Nel corso della lunga gestazione della psicoanalisi, Freud formulò due importanti tesi che sembrano tra loro in contraddizione. La prima è che il bambino è padre dell’adulto. Con ciò si intende sia che la persona adulta – con il suo carattere, le sue preferenze, le sue idee – è determinata dalle esperienze vissute durante l’infanzia, sia che i desideri dell’adulto sono copie degli originali desideri dell’infanzia, più profondi e intensi. La seconda tesi è che il Super-io del bambino si modella sulla figura del genitore adulto; in altre parole, il bambino prenderebbe tendenzialmente a modello la figura genitoriale. Il paradosso dovrebbe esser palese: chi è che cerca di essere come l’altro, il bambino o l’adulto?
Cercherò qui di spiegare cosa c’entra questo problema con L’Attacco dei giganti. Un tema fondamentale dell’opera è la trasmissione intergenerazionale: cosa si trasmettono le generazioni e come fanno a trasmetterselo? Il problema è centrale nel caso dei giganti intelligenti e della famiglia reale, ma andrebbe usato come lente concettuale per guardare a molti rapporti genitore-figlio: Grisha-Eren, Grisha-Zeke, padre-Grisha, padre-Annie, madre-Reiner, genitori-Armin...
Riflettendo su queste relazioni, potremmo accontentarci di osservazioni banali, notando che ambizioni cattive non dovrebbero esser tramandate ai propri figli, oppure che è immorale utilizzare il proprio figlio come uno strumento per soddisfare le proprie ambizioni, trasmettendogliele come una malattia ereditaria. Si pensi appunto a Grisha, alla madre di Reiner o al padre di Annie.
Credo però che il problema su cui getta luce L'Attacco dei Giganti sia ben più serio. Ad esser messa in questione, infatti, è la procreazione stessa nella misura in cui le è coessenziale il fatto che le generazioni si passano qualcosa, che si tratti di paure, desideri di vendetta, speranze, modi di pensare, ambizioni pericolose o scandali. Il personaggio più tormentato dal problema – il mio personaggio preferito, assieme a Jean, Kenny e Sadies – è Zeke. Concependo la vita come mera autoreplicazione all’infinito senza senso alcuno, giunge, supportato tanto dalla logica quanto dalle sue esperienze di infanzia, alla soluzione finale: cancellare la capacità di procreare (solo degli eldiani, sì, i quali però sono un popolo immagine di tutta l’umanità).
Anche in questo caso c’è un modo superficiale di pensare al problema e un modo più interessante. Più scontato e rassicurante è derivare utilitaristicamente un giudizio negativo sulla vita in toto partendo dall’osservazione che la vita, in media o in termini assoluti, ci riserva più dispiaceri e dolori che gioie e piaceri. Ne L’Attacco dei Giganti mi sembra tuttavia che il focus sia spostato su un aspetto molto più stimolante. Ad esser denunciata è infatti la “violenza” insita nella catena della vita, la quale impone agli individui la sua ineluttabilità in più modi: nessun individuo sceglie di entrare a far parte della catena, nessun individuo può esser eticamente legittimato a introdurre nella catena altri individui, nessun individuo può esimersi dal tramandare o farsi tramandare idee, paure e desideri.
A ciò può esser ricondotto, almeno in parte, il problema della libertà che tormenta il protagonista Eren. Le mura non rappresentano un ostacolo alla libertà imposto dall’esterno, come ritengono nei primi episodi spettatori e protagonisti, bensì una misura liberticida spontaneamente ma necessariamente auto-imposta per gestire la vita.
E quindi, abbiamo buone ragioni per fare figli?
Dal punto di vista biologico dovrebbe esser chiaro che la vita è solo ripetizione e moltiplicazione, come spiega Zeke alla maniera di Richard Dawkins. Dal punto di vista sociale emerge un soggetto che manifesta un’imperativa esigenza rispetto al nostro fare figli: la società stessa. Re Fritz, da buon re, lo sa e asseconda pienamente tale volontà di potenza, ordinando alla moglie e alle eredi di fare quanti più figli possibile. Le società più numerose, mediamente, sconfiggono quelle meno numerose. Quei gruppi umani in cui non si sono trovati modi per incentivare efficacemente la procreazione lasciano il passo alle società in cui ciò avviene. Ad esigere i nostri figli sarebbe quindi una volontà che, semplicemente, desidera continuare a volere, quella volontà schopenhaueriana, rielaborata poi da Nietzsche e in seguito ripresa, mutata mutandis, da Freud, il quale postulò una coazione a ripetere insita nella vita.
A proposito di Freud, va notato che l’elemento sessuale nel manga e nell’anime risulta quasi completamente censurato, come se l’autore Isayama intendesse denunciare la natura strumentale del piacere sessuale ai fini della procreazione. Certo, non possiamo dir lo stesso dell’elemento sensuale, come testimonia la divisa del corpo di ricerca, che fascia sublimemente le gambe di Mikasa.
Sempre restando su Freud, Mikasa e la sessualità, vi invito a riflettere sulla relazione tra Mikasa ed Eren, tanto centrale nel capitolo conclusivo quanto ambiguamente accennata nel resto della storia data la sua evidente natura “simil-incestuosa”. Il bacio tra i due si consuma solo quando di Eren rimane solo la testa. Che si tratti di un’improvvisata tra il gore, il cringe e il romantico gotico? Non so voi, ma io ho il forte sospetto che siamo al cospetto di un’opera che per densità simbolica e profondità ermeneutica è solo poco al di sotto di Neon Genesis Evangelion[1].
Torniamo però al paradosso e alla seconda tesi freudiana enunciata in apertura. Sappiamo che per il portatore del gigante d’attacco passato e futuro sono pressoché intercambiabili[2]. Ciò ha interessanti ripercussioni rispetto a quella che, girardianamente, definirei una categoria narratologica fondamentale, quella di ‘colpa’. Se vale la tradizionale concezione lineare del tempo, dovremmo desumere il seguente assioma etico: è impossibile che un individuo possa esser moralmente responsabile, e quindi eventualmente colpevole, rispetto a un avvenimento avvenuto prima che potesse causarlo. Tuttavia, se ci troviamo nella dimensione a cui attinge il portatore del gigante d’attacco, dove passato e futuro sono interscambiabili, la colpevolezza è uniformemente spalmabile nel tempo. Tutti possiamo esser colpevoli non solo dei disastri che accadranno ma anche di quelli che sono accaduti. Il figlio, prima di poterlo fare effettivamente, può già suggerire al padre la violenza vendicativa che muove la storia.
In un tardo passaggio dell’Introduzione alla psicoanalisi Freud modifica e precisa la seconda tesi: “il Super-io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-io”. Il modello di un bambino non è suo padre, bensì il modello di suo padre e così via. Esisterebbe quindi un Super-io “senza volto”, un Super-io con cui nessuno entra in contatto diretto ma che è operativo e si tramanda di generazione in generazione. Quindi è vero che da un punto di vista macro-storico e macro-fisico il tempo va in una direzione. Tuttavia, dal punto di vista dell’inconscio, – che come ha spiegato Freud è atemporale, anche se ammetto che in questo punto sto forzando il materialismo insito nella teoria psicoanalitica più di quanto sia lecito – dovremmo più propriamente parlare di una sorta di scena eterna in cui le relazioni intergenerazionali si complicano rendendosi multidirezionali. In tale dimensione accade che un’istanza discepolare, che in un certo senso viene dopo, può indurre all’azione un modello, il quale viene prima.
Ci sarebbe una via d’uscita da questa scena eterna, così terribile da esser costantemente rimossa. È sufficiente bloccare la procreazione, come sostiene Zeke, il quale sembra rimanere convinto della sua soluzione fino all’ultimo, nonostante in extremis trova proprio nella mancanza di un qualsiasi fine possibile, e quindi nell’infondatezza di tutti i possibili obiettivi alla vita, un motivo per cui essere grati dell’essere in vita.
Del resto – aggiungo io – rendendosi procreatori si allevia la colpa delle generazioni precedenti. La mera imitazione, in questo senso, deresponsabilizza e fa perder d’importanza tutte le domande sui perché e sul senso della vita. In fin dei conti potrebbe sempre nascere qualcuno che ci sarà veramente grato, riscattandoci (?) dalla colpa di esserci resi strumenti della volontà di potenza biologica e sociale.
Certo, L’Attacco dei Giganti – narrazione mirabilmente girardiana, come spiega Pietro Somaini – non fa facili sconti, in quanto denuncia chiaramente il fatto che tutto l’ordine sociale, e quindi la stessa capacità di trasmettere qualcosa tra le generazioni, deriva da un’espulsione violenta di cui beneficiano i carnefici e la loro prole.
Chiudo con due parole a proposito dell’evidente attualità (quasi profetica?) di questo capolavoro dell’animazione, concluso in una fase storica in cui il boato della terra rappresentato da una guerra mondiale nucleare diventa sempre più minaccioso.
Notiamo che la nostra Italia è accomunata al Giappone di Isayama dal fatto di essere uno dei paesi al mondo con il più basso tasso di natalità. Stiamo diventando Zekiani, convinti che non ci sono buone ragioni per proseguire la social catena intergenerazionale. Personalmente cerco sempre l’occasione per criticare le politiche di de-welfarizzazione che hanno reso meno conveniente fare figli; sono però persuaso che ci siano altre cause, non direttamente economiche, dietro il calo del tasso di natalità.
Non sarà che il progressivo disvelamento di tutti i miti (compresi quelli secolari) ha fatto sì che noi e i giapponesi, assieme ad altri, non siamo più in grado di ingannare la violenza né di mascherare la cieca volontà di volontà, la quale sta quindi emigrando dalle nostre società?
Siamo Zekiani sull’orlo dell’apocalisse, sprovvisti però della possibilità di attuare magiche soluzioni finali. Possiamo allora accettare di far parte della social catena senza che ci sia un fine, un obiettivo che può nobilitare o rendere un successo la nostra esistenza, il nostro essere un piccolo ingranaggio nella catena di trasmissione intergenerazionale. In alternativa si potrebbe spingere sul pedale dell’individualismo e pensare che non c’è alcuna catena, ma solo tante monadi atomiche che, da un punto di vista oggettivo, risultano sparse, formando una sorta di caotico pulviscolo. Ordinare questi atomi individuali in una catena deriva dalla “scelta” categoriale che operiamo affidandoci alla nozione di famiglia, che non è un qualcosa di oggettivo/naturale. Non mi sembra però che L’Attacco dei Giganti sia orientato verso questa direzione. Ma potrei essermi sbagliato.
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[1] Anche i giganti stessi, esseri senza organi genitali il cui unico obiettivo è ingerire cose, potrebbero essere interpretati freudianamente.
[2] Al riguardo segnalo l'analisi di Matteo Bisoni sul film Tenet, che sarebbe interessante mettere a confronto proprio con la dimensione messianica de L'Attacco dei Giganti.
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