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«Sleepers in that quiet earth» | La menzogna romantica in "Cime tempestose"

Aggiornamento: 28 feb 2020

Robert McGinnis, "Wuthering Heights"

«Come immaginare che sia inquieto il riposo di chi dorme sepolto in quella terra quieta?» È la domanda con cui mr. Lockwood, brillante uomo di mondo nonché occasionale narratore delle vicende delle Heights e di Thrushcross Grange, suggella l’ultima pagina dell’unico romanzo di Emily Brontë, Cime tempestose. Un’immagine di profondissima quiete chiude quello che è forse il più inquieto e “romantico” dei romanzi della letteratura universale, opera di una crudezza che nemmeno la nauseante caterva di narrazioni contemporanee riesce a far sembrare insipida al paragone.


Narrazione “romantica” per eccellenza, appunto, nel senso che la critica letteraria, il senso comune e lo stesso René Girard attribuirebbe alla spigolosa opera unica della migliore delle sorelle scrittrici dello Yorkshire. “Menzogna romantica” paradigmatica è infatti l’amore bestiale, assoluto e irredimibile di Heathcliff e Catherine Earnshaw, non mediato da alcuno, nel quale la triangolazione del desiderio è solo inciampo, oppure artefatto e catalizzatore, mai motore originario del desiderio. Catherine muore poco più che adolescente, e il suo innamorato Heathcliff consuma quel che resta della propria vita in una dolorosa e inane vendetta, tormentato dall’immagine di lei annidata in ogni anfratto dell’esistenza – «il mondo è una terribile collezione di reliquie del fatto che è esistita, e che io l’ho perduta». Prosciugato alla fonte stessa della propria volontà maliziosa, consumato dalla ferocia e dal dolore bestiale di un’esistenza votata all’assoluto della violenza e dell’amore, Heathcliff muore di stenti nella ricca casa delle Heights, perseguitato dal fantasma di Catherine, che trasforma il suo volto arcigno in un ghigno di follia, la mattina del suo decesso. I fantasmi dei due innamorati, ricongiunti nella morte, infestano conseguentemente la brughiera e turbano il lavoro quotidiano dei pastori inglesi.

Ben prima che la matta bestialità di Heathcliff arrivasse a comprendere sé stessa, la giovane Catherine, con la forza intellettuale che solo un puro cuore di donna possiede, aveva descritto il proprio amore per Heathcliff a Nelly Dean con queste parole, invocando a più riprese l’eternità nel senso della vita dopo la morte e dell’incorruttibilità della terra deserta dallo stampo umano, fatta priva di tempo: «Tutti avete l’idea che ci sia, o debba esserci un’esistenza dopo di questa. A che cosa servirebbe esistere, se io fossi tutta contenuta qui? I miei grandi dolori in questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e io li ho contemplati e provati tutti fin dall’inizio; il mio grande pensiero nella vita è lui. Se tutto il resto crollasse, e lui restasse, io continuerei a esistere; e se tutto il resto rimanesse, e lui fosse annullato, l’Universo diventerebbe un enorme estraneo. Non ne farei parte. Il mio amore per Linton [futuro marito di Catherine] è come le foglie del bosco. Il tempo lo cambierà, lo so bene, come l’inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff assomiglia alle rocce eterne là sotto: è una fonte di scarsa gioia visibile, ma è necessario». La rassegna d’eternità giunge al parossismo più che cristiano dell’identificazione dell’io e del tu: «Nelly, io sono Heathcliff. Lui è sempre, sempre nei miei pensieri, non come un piacere, non più di quanto io non sia sempre un piacere per me stessa, ma come il mio stesso essere. Quindi non parlare più della nostra separazione: è impossibile» (1).

Difficile parlare di identificazione simbolica o di bovarismo: Catherine non sovrascrive a Heathcliff alcuna idealizzazione, positiva o negativa. Le loro anime sono semplicemente allacciate in una trama inconsutile, di cui non si può render conto analiticamente, come di una somma di fattori. Crescendo insieme, i loro corpi doloranti hanno sanguinato l’uno nell’altro, come l’anima e la carne di Achab. A un bisturi girardiano, la prosa della Brontë non presta il taglio debole della cucitura: o la si ignora, o la si taccia di “menzogna romantica”.

Mr. Lockwood, che ascolta tutta la bestiale vicenda dalla bocca di Nelly Dean, confessa analogamente il proprio stupore, a un certo punto, attribuendo al luogo, alle Heights tempestose che danno il titolo al romanzo, una specifica qualità che fa della brughiera inglese il protagonista “altro” della storia: «Qui riesco quasi a credere che un amore lungo una vita sia possibile; ed ero convinto di non saper più credere a un amore più lungo di un anno». Lockwood, gentiluomo di città, mondano e brillante, assapora le assurde vicende delle Heights come un boccone esotico – non tuttavia al punto da tenerle a cuore più di un anno, quando, passando per Gimmerton, fatica a rammentarsi dell’immortale epopea. Si capisce: la città brulicante di storie lo attende, le vicende di infinite Bovary e innumeri Julien Sorel attendono di essere cantilenate alle orecchie sazie e costipate dei frequentatori di salotti. Fosse nato duecento anni dopo, mr. Lockwood sarebbe stato certamente un binge watcher di serie su Netflix – uno di noi, insomma: un borghese – un abitante della città sterminata.

La sazietà stordita non impedisce al narratore Lockwood di produrre una soddisfacente analisi del proprio stupore al cospetto dell’amore “lungo una vita” di Catherine e Heatchliff: «In un caso [nella brughiera delle Heights] noi mettiamo davanti a un uomo affamato un solo piatto sul quale dovrebbe concentrare il suo intero appetito e rendergli giustizia; nell’altro [nella città dei salotti, nido dei borghesi], gli presenteremo una tavola imbandita da cuochi francesi; forse potrà trarre altrettanto piacere dal tutto, ma ciascuna parte è un mero atomo davanti al suo sguardo e alla sua memoria» (2) Groppo strozzato di significati, totalità all-you-can-eat dei rimandi, la città borghese è il palco osceno della shakespeariana tale told by an idiot che priva di senso ogni cosa che ambisca a stagliarsi come assoluto. Città: sorgente non metafisica del nichilismo. Nel borgo dalle mille finestre, l’anima di Catherine e quella di Heathcliff avrebbero mischiato invano il loro sangue nel Tamigi, distratti e confusi nella ridda dei passanti innamorati. Ma qui, sullo sfondo quieto e silenzioso della brughiera, dove ogni apparizione o fantasma si staglia come sull’eternità incorruttibile, qui vien davvero da pensare che un amore lungo una vita sia possibile.


Ci si domanda quanto il contesto borghese-cittadino, catalizzatore della società di scambio e della comparazione delle merci, influisca sulle relazioni amorose dei personaggi – delle persone. Tuttavia, anche Emma Bovary vive in campagna, e proprio come Catherine Linton legge molti libri, unici compagni della solitudine campestre. Perché sulle donne delle Heights le letture non gettano quell’incanto seduttorio che affligge Emma? Forse perché Emily Brontë è ancora una narratrice romantica, e non un narratore romanzesco come Flaubert? Eppure la scrittrice inglese pare conoscere molto bene le logiche cittadine (borghesi e mimetiche) che decretano la fine dei fatui amori di città, anche se non sembra interessata a raccontarle se non attraverso i cenni che vi fa quell’alieno di mr. Lockwood nel silenzio della brughiera infestata (3). Forse non è del tutto irrilevante che Cime Tempestose sia scritto da una donna, a differenza di Madame Bovary– personaggio nato maschio: «Madame Bovary c’est moi», disse Flaubert – e che l’intero canone girardiano dei narratori illuminati, “romanzeschi”, sia interamente composto da uomini. Non so se si sia mai parlato di questioni di genere in relazione alle teorie di René Girard sul romanzo. Nel caso, sarebbe un bel capitolo da aprire.

Emily Brontë conoscerebbe dunque la formula segreta dell’amore, non inquinata dalla mondanità, sulla quale ci interrogavamo in un altro articolo? In una scena molto importante, la governante Nelly Dean interroga Catherine Earnshaw sui motivi che la indurrebbero a sposare Edgar Linton, che la giovane dice di amare. Catherine, con la compostezza di una consumata mercantessa – o la superficialità di una borghesuccia viziata, se si vuole – sciorina tutta la sequela delle “ragioni dell’amare” che si possono pesare sulla bilancia dello speziale: è bello, giovane e allegro, è ricco e la renderà la donna più importante del vicinato – e alla domanda sul come dell’amore, ancora: «Amo la terra che calpesta, e l’aria sopra il suo capo, e tutto ciò che tocca, e ogni parola che pronuncia» (3). Tutto il repertorio completo della menzogna romantica. Alle critiche di Nelly Dean, che le fa notare come ci siano parecchi altri giovani belli e ricchi al mondo, lei risponde, semplicemente, che se anche ce ne fossero, non sarebbero alla sua portata – e nemmeno avrebbe occasione di conoscerli. È così che «amano tutti… sei sciocca, Nelly». Abissale superficialità di certe donne, di cui un abissale come Nietzsche non finì mai di stupirsi! Eppure, questo è l’amore “romantico” di Catherine per Edgar, che è «come le foglie del bosco», e che nulla ha a che fare – nemmeno lo intacca come alternativa! – con quello per Heathcliff. Il che non comporta però un discredito dell’amore “come amano tutti”, come si potrebbe arguire da una prospettiva manichea, bipolare – girardiana? Semplicemente, non è dell’Altro-me-stessa di Catherine che si parla qui. «Il mio amore per Heathcliff assomiglia alle rocce eterne là sotto: è una fonte di scarsa gioia visibile, ma è necessario. Nelly, io sono Heathcliff». Certo si può smettere di amare sé stessi, e perfino iniziare a odiarsi, ma mai dimenticarsene, o smetterne l’ossessione, finché si vive. Nemmeno la morte o il suicidio riescono a liberare gli animi più inquieti dei solitari – così come quelli bifidi e intrecciati degli innamorati.


Quando penso a Emily Brontë me la immagino come la vecchia e morbida nonna dei tanuki di Uchouten Kazoku – sebbene, quando scrisse il romanzo, avesse più o meno la mia età di adesso. Fatico a credere che la seconda narratrice della storia, Nelly Dean, altrettanto saggia e scontrosa governante della Grange, non fosse un suo personaggio-avatar, molto più delle varie Catherine, che assomigliano più a istanze proiettive – ma nelle quali ella dovette infondere senza dubbio tutta la propria saggezza femminile. Ho avuto una sorta di illuminazione romantica, se così si può chiamarla, quando, verso la fine del romanzo – non ricordo dove – Heathcliff – personaggio che sicuramente la narratrice amò di un amore idealizzato – si avvicina a Nelly Dean e le rivolge parola, in quel momento, senza altro motivo se non il desiderio della scrittrice di accordare alla propria portavoce, di fronte ai lettori, la considerazione di un personaggio tanto affascinante. Anch’io, che ho ambizioni da romanziere, da piccolo fantasticavo storie delle quali non ero protagonista, ma spettatore esterno, destinatario della considerazione di personaggi che tanto amavo senza invidia – appunto perché la loro anima era la mia stessa. L’importante era esserci, godere insieme a loro della quiete che risultava dal raccoglimento di tutti i loro destini nel mio cuore. In grazia di un’intuizione spirituale, o banalmente nella mia illusione, credo che fosse lo stesso anche per Emily Brontë.

Raccontare storie educa ad amare, io credo, perché mentre costringe il narratore a valutare e soppesare i punti di vista di tutti i personaggi, induce nel censore che è in noi la quiete del perdono; perché la personalità del narratore, spalmata su tutti gli attori della grande scena, trabocca dalle mura dell’io e dilaga nei corpi degli altri come sostanza dell’identificazione e quindi dell’amore. Heathcliff l’imperdonabile è perdonato – e amato – dalla prima all’ultima riga, e da nessuno nella misura in cui fu perdonato da Emily Brontë. In fondo, le loro anime erano una cosa sola: «I am Heathcliff» – ed è un suono così diverso da quello di una frase tanto simile, all’apparenza, come «Madame Bovary c’est moi».


Come immaginare che sia inquieto il riposo di chi dorme sepolto in una terra quieta come fu il cuore inquieto e scontroso di Emily Brontë? Nelle ultime pagine del romanzo, la stessa Nelly Dean afferma che i morti riposano in pace, raccomandando Lockwood di non parlare degli spettri con leggerezza, con la mondana ironia di un cittadino. Non è infatti l’inquietudine di uno spettro borghese, non è lo Jacob Marley di Dickens fatto della stessa sostanza degli spettri siamesi Catherine e Heatchliff, che attraversano la brughiera abbracciati. La terra nella quale riposano è quieta – silenziosa e pacifica – e così i loro cuori tanto tribolati in vita. Riposano nel grande cuore di Emily Brontë. Leggendo il finale, il capitolo XV e alcuni altri momenti altissimi del romanzo, si ha davvero l’impressione che il tormento dei personaggi sia infuso della profondissima quiete della brughiera, che sa di eternità, ed è tutt’altra sostanza dalla confusione caduca e reversibile della città. Chiudendo il libro, viene da domandarsi se, nel secolo che ha esteso la Rete della civiltà cittadina ai più remoti angoli della campagna, esista ancora una quiet hearth, un cuore quieto o una brughiera silenziosa, nei quali sperare di essere sepolti con la propria Catherine, e dove condividere un amore lungo una vita, condannato all’eternità.


* * *


(1) Tutte le citazioni sono tratte dalla bellissima edizione dei Classici BUR Deluxe del 2017, abbellita dalle conturbanti illustrazioni di Friz Heichenberg. La presente è a p. 99.

(2) Op. cit., p. 77.

(3) Come ho detto anche sopra, non è che Cime tempestose sia del tutto privo di momenti altamente mimetici, i quali però compaiono come episodi fastidiosi, irrilevanti o al più ostacolanti, ben altri dal motore narrativo stregonesco dei romanzieri illuminati. Si leggano le pp. 123-124 dell’edizione di riferimento, dove Catherine orchestra forse l’unico triangolo del romanzo con Isabella e Heatchliff, rivolgendosi a quest’ultimo: «Stavamo litigando come gatte per te, Heathcliff; e io sono stata decisamente battuta nelle profferte di devozione e ammirazione; e oltretutto mi è stato detto che se solo avessi il buon gusto di mettermi da parte, la mia rivale, perché questo vuol essere, getterebbe un raggio di luce nella tua anima che ti guarirebbe per sempre, e spedirebbe la mia effigie nell’oblio eterno!». La domanda inespressa, profonda come l’amore di Catherine, suona più o meno: “Davvero è immaginabile che una qualsiasi Isabella Linton possa…?”

(3) Op. cit., p. 95.

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