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Revocare il reine Tor III | Pericolo della persona

Aggiornamento: 17 mar 2020



«L’aforisma è il potere che limita e rinchiude» (1). Suggerisce Blanchot ne La conversazione infinta che in Nietzsche l’espressione frammentaria sia mezzo atto alla composizione del Sé, cui «spetta fare il mondo e crearne il senso». La sentenza è comunicazione, se di comunicazione si tratta, di un’identità che si vuole autarchica e bastevole a se stessa, di un pensiero solitario; si tratterà quindi di riconoscere nell’aforisma quella forma di narrazione che consente di inglobare l’esteriorità incontrata, senza che tale sussunzione modifichi la fisionomia del soggetto (tecnica che si vorrebbe incontaminata, ma che, mediatamente, ripropone come suggestione vestigiale il «pensiero ordinatore e dominatore» del falso-Maestro senza discepoli?). È la parola apodittica che circoscrive i margini del «prossimo», riducendolo a proiezione e satellite, ed è ancora l’aforisma della Gaia Scienza l’amuleto che, apposto al collo, tutela e protegge dalla compassione, l’uscire da sé per essere attirati nelle profondità dell’Altro - «che ti importa, stella, del buio? … La tua tristezza ti sia estranea e lontana! Del mondo più lontano è il tuo chiarore: per te sarà peccato la pietà (Mitleid soll Sünde für dich sein)! Hai una sola legge, sii pura (sei rein)!».


Il «pericolo della persona» (2) può essere in questa maniera sì segnalato, ma non risolto: l’autoreferenziale discorso per massime - nota sempre Blanchot - è indice della propria spaccatura e limite rispetto ad un «fuori da cui viene escluso, nella misura in cui crede di poterlo includere» (3): l’unico può attingere a se stesso solamente il proprio doppio, senza mai incontrare altro da sé. La saggezza del serpente suggerisce dunque di tentare altre vie, cambiare la propria pelle - e qui interviene nuovamente Blanchot ne La part du feu (4): la vissuta impossibilità di superare il malinteso che l’alterità incarna si ripropone specularmente, per il lettore, nei confronti del testo nietzschiano stesso, il quale si mostra in un continuo assumere e rigettare maschere e nomi, senza configurarsi mai in modo definitivo; è questo costante superamento di sé a condurre a Così parlò Zarathustra.


E così racconta Ecce Homo: il testo, annunciato da un mutamento nel gusto della musica («forse si può porre l’intero Zarathustra sotto il segno della musica; certo fu una rinascita nell’arte di ascoltare»), prende le mosse dal pensiero dell’eterno ritorno, la cui intuizione prima risale all’agosto 1881; il suo ultimo volume viene invece portato a termine «proprio nell’ora sacra in cui Richard Wagner moriva a Venezia - sono diciotto mesi di gestazione». Lo spirito sterile, dal temperamento «troppo impaziente per attendere la fine della propria gravidanza» è rimasto solo, ed è finalmente liberato da quell’inquietudine che si era definita impazienza del duellante: nel febbraio del 1883 può dunque avere luogo, per artificiale partenogenesi, un insperato «parto improvviso». E se «ogni respingere e negare rivela mancanza di fecondità», «Zarathustra non è un riccio»: cerca anzi piacere in tutte le cose prossime, non ha aculei ma mani aperte. La solitudine vissuta nel ritiro dei monti lo ha trasformato, ed ora egli vuole ritornare tra gli uomini, per spartire con loro i propri doni.


Zarathustra giunge dunque ad una città, la cui folla si è radunata sul mercato per assistere all’esibizione di un funambolo, e così l’istruisce: «io vi insegno il superuomo … qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo», «l’ora in cui diciate: “Che mi importa della mia compassione (Was liegt an meinem Mitleiden)! Non è forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocifissione”». L’arringa contro i compassionevoli viene ricalcata pressappoco dalla voce narrante(si) di Ecce Homo: nube densa e foriera di tempesta, che causa negli uomini dalla grande solitudine le maggiori stoltezze (Torheiten) e le maggiori sofferenze («ha portato non pochi turbamenti nella vita»), resistere a questa seduzione che trascina lontano dal proprio cammino è l’estrema prova di equilibrismo.



Vediamo dunque riproporsi nell’opera l’enigma dell’alterità, dello sviante con-sentimento - «la “Tentazione di Zarathustra” è la rappresentazione poetica del grande grido d’aiuto che giunge fino a lui, quando la compassione, come un estremo peccato, vuole sopraffarlo, vuole allontanarlo da se stesso». Non più alla ieratica massima, ma al componimento lirico - che rischia però di esserne solo prolungamento e compendio - è affidato l’esercizio acrobatico di ricomposizione («tutto il pregnante bersaglio del mio atto poetico consiste nel condurre poeticamente all’unità ciò che non è che frammento ed enigma»); alla parola dello Zarathustra, «un ditirambo sulla solitudine, o, se sono stato compreso, sulla purezza… Per fortuna non sulla pura follia (auf die Reinheit… Zum Glück nicht auf die reine Thorheit)». Zarathustra, nome dalla simmetrica provenienza iranica, non è e non vuole essere un puro folle, come il persiano Fal Parsi: vuole piuttosto esserne l’annullamento, pretende di mostrarne la vacuità - e per questo lo deve oltrepassare: «la nostra compassione è una più lungimirante compassione …. Pietà contro pietà, dunque (Mitleid also gegen Mitleid)!».


I due funamboli sulla piazza del prologo si incalzano l’un l’altro, sfida sospesa sul più sottile dei fili; il primo, vedendosi superato dal rivale (il pagliaccio dai panni multicolore, il Possenreisser) perde l’equilibrio e precipita. Nietzsche si approssima all’avversario, tenta di sviscerarlo per carpirne la forza («non mi basta che il fulmine non sia più dannoso. Io non voglio deviarlo: esso deve imparare - a lavorare per me»); ed è ancora entro l’ascendente del libretto wagneriano che si colloca l’esclamazione impaziente di Zarathustra: «Oh se qualcuno li redimesse dal loro Redentore!» (5). Quella messa in scena è sì un’opera sulla salvezza, ma la forza che giustifica e redime non è la stessa dell’ingenuo cavaliere wagneriano; sua sorgente è piuttosto il «trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse”»: che nulla di ciò che è accaduto e accadrà sia escluso dalla prospettiva di Zarathustra, volontà di potenza che vuole sostenere e accogliere in sé ogni ente, senza rifiutarne reattivamente nessuno.


Zarathustra è il contrario di uno spirito negatore: anche attorno a lui si prepara il «grande Mezzogiorno, momento dell’ora più corta», qui come evento zenitale che porti luce su ogni cosa, dissipando ogni nebbia. Ma si è già accennato ai limiti di un logos eidetico e chiarificante, attorno al quale si produca un mondo strappato all’ascondimento dell’apparenza e del mistero; il pensiero che conferisce «forma che ha forma di orizzonte, che è il proprio orizzonte» (6) è poi massimamente nocivo nel momento in cui si volge all’enigmatico Altro, alternativamente esaltato in idolo o annichilito in parvenza fantasmatica: qui la scrittura di Zarathustra non è più esorcismo dallo scandalo, ma moltiplicazione di spettri (che raggiunge forse il vertice ne Il mago). La leggerezza del Possenreisser, la pro-vocazione del suo libretto, sono stati scomposti e riaggregati nella rapsodia; l’Altro è stato ridotto a Stesso, ma qualcosa di incoercibile fa ancora resistenza - e l’appello che non si è riusciti a tacitare torna a scardinare dall’interno la narrazione. La volontà di potenza, per definirsi tale, deve voler sopportare ogni altro essere in se stessa: e se «sopportare non indica solo il tollerare, ma il sostenere e il venire in aiuto» (7), Zarathustra dovrà prima o poi rispondere alla propria chiamata - ecco che la sua ombra si sdoppia, ed appare l’indovino a rivelargli l’inevitabile sorte: «la compassione, Zarathustra! Io vengo per indurti al tuo ultimo peccato! … Non senti, Zarathustra? Questo grido è per te, te esso chiama: vieni, vieni, è tempo: è tempo ormai!». Zarathustra vacilla, la sua pelle si copre di sudore - tornato in sé, reagisce con una veemente negazione («come uno che da una profonda voragine torni alla luce: “No! No! Tre volte no!»).


«Con gli occhi inchiodati sull’avversario originale, Zarathustra gli resta leoninamente legato; continuamente il Sì che dovrebbe dire agli enti prende la figura polemica di un No … Se con lenti accostamenti prende contatto con il pensiero abissale, non riesce alla fine a farlo suo, cioè ad abituarsi ad esso, a farsi suo» (8): lo Zarathustra, nato sotto il segno della musica, simboleggia il rifiuto di quell’armonia in cui due anime vibrano in accordo. L’ascesa sul monte si rivela perciò un girare - a vuoto - attorno all’irriducibilità dell'abgründlicher Gedanke: se «la compassione è l’abisso più profondo» (Mitleiden aber ist der tiefste Abgrund), non sarà sufficiente mimare i segni della massima ricettività, ma bisognerà prestarsi al con-sentimento - eventualità che, al termine del canto, è un’ultima volta rigettata. «Compassione! Il mio dolore e la mia compassione - che importa tutto ciò? Forse che miro alla felicità? Io miro alla mia opera! … Questo è il mio mattino, la mia giornata comincia: su, vieni, su, grande Meriggio!». L’animo equanime del possente leone si incrina, la sua risata è rabbiosa, esprime impazienza e rimorso. Allo scoccare del mezzogiorno cala così il sipario su di un incompiuto Zarathustra, che non è stato in grado di venire a capo del proprio enigma: Nietzsche, se vuole chiudere il cerchio, dovrà ricominciare da capo.



***

(1) Blanchot, Riflessioni sul nihilismo - Nietzsche e la scrittura frammentaria in La conversazione infinita, scritti sull’«insensato gioco di scrivere», Einaudi.

«Quanto più Dio è stato considerato come persona a sé, tanto meno gli uomini gli sono stati fedeli… egli rimane il loro prodotto, il loro pensiero e non viene preso troppo personalmente. In quest’ultimo caso, litigano quasi sempre con lui: anche al più pio sfuggì l’amara parola: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”», Umano troppo umano II, Parte seconda - Il viandante e la sua ombra, 80.

(3) Blanchot, Riflessioni sul nihilismo - Nietzsche e la scrittura frammentaria, ibid.

(4) Blanchot, Du Côté de Nietzsche in La Part du feu, Gallimard.

(5) cfr. Zolla, Le due massime opere liriche in Lo stupore infantile, Einaudi.

(6) Blanchot, Riflessioni sul nihilismo - Nietzsche e la scrittura frammentaria, ibid.

(7) Marion, Il crollo degli idoli e lo scontro con il divino: Nietzsche, in L’idolo e la distanza, Jaca Book.

(8) Marion, Il crollo degli idoli e lo scontro con il divino: Nietzsche, ibid.

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