«Non voglio essere preso per quello che non sono, dunque occorre che io stesso non mi prenda per ciò che non sono» - «chi ha creduto di aver compreso qualcosa di me si è costruito qualcosa a sua immagine, spesso un mio opposto … se sussurravo all’orecchio di qualcuno di guardarsi attorno per trovare un Cesare Borgia piuttosto che un Parsifal, questi non si fidava delle proprie orecchie». In Ecce Homo, epilogale tentativo di testimoniarsi in coerente narrazione, l’autore risagoma la propria fisionomia per tramite della tecnica autobiografica, così da potersi riconoscere e, insieme, poter essere da altri riconosciuto; ma il memoriale porta scolpito in epigrafe la lucida denuncia del solipsistico limite («e così racconto la mia vita a me stesso»), anticipando già all’inizio il finale fallimento. Un’ultima volta l’identità si raccoglie e si riveste in possente architettura, il pensiero solitario, stanco e rassegnato, torna a raccontarsi, ora integralmente e dall’origine: le proprie memorie diventano tardiva erezione di salde fondamenta, a gelosa protezione rispetto a qualsiasi contaminazione e sviamento. È del resto programmaticamente necessario, per scongiurare a posteriori l’irruente scontro con l’Altro, che la topografia dell’esperienza vissuta sia ripercorsa con dovizia di particolari, sviscerata senza alterazioni (!) - in una paradossale corsa contro il tempo per revocare ciò che è stato: la sofferta e ancora bruciante «offesa mortale», inferta da mano altrui.
Tra le pagine si dirada quell’ambiente sterile e artificiosamente radioso (scevro da ogni grande ambiguità) in cui solo può avvenire l’edificazione di un’individualità incontaminata, di contro all’opaca torbidezza che la seconda persona incarna; l’attenzione circospetta e diffidente si volge in ogni dove, costretta a far fronte da tutti i lati in uno stesso momento per prevenire l’equivoco, e il soggetto non può che rimanere sfigurato dalla tensione di un tale esercizio prospettico: «ciò che che mette a prova la mia modestia è che in fondo io sono tutti i nomi della storia». Irrigidito nell’asfittico purismo, incapace di mantenere saldamente la posa, l’Io decade sotto i colpi di una plurale cacofonia interiore. Azzittito, ancor prima di poter annunciare il proprio messaggio, dal disordinato e vociare dello sdoppiamento, egli vi cede il passo - ecco che l’attendibilità dello «stile migliore» tratteggiato in Umano, troppo umano (di quel veicolo comunicativo tanto lieve da operare un incontro tra parlante ed ascoltatore, ponendoli in risonanza con discrezione), è sconfessata con un’amara quanto rivelatrice variazione sul tema, che ne rilancia la possibilità solo altrove: «considerando che in me la molteplicità degli stati interiori è straordinaria, ci sono in me molte possibilità di stile. Ogni stile che comunichi veramente uno stato interiore, che non sbagli i segni, il loro ritmo … è definibile buono. Uno stile buono in sé? Una pura follia (eine reine Thorheit)!». Questo il parossistico limite della nietzschiana theoria, visione - circolare! - che lascia accedere l’alterità solo dopo averla prudentemente squadrata e riconfigurata, così da premunirsi da ogni abbaglio: operando uno sbarramento, essa perciostesso risospinge su di sé - un Sé che nel frattempo si incurva, deforma e ripiega; le virtualità che si volevano represse si moltiplicano, ingenerando un ecosistema in cui l’indifferenziazione prolifera: «è un pregiudizio che io sia un uomo … tra gli indiani sono stato Buddha, in Grecia Dioniso. Da ultimo sono stato ancora Voltaire e Napoleone, forse anche Richard Wagner…». Lo sguardo che, fissatosi sull’Altro, lo aveva fissato in idolo (idolo malvagio, «genio della menzogna»), ora si rivolge a quello speculare enigma che l’ipertrofica coscienza è divenuta a se stessa, e ne produce una parallela eidologia («per quanto mi riguarda, ho l’onore di essere qualcosa di opposto: un genio della verità…»); ma la chiusa del testo è impedita, se non squadernata, dall’angoscioso interrogare del posseduto, incapace di visualizzare i margini della propria autobiografia, della propria persona che è ormai legione: «sono stato compreso?».
«Adesso - / solo con te stesso, / sdoppiato dal tuo sapere, / tra cento specchi / falso di fronte a te medesimo, / tra cento ricordi / incerto, / fiaccato da ogni ferita, / conoscitore di te stesso! carnefice di te stesso! / … un cadavere -, / sormontato da cento fardelli, / sovraccaricato di sé!»: si è giunti al terminus biografico, limine a partire dal quale interviene (in soccorso?) l’azzurro silenzio dell’ottenebramento, ed è su questa impalpabile linea di confine che riecheggiano i Ditirambi di Dioniso. L’essere complicato e torto nella retroversione prende atto del proprio fallimento, e ne dispera - disperazione che è sincera, che squarcia per un attimo l’interiore scissione e reduplicazione. Di una vita vissuta come un un «buttarsi delle fauci» di ogni esperienza («tanto che mi getterei nelle fauci del leone»), di un’identità ormai fatta(si) in brani, irriconoscibile e sfigurata, che cosa rimane? Un brandello d’orecchio (1), il piccolo orecchio di Arianna in cui il Dio ripone la sua salvifica parola (2): una parola sofferente, non rinchiusa in teleologia o contro-teodicea, ma urgente, spiegato e transitivo appello che cerca altrove consolazione.
«Ordinai un tempo alle nubi / di andar via dai miei monti - / dissi un tempo “più luce, voi oscure!”»: più luce - forse l’obnubilamento può essere salvezza, laddove la tentazione visuale del conoscere, di rischiarare l’equivoco, è andata alimentando la corrosività dello scandalo. Ancora in Umano troppo umano, Pirrone chiedeva al Vecchio come condursi per non divenire innanzi agli altri falso campione e idolo - spiegarsi preliminarmente come seduttore e ingannatore? Insegnare diffidenza verso l’apparire? - e trovava in risposta solo il silenzio: «mi hai or ora mostrato la porta (das Thor) per cui passare…». «- Silenzio! / Una verità vaga sopra di me come una nube - / con invisibili folgori mi coglie. / Sale la sua fortuna verso di me: / vieni, vieni, amata verità!». Avvolto nella quiete ovattata della nebbia, gettato via l’occhio che scandalizza («non già il fatto che rovesciasti l’idolo: / ma che in te rovesciasti l’idolatra, / questo fu il tuo coraggio»), l’Io può, forse solo ora, sentire ciò che lo chiama, e farvisi incontro; la sua vista è impedita, ma egli è più che mai sensibile - esposto infine senza alcuna riserva, né difesa né aggressione, a quell’ambigua apparizione disparente dell’alterità lasciata venire, alla sua fugace manifestazione, dal ritmo vibratorio non più ottico ma musicale. È nel sussurro della gentile brezza, nel dolce e invisibile soffio del pianissimo che l’Altro si rivela al profeta che ha il viso velato (3) - e quale ingiunzione discende dalla nube? «Dona via prima te stesso, o Zarathustra!».
«Solo quando questa calamità sarà massima, sarà prossima la specie di Dio che qui può aiutare. Il fulmine viene, voi lo sapete bene, dalla nuvola (aus der Wolke) - e dall’alto», si era (pre)detto tempo addietro. La salvezza viene dalla nuvola, nembo opaco dagli incerti contorni che è l’essenza impalpabile della seconda persona; dalla nuvola pesante (eine schwere Wolke) della com-passione, Mitleid caliginosa che si irradia dall’alterità; dalla nebulosa ed aerea musica del Cagliostro di Bayreuth - dalla nuvola che è l’opera del Parsifal, e precipuamente il suo ineffabile preludio (descritto da Wagner stesso «come strati di nuvole che si dividono e poi si ricompongono»), quell’armonia in cui si rimescolano, indiscernibili, feroce offesa e più grande consolazione. La semplice purezza del santo cavaliere è ora quanto mai vicina, a portata di mano - «ora questo è diventato il tuo ultimo rifugio, che fino ad allora era il tuo ultimo pericolo» -: la cattiva coscienza che dispera di sé ha anch’essa raggiunto la semplicità - non più rifratta e confusa nel gioco di specchi, l’ecceità s’identifica tutta nella dolorosa tensione; non più presa nell’atemporalità del circolo vizioso, si mantiene aperta nella vocazione all’avvenire.
È l’ultimo atto del dramma, l’istante del riconoscimento tardivo in cui infine si intuisce qualcosa d’altro: il tema del mago Klingsor, bramante una mitica purità, non tornava sempre a sé, consumandosi in una struttura ad anello, non soffocava, risentito, in impotente ellissi e tautologia sinistra? Il motivo del giovane Parsifal, «sapiente attraverso la compassione, il puro folle (durch Mitleid wissend, der reine Tor)», non si realizzava piuttosto nell’atto stesso del donarsi, proiettandosi oltre sé, all’accusativo - egli non trovava forse la propria identità nell’imperfezione della commistione, nel con-senso alla permeabilità, nella sostituzione all’Altro consentitagli dalla follia (Thor è il folle, Thor è la porta: squarcio nella persona che la mantiene nell’apertura)? Chiama dunque indietro la nuvola! Chiama indietro la verità già indovinata in passato, ma tenuta distante - questo il senso ultimo di revocare? -, come colui che risponde alla propria chiamata «gridando insaziabilmente: “da capo!” non soltanto a se stesso, ma all’intera opera e spettacolo», gridando «a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno». Nel silenzio, il soggetto è avvolto da un nembo scuro, come tenue melodia che si apre per richiudersi immediatamente alle sue spalle; in un baleno, gli si spalanca innanzi una regione ignota - «vedi, figliolo, qui il tempo si fa spazio», confida Gurnemanz all’ingenuo cavaliere - di cui non ci è restituita mappa, un labirinto acustico da cui solo la parola frammentaria dei Ditirambi torna indietro, a farci da guida. È del resto una parola poetica, una parola poietica, che rinuncia al proprio orizzonte totalizzante, al ricondurre in unità: essa non disserta, ma semplicemente fa, dileguando in quello stile migliore che è reine Thorheit. Rimane per questo traccia incompiuta, cifra anfibia di un luogo in cui l’Io e l’Altro, restaurati come assoluti e liberi da deformazioni romantiche, possono fronteggiarsi ed incontrarsi - e nel loro scontro, risuonare: «cantami un nuovo canto: il mondo è trasfigurato, e tutti i cieli gioiscono…».
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(1) «Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d’orecchia, così saranno salvati i figli d’Israele», Amos 3, 12.
(2) «Sii saggia Arianna! / Hai piccole orecchie, hai le mie orecchie: / metti là dentro una saggia parola!»
(3) «Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello...», 1Re 19, 11-13.
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