Guardare per l’ennesima volta “La città incantata” è un’esperienza che non scade mai di meraviglia. La saggezza che vi è condensata attinge al meglio della tradizione giapponese per proseguire la critica al declino dei valori tradizionali che Miyazaki e lo studio Ghibli hanno condotto per quarant’anni. I fenomeni colti e rappresentati dalla messinscena, dai comportamenti e dalle semplice espressioni dei personaggi – che spesso fanno a meno della verbalizzazione, e quindi aggirano il limite di comprensione che i diversi sistemi linguistici impongono alla comunicazione tra culture – testimoniano un’intesa del fenomeno umano che, nella sua semplicità, abbatte le barriere tra orizzonti ermeneutici e parla al cuore con immediatezza. Per queste ragioni, e non per amore di accostamenti arditi, intendo qui mostrare il fondamento analogico che accomuna l’antropologia di Girard, la migliore narrativa animata giapponese e la tradizione italiana, incarnata dal testo che ha fondato la nostra cultura più di quanto abbia condizionato, ahimè, la nostra visione del mondo: la Commedia di Dante.
In un recente intervento alla Corte dei Miracoli di Milano ho cercato di delineare un’interpretazione della lupa che compare nel Canto I della Commedia come meta-peccato che ingloba e compone le figure delle altre due fiere (lonza e leone), che non a caso spariscono, oltre la metà canto, e lasciano la sola lupa a contrastare, nelle parole di Virgilio, la redenzione terrena portata dalla misteriosa figura del veltro. Cos’è la lupa e perché contro essa sola, in particolare, si muove il veltro? I commentari medievali concordano sostanzialmente nell’identificarla con l’avarizia, ma di essa Dante dice qualcosa in più. Tracciandone l’ontogenesi, essa appare strettamente connessa a quell’invidia di cui si dice che fu ciò che introdusse la lupa nel mondo in principio. Si è detto che questa parentela, delineata all’inizio della Commedia, consente di porre il poema sotto l’egida dell’interpretazione girardiana del desiderio mimetico, almeno per quanto concerne i tre peccati citati da Ciacco (superbia, invidia e avarizia) che identificano i mali terreni dell’Italia comunale che il veltro dovrà risolvere, stroncando, si suppone, la nascente egemonia dell’individualismo borghese, e riconducendo il gregge cristiano al più alto fine della pace terrena, così da preparare il giardino per l’avvento del Regno spirituale, quando sarà. Non dimentichiamo, poi, che all’epoca di Dante “avarizia” e “avidità” (peccato borghese per eccellenza) sono sinonimi. In quello stesso intervento pubblico alla Corte dei Miracoli, mi sono permesso di ricondurre questa embrionale antropologia dantesca – ma di sapore tanto girardiano, per l’importanza che si attribuisce all’invidia – sotto il segno di Pasolini, inchiudendo questa complessa congerie di interpretazioni nel “desiderio di ricchezza” di cui parlano i versi, credo immortali, de “La religione del mio tempo”.
Dopo quella bella serata alla Corte, poi, sono tornato spesso a interrogarmi su questi versi e sul problema delle fiere e dei peccati “segreti” della Commedia. A scuola, dove insegno, ho cercato in molti modi di spiegare ai miei studenti questa stretta parentela che vedevo delinearsi tra superbia, invidia, lussuria, avidità – i peccati delle tre fiere del Canto I e le “tre faville” che Dante mette in bocca a Ciacco nel Canto VI, il più esplicitamente politico. Dante sta cercando di abbozzare un’antropologia della società italiana del suo tempo, dicevo a me e a loro, della cui saggezza beneficeremmo anche noi, che stentiamo a prendere insegnamento da tutto ciò che cade sotto il segno infamante del presunto oscurantismo cristiano.
Come spesso accade quando si cerca di comporre qualcosa in sintesi – superando i limiti di una semplice analisi, per quanto precisa e puntuale – ho cominciato a veder tornare il problema della sostanziale parentela di tutti i peccati più o meno ovunque. A volte le intuizioni perseguitano come segnali. E così, leggendo lo splendido Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos – su suggerimento di Matteo Bisoni – trovo scritto che “non esiste che un solo peccato”, senza che se ne dica il nome. Più avanti, il protagonista del romanzo si interroga sulla natura della lussuria, e conclude che essa sia in qualche modo parente della follìa. Sollecitato dalla suggestioni dantesche, non posso a meno di ricondurre questa parentela tra lussuria e follia alla “matta bestialità”, la perdita del “ben dell’intelletto”, di cui non ho mai compreso fino in fondo la necessità della specifica “mattezza”, cioè follia. Che sia quella stessa follia di cui parla quel folle di Emanuele Severino – l’idea cioè che le cose vengano dal nulla e vadano verso il nulla, quel nichilismo su cui si fonda la nostra comprensione dell’esistenza intera? Ma questi sono ancora sofismi un po’ gratuiti e sconnessi – per ora.
Passiamo finalmente a considerare la figura di Senza-volto, personaggio del film “La città incantata”. Egli è, secondo quanto possiamo vedere, un dio vagabondo e un solitario, apolide e privo di legami, nonché di un volto – della qualità di persona, cioè: di ciò che rende umani propriamente, del volto cui si può rivolgere parola e affetti. Egli è per giunta trasparente e, a quanto pare, vuoto: animato soltanto da un’ombra pulsante che vibra dove dovrebbe stare il cuore. Così privato di immagine e identità, Senza-volto non è ammesso nel reame ameno e dilettoso dei bagni pubblici. Afflitto da questa tremenda mancanza d’essere, Senza-volto è condizionato in tutti i suoi movimenti da un desiderio che, dopo un timido esordio, si fa sempre più famelico e indiscriminato nell’esercizio della propria voluttà autofondata. Quando ancora il suo corpo vano e scarnito non è contaminato dal vizio che lo renderà mostruoso, è il desiderio per colei che gli usa gentilezza e l’ammette nel consesso umano – la piccola Chihiro – a scatenare la sua catàbasi demoniaca. L’amore per Chihiro – la gratitudine, la riconoscenza, l’amor ch’amar non perdona a chi si scopra a sua volta amato, cioè preso in carico e cura – è il motore immobile della sua dannazione iniziale: da quel semplice gesto di gentilezza deriva tutta la ridda interminabile dei soprusi e dei vizi che scuoteranno il suo corpo vuoto, al servizio di quel desiderio che mai non si sazia, che dopo il pasto “ha più fame che prìa”. Cos’è questo vizio, che sconvolge la vita di Senza-volto agganciandolo all’ossessione monomaniaca per Chihiro? Esso non ha nome – salvo forse quello che potremmo attribuirgli di “lupa”, secondo la descrizione che ne diede Dante nel primo canto dell’Inferno: la brama insaziata, il desiderio metafisico che non ha fine né compimento.
Senza-volto, alla disperata ricerca di Chihiro, comincia a produrre oro dal nulla e a ingoiare creature e pietanze che gli vengono porte in cambio di quella ricchezza inesauribile che esce dalle sue mani. Dal nulla al nulla, la sua volontà di potenza si produce, produce e annienta le cose che entrano ed escono dal suo corpo come dalla notte della creazione. Il fiat che dà origine all’oro è consorte della voluttà che inghiotte e distrugge le cose che cadono sotto il suo sempre più vasto dominio. Il suo corpo si adegua plasticamente alla deformazione che il vizio gli’impone: non c’è fine alla sua brama di pienezza d’essere, non c’è modello tensivo cui giungere e alla cui ombra, saziati, dire “basta”. All’apice della sua metamorfosi, Senza-volto ha guadagnato parola – rubando la voce alle creature che ha inghiottito, che ha fatto proprie assimilandone postura e sembianze – e si fa tentatore nei confronti di Chihiro con le stesse parole del Satana dei Vangeli: nomina una cosa a caso, io te la darò – perché tutto posso produrre, producendo l’oro che tutto produce. Stringendole poi il collo con l’artiglio lordo d’oro e di frattaglie, le ingiunge addirittura di desiderare qualcuna delle cose che può offrirgli – imitami, seguimi – e di desiderarlo – lui, il Senza-volto divenuto-qualcuno per assimilazione di altri sfortunati incontrati sulla sua strada. Si può comandare che il desiderio esista? Sì, se analogamente si può comandare che l’oro, che il potere coniato esista, dove un istante prima non c’era niente. Potere e potenzialità stanno in rapporto con il non-essere, se ci si pensa: prima una cosa non c’è, poi esiste. Cosa l’ha prodotta? Il potere – ma il miracolo è troppo inverosimile perché uno vi creda una volta per tutte, e il giochino deve essere ripetuto una, dieci, mille volte sotto lo sguardo incredulo del novello dio…
Chi intenda questa mostruosa orgia dei diversi volti del male non può a meno, credo, che essere colto da vertigine. E non altrimenti che in questa forma confusa e oracolare posso rendere giustizia alla vertiginosa sovrapposizione di tutti i principali peccati cristiani che in Senza-volto mostrano la loro segreta parentela – i “molti animali” cui la bestia “s’ammoglia”, stando a quanto dice Dante. La matrice comune a tutti questi mali è perfettamente riassunta dai caratteri della lupa mai sazia, il cui desiderio sempre si rinnova, come il secolo, e dopo il pasto ha più fame di prima: la lupa “che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza”. Ma la lupa, nella Commedia, ha degli antecedenti figurali che il viandante deve cogliere adeguatamente: il leone, ovvero la superbia, il desiderio d’essere che fa quasi da perno metafisico al trittico delle tre fiere, e la lonza, ovvero la lussuria, quel desiderio di possesso fisico che, se colto sotto una luce diversa, divina piuttosto che umana, svelerebbe al Senza-volto l’amore come quell’orizzonte di senso che non del possesso, ma del desiderio proclama la filiazione divina: “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Purtroppo, Senza-volto non si può amare – perché è solo un volto che si ama, e viceversa, senza-volto non si può essere amati. Quello che si può fare, senza-volto, è possedere – fottere – annientare ed essere annientati, come vuole l’opera tremenda del potere, che viene dal nulla e va verso il nulla. Perciò iI nulla su cui il potere si fonda non potrà mai essere riempito o sostituito, per quanta lordura si riesca a inghiottire nel mentre.
Tutto per una sciocca bambinetta di cui Senza-volto si è innamorato – ovvero, di cui ha desiderato il possesso. Ed ecco che proprio da colei che era la radice di ogni male, la tentatrice che ha fatto conoscere a Senza-volto quella realtà alternativa, quella virtualità possibile che ha scatenato in lui i demoni del potere e del possesso – ecco che dalle mani di quella sciocca bambina arriva anche la polpetta magica (o divino macguffin) che gli fa vomitare tutto e lo salva. “Volevo darla ai miei genitori”, dice Chihiro con la semplicità propria dei bambini, “ma ne hai più bisogno tu”. Così, credo, Beatrice è stata per Dante sia scandalo che redenzione, in momenti diversi e sotto diverse forme.
Mentre vomita, Senza-volto continua a seguire Chihiro, ora desideroso soprattutto di vendetta, più che di possesso. Già prima, quando l’aveva vista entrare nella stanza dove l’avevano chiuso con tutte le cose che gli restavano da mangiare, la vista della fanciulla amata non accendeva più quel desiderio feroce che l’aveva fatto tremare appena pochi istanti prima. Per forza: con tutto quello che aveva mangiato! Non si può andare all’amore con le mani piene, purtroppo, perché Eros è figlio di Povertà. Vomitando, Senza-volto guadagna lentamente quella pace che aveva perduto, dimentico di tutto ciò che lo aveva eccitato fino a un istante prima. E’ tornato all’innocenza del fanciullo.
Riassumiamo. Eros, cioè l’amore, apre lo spazio della virtualità, cioè la conoscenza del bene e del male (del posseduto e del mancante) che è classicamente definito come “peccato originale”: Chihiro che apre la porta delle terme al Senza-volto; dunque l’invidia, la vista che brama, caccia la lupa dall’inferno, aizzandola alle calcagna di quelle ombre del bene perduto, la pienezza d’essere – la realtà non manchevole, santa di identità; ed ecco che si scatena nel mondo, questa lupa, ammogliandosi a tutte le altre bestie e divorando tutto ciò che trova. Nascono gli infiniti peccati, che portano tutti il segno della madre nella loro “mistica magrezza” (tratto di Pasolini), inguaribile, nella brama che “dopo il pasto ha più fame che prìa”. Poi, di nuovo, l’eros, ma stavolta passivizzato, spento – perché ha le mani piene ma non può donare, il dannato ingombro di merda. E infine, il divino macguffin: una polpetta non richiesta, non voluta, di cui nemmeno si sospettava l’esistenza: è la Grazia, il contro-amore divino che non giunge per meriti – e che ha lo stesso volto di Eros, dell’amore da cui tutto è iniziato, ma che ha la virtù di guarire secondo una logica indecifrabile. In fondo, come può… è solo una polpetta! E non era nemmeno pensata per il peccatore! Chihiro l’avrebbe voluta dare ai genitori…
Quindi tutto viene rigettato, lo stomaco ingombro si svuota e si rilassa, la nauseante caterva delle cose inghiottite si riversa sui tetti della città incantata e il peccatore ritrova l’innocenza del fanciullo. Da quel momento in avanti sei di nuovo tu – ma sei salvo, grazie alla risposta divina – l’amore-Charis – che esaudisce la domanda disperata del tuo amore-Eros. Da un amore all’altro, passando per tutte le malizie dell’inferno – e poi il silenzio.
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