma non si dissolve con lui la tentazione - la divina pienezza che non compete all’Altro può allora competere all’Io? -, né scompare il sentore di un destino da assumere: è qui che urgentemente sorge l’esigenza di smascheramento. Laddove la maestria inadempiuta è stata screditata come inganno, sarà necessario reinventarsene una nuova: «l’arte della filigrana dell’afferrare e dell’intendere l’ho imparata allora … se sono stato maestro in qualche cosa lo sono stato qui. Ora l’ho in mano, mi sono fatto la mano a rovesciare le prospettive: ragione per la quale a me solo, forse, è possibile una “trasvalutazione dei valori”».



***


* Le citazioni dirette all’opera di Nietzsche verranno, per un’esigenza di maggiore scorrevolezza del testo, riportati in un pdf che unirà le cinque parti dello studio. Mi limito qui a segnalare solo voci e contributi esterni.


(1) «Ich werde dasein, als der Ich dasein werde» («io sarò-ogni-volta-lì come colui che proprio-adesso-è-lì»), interpretazione di Esodo 3, 14 - celebre passo dell’autodefinizione e autonominazione di Dio - proposta da Buber e Rosenzweig entro il loro congiunto lavoro di traduzione sulla Bibbia. cfr. Buber, Due tipi di fede.

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