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Revocare il reine Tor II | Durch Mitleid wissend



Per riprendere le fila del discorso, può essere utile ripartire dal primo volume di Umano, troppo umano, testo liminare, che mostra in sé il germe dello sdoppiamento. Il soliloquio in aforismi - non ancora dialogo tra Viandante e la sua Ombra -, pare un tentato lenitivo: la «commedia privata» viene proiettata su di un più ampio dramma, esposta in allegorie ora più familiari, ora più opache. Le potenziali rivelazioni mimetiche sono tacitate da un linguaggio cifrato, prima che possano divenire rivelatrici; così ad esempio l’essenza relazionale del moi haïssable è toccata da vicino («questo stato non sarebbe sentito con tanta amarezza se solamente l’uomo si paragonasse imparzialmente agli altri; allora non avrebbe motivo di essere scontento di sé … ma egli si paragona con l’unico essere capace di quelle azioni che si dicono altruistiche, e che vive costantemente come pensiero disinteressato, cioè Dio … avviene come con don Chisciotte, che sottovaluta il suo valore, perché ha in testa le gesta prodigiose degli eroi dei romanzi cavallereschi»), ma non viene riconosciuta, ed è regalata frettolosamente alla falsa psicologia del mondo cristiano.


Ritiratosi nella solitudine, cercando di scomporre l’enigma posto dalla grande separazione, l’autore ricrea attraverso la propria scrittura quella frontiera in cui l’Io e l’Altro si amalgamano, per vedere più a fondo; ora è il «genio artistico», costretto al solipsismo dal proprio talento, a soffrire l’isolamento e cercare conforto, a risultare abbandonato e tradito da mani irresponsabili - ma l’ambiguità dell’alterità minima alimenta il rancore e la sfiducia, e l’aforisma si chiude con un severo colpo di coda: «non è d’obbligo nutrire diffidenza verso coloro che dicono di nutrire sentimenti di questa specie?». «Avvertivo una grande impazienza», si racconta a riguardo in Ecce Homo; l’impazienza «del duellante che dice a se stesso: “o io vivo ancora, e allora costui deve immediatamente morire, o viceversa”» per non «continuare a soffrire di quel terribile martirio dell’onore ferito in presenza del suo feritore» - alternativa senza sfumature, alteruter. Lo scandalo patito, che si ripropone multiforme e mostruoso («se qualcuno volesse immaginare un genio della civiltà, come sarebbe questi fatto? Egli adopera così sicuramente la menzogna, la violenza e l’egoismo … che solo il nome di maligno essere demoniaco gli converrebbe. Ma i suoi fini, che qua e là tralucono, sono grandi e buoni. È un centauro, mezzo animale e mezzo uomo, e in più ha ali d’angelo sul capo») è dissezionato dal teratologo in mito (in quella superstizione religiosa che è «la credenza in spiriti grandi, superiori, fecondi»), ma il cielo sgombro va riempito di in una parallela mitologia, la genesi della propria singolarità e indipendenza.


Ecco delinearsi lo spirito libero, che con dolore lacera la rete in cui è rimasto irretito: «egli deve strappare quei fili da sé, dal proprio corpo, dalla propria anima … deve imparare ad amare dove prima odiava, e viceversa». La bête philosophe nella trappola della vicinanza «ha perso la perla della propria vita», ha perso la luce degli occhi - guidata dal proprio (!) istinto può fuggire nel nero del bosco, dove «scopre un nuovo sentiero, che nessuno conosce: così nascono i geni di cui si decanta l’originalità».

La ferita dell’equivoco, causata da un’ambiguo apparire, è risignificata in verità più profonda: la straziante amarezza di colui che si scopre raggirato denuncia in realtà un'attiva lotta contro il male; non più avvisaglia di debolezza, quanto testimonianza della vita che si difende per sopravvivere, il soffrire può essere la doglia del parto, il dibattersi quello della farfalla nella crisalide - fuori, si dischiude la possibilità di un Sé nuovo, fonte autonoma di senso. L’individuo che era abituato a vedere «nella responsabilità il titolo di nobiltà dell’uomo» si accorge di come «tutte le proprie valutazioni, scelte e avversioni siano private di valore e divenute false … egli non può più lodare, più biasimare, perché è assurdo lodare e biasimare la natura e la necessità … tutto è necessità - così dice la nuova conoscenza; tutto è innocenza». Il repentino colpo di spugna è in grado di abolire e assolvere i tormenti passati; il mistero dischiuso dalla relazione, e dall’afflizione di cui essa è foriera, viene divelto, prima ancora di poter essere risolto, dall’incedere dello spirito libero. Ma il passo è più lungo della gamba, e il Nietzsche della (tarda) prefazione deve correggere il tiro: «quando ne ebbi bisogno mi inventai degli spiriti liberi … di simili spiriti liberi non ce ne sono, non ce ne erano; ma allora avevo bisogno della loro compagnia, come di bravi compagni e fantasmi. Che tali spiriti liberi potranno esserci un giorno … di ciò io vorrei essere l’ultimo a dubitare. Li vedo già venire, lentamente, lentamente; e farò magari qualcosa per affrettarne la venuta, se descriverò in anticipo tra quali vicende li vedo nascere, per quali vie li vedo venire?».



Umano, troppo umano come una lunga lamentazione e invocazione di una venuta, dunque; come racconto di commiato dal dolore - e che, come commiato, viene inviato a Wagner proprio mentre questi gli recapita il libretto del Parsifal (1): «non suonava come se si incontrassero due spade? In ogni caso, lo sentimmo così entrambi, perché entrambi tacemmo…». Nella distanza siderale, gli astri all’inizio giustapposti tornano, anche alla fine, ad incrociarsi. L’ultimo aforisma für freie Geister ripercorre la via dello spirito libero, che ha pagato con una solitudine desertica la libertà della propria ragione, ma che trova ricompensa in un nuovo mattino: accompagnato per i monti dai cori delle muse, egli incontra tra gli alberi solo «cose buone e chiare», e si chiede «come mai il giorno, possa avere un volto così puro, così trasfiguratamene sereno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana». Ed è nel crescendo delle campane di mezzogiorno che Parsifal, il puro folle (reine Tor) termina le proprie peregrinazioni «per sentieri d’erranza e di dolore»; percorse le pendici del Monsalvato, abitate da misteriose fanciulle-fiore, è accolto in una luminosa radura, e si domanda il motivo di tanto splendore: «oh come bello m’appare oggi il prato! Mai tutto così mi parlò intimo e soave!». È il compimento della profezia, che narra della redenzione di quel sofferente mondo alla rovescia che il mago e asceta Klingsor ha innalzato sul proprio risentimento, grazie all’avvento del puro folle, sapiente attraverso la compassione (durch Mitleid wissend). Ciò che Mitleid, reso generalmente con compassione o pietà, identifica nei movimenti di Parsifal è una sorta di consentimento, prossimo alla sostituzione; in virtù della propria semplicità, egli è pienamente esposto all’alterità che gli si manifesta - e così il suo motivo musicale può “prendere su di sé” e accogliere il tema dei personaggi incontrati -. Sorta di investimento alla responsabilità, assunta senza riserve, è questa pura efferenza che consente all’eroe di infrangere il sortilegio gettato da Klingsor. Nel Mezzogiorno di Venerdì Santo, Parsifal guarisce Amfortas con la lancia di Longinus (quella stessa che gli ha inflitto la piaga) e si inginocchia davanti al Gral, il cui lucore bagna lui e i cavalieri, che esultano in coro: «miracolo d’altissima salute! Redenzione al Redentore!».


Il libretto, accompagnato da una dedica che ha del faceto - «al mio caro amico Friedrich

Nietzsche, da Richard Wagner, consigliere ecclesiastico» -, porta in scena uno spirito paradossalmente libero in virtù del suo donarsi all’Altro, innocente perché riconosciutosi irrimediabilmente colpevole. L’ingenuità index sui del cavaliere, la sua stoltezza dimentica di sé, penetra e svelle il mondo artificiale, edificato sul ressentiment e su di una mortifera ricerca della sacertà; la risonanza dell’Io e del Tu nella sympatheia che viene portata in scena, la loro coincidenza nella comunione (che si distingue per un nonnulla, eppure è inconfondibile, dall’unione fusionale) incrina egualmente la retorica del «pathos della separazione» e della gerarchia aristocratica, suggerisce una diversa via. Ma nella visione ribaltata dell’individuo già scisso in dividuum, questa spettacolarizzata inversione della pietra d’inciampo in pietra angolare non può essere segno genuino, ma apice della menzogna, uno scherzo - «una scena da commedia che accade nella vita. Qualcuno trova un’opinione acuta su un argomento, e vorrebbe esprimerla. Ora, in una commedia, si ascolterebbe e si vedrebbe come egli cerchi a vele spiegate di arrivare al punto … come egli spinga continuamente il discorso verso una sola meta, perda talvolta la direzione e la riconquisti, e infine trovi il momento: quasi gli manca il fiato - ed ecco che un altro gli toglie l’osservazione di bocca. Ora che farà? Si opporrà alla sua stessa opinione?». L’opposizione tramite confutazione non è efficace, non previene «la resurrezione del terzo giorno … del nocciolo dell’idea» gettato nel terreno; occorre revocare, «mettere in ghiaccio». Il libretto wagneriano è immediatamente inglobato da Nietzsche nell’universo della propria scrittura, così che la sua carica spaesante, sviscerata e ricomposta in sistema, venga appiattita e disinnescata: ecco che Umano, troppo umano è retrospettivamente riconfigurato, nelle pagine di Ecce Homo, come luogo dove ogni ideale viene annichilito, «messo tranquillamente in ghiaccio» - dove, non ultimo, «anche la compassione (das Mitleiden auch) si raffredda notevolmente…».



***


(1) Può essere utile segnalare quantomeno l’antefatto dell’opera: il mago Klingsor, temendo di non essere sufficientemente puro per accedere all’ordine dei cavalieri del Gral, si evira, e ne viene perciòstesso allontanato; sottrae dunque loro la lancia di Longinus, ed edifica sul proprio risentimento un castello circondato da un giardino incantato, abitato da fanciulle-fiore tentatrici, che causino con la loro avvenenza la caduta dei cavalieri. La più affascinante e misteriosa di queste donne, Kundry, seduce il campione Amfortas, che viene così sorpreso dal mago e ferito a morte con la lancia. L’ordine è dunque condannato a soffrire con lui, e si attende la salvezza per mano di un redentore, come annunciato dalla profezia: «per mano del puro folle, sapiente attraverso la compassione».

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