Negli ultimi appunti manoscritti di Petrolio, romanzo incompiuto di Pasolini, la figura del Merda, un giovane moderno degli anni Settanta, identico a mille altri prodotti del conformismo, grandeggia come lo spettro sincero di un personaggio che ciascuno di noi, uomini e donne di questo evo, si è ritrovato almeno una volta nella vita ad incarnare: il Fidanzato o la Fidanzata, stretti l’uno all’altra, a passeggio per una strada cittadina, incastrati in una posa che, nella rappresentazione ossessiva ed espressionistica di Pasolini, è mantenuta a costo di disagi posturali e dolori lancinanti – perché quella posa va tenuta non solo in quanto banalmente è “da tenere”, sulla base di un modello imitativo sempre presente, ma perché, appunto, “va tenuta”, va sorretta e imposturata, nella sua innaturalità posturale, come l’effigie veridica dell’impossibilità della relazione romantica nel nostro evo.
Assegno all’aggettivo “romantico” una connotazione analoga e differente da quella di cui si serve Girard: intendo tutto ciò che latamente ha a che fare con la promessa di una relazione durevole – o meglio eterna – tra un uomo e una donna, che culmini nel matrimonio, ma preceduta da una fase di intensa, hollywoodiana intesa romantica.
L’analisi più esaustiva che conosca dello stato attuale del legame romantico-matrimoniale è il saggio di Eva Illouz dal titolo Perché l’amore fa soffrire, edito in Italia da Il Mulino. L’autrice, con una lucidità non priva di cinismo, rilegge la meccanica dei rapporti uomo donna nella società liquida alla luce delle leggi del mercato libero, sorprendentemente analoghe a quelle che regolano le relazioni e le separazioni sentimentali (1). Gli attori del mercato relazionale sono portatori di un valore simbolico, terziale e “sintattico” (posizione sociale, aspetto, qualità positive countable e monetizzabili) che incontra la volontà di investimento di altri attori (a loro volta dotati di bonus e malus, questi ultimi però solo in misura accettabile nell’ottica di un investimento durevole). I features dei singoli attori di mercato vengono comparati e saggiati per prevedere un profitto positivo della relazione. Esse istanze sono gli unici attivatori numerici dell’incontro, che si traduce in caso positivo in un win-win, nel profitto di entrambi i contraenti, nella produzione di un interesse figlio dello stoccaggio del capitale sentimentale. A garantire la produzione di profitto valoriale è l’istanza monogamica, inverosimilmente sopravvissuta alla rivoluzione sessuale del ’68 – e non certo per una qualche resistenza della morale cattolica, ma appunto perché l’interesse economico, per prodursi, necessita di un periodo di relativa stabilità. Quando vengono meno le condizioni positive che rendevano profittevole l’investimento di tempo e dedizione, lo stoccaggio di capitale sentimentale, il contratto relazionale è rescisso con quietanza concorde delle parti – o rimostranze narrative e vittimistiche del trombato, ad maiora.
Sembra tutto piuttosto normale, verrebbe anzi da dire ragionevole, dal punto di vista che il nostro evo ci impone di adottare. Non ci passa neppure per la testa che la promessa di eternità che il matrimonio comportava – al più psichiatrizzata come pia illusione conservatrice – rispondesse razionalmente all’impossibilità di compiere una scelta razionale in ambito sentimentale (legarsi ad un’altra persona per il resto della vita???) tramite una scommessa, un atto di fede nell’altro (e nell’aiuto di Dio) che nessun bilancio degli utili e dei passivi potrebbe calcolare e prevedere, ieri e oggi. Ce l’ha insegnato Denis de Rougemont. (2)
Il ragionamento di Eva Illouz, invece, è semplice e forse anche un po’ banale: la società borghese assunta a motore dell’universo, Vero Fascismo, uniforma al proprio totalitarismo silenzioso ogni aspetto della vita umana, imponendo le proprie leggi economiche come trame cosmologiche. Dico “banale” non per criticare l'autrice, che stimo, ma perché in fondo lo sappiamo tutti come funziona. C’è relazione (c’è contratto) se conviene e fin quando conviene a entrambi – da molti, da infiniti punti di vista, che nondimeno finiscono sempre pesati sulla bilancia dell’interesse individuale, vera sostanza dell’attore egoista del mercato libero. Gli amori di pura dépense, sacrificio romantico in senso stretto, aneconomico – o anche quelli di puro affidamento all’altro e alla tutela del buon Dio, credo (tibi) quia absurdum, scevri di calcolo e previsione – sono favole belle per i libri e i film.
Va da sé che la considerazione degli attributi di valore dell’altro su cui investire a livello relazionale non dipende da qualche intrinseca compatibilità di virtù, fosse anche solo la chimica goethiana, ma appunto da quelle stesse logiche mimetiche che muovono l’economia di mercato tramite pubblicità e marketing. È la corrispondenza a un modello (plurale ma monolitico nella sua dittatorialità) a rendere desiderabile o meno un partner e la coppia insieme costituita – non solo dal punto di vista estetico, ma anche e soprattutto rispetto alla sua adeguazione ai valori libertari dominanti: tolleranza, moderazione, buonsenso, conformismo ideologico ma soprattutto autonomia e indipendenza, queste ultime veri dogmi irrefutabili dell’ideale antropologico contemporaneo. Se non sai stare bene con te stesso, se non sei autonomo e indipendente, non potrai mai stare con qualcun altro. Ma se uno stesse bene con sé stesso, che bisogno avrebbe, a rigore, di cercare gli altri? Sarebbe appunto autonomo, come è auspicabile. Cerco di dare un fondamento autorevole a questa mia eresia moderna citando appunto Eva Illouz. «L’ossessione e l’ingiunzione moderna di “amare sé stessi” sono un tentativo di risolvere attraverso l’autonomia quella che in realtà è la necessità di riconoscimento, che viene soddisfatta solo attraverso l’ammissione della propria dipendenza dagli altri» (3). Altrove, parlando di animazione giapponese, abbiamo parlato di questa incapacità di ammettere la dipendenza dagli altri come il grande sintomo rimosso dell’occidente, l’amae.
Non mi dilungo su questi temi, perché so che rischio di sembrare sciocco. Tornerei a Pasolini. Il quale, da uomo del Dopoguerra, non aveva ancora così lucida coscienza della deriva economicistica della relazione romantica affatturata dal Nuovo Fascismo, ma riconosceva nelle albe di quei primi anni Settanta la matrice profondamente mimetica e comparativa di questo “cataclisma antropologico”. La visione del Merda (appunti 71-74 di Petrolio) consiste in una lenta processione della coppia moderna costituita dal Merda stesso e dalla fidanzata Cinzia attraverso diversi gironi e bolge di memoria dantesca, rappresentati da strade cittadine sulle quali il mondo passato si sovrappone come in diplopia su quello contemporaneo, ripugnante e mostruoso. Al centro di ogni girone, dentro una piccola tomba di marmo che funge da tabernacolo, è sepolto il “Modello”, elemento che è privo di qualunque attributo salvo la “bruttezza” e la “ripugnanza”. La parola a Pasolini. «L’imitazione è il fondamento formale del loro codice di vita. Questi, dunque, [i giovani moderni], nel Girone della bruttezza e della ripugnanza, imitano il Modello della bruttezza e della ripugnanza: che però – va tenuto ben presente – è uno dei tanti Modelli che essi imitano, come in un Culto» (4). La giovane coppia avanza attraverso bolge e gironi, sotto la protezione del Modello che dorme nella sua tomba di marmo. La loro avanzata si compie in orizzontale, lungo via Torpignattara dove ha luogo la visione, ma discende inesorabile verso l’inferno che traluce dalla visione doppia. Il Merda e Cinzia guidano l’avanguardia di una ridda di coppie moderne delle più varie fogge e articolazioni, accomunate dalla cieca fedeltà alle stesse regole: «1) Pretendono l’ammirazione di tutti gli astanti, benché riescano, e per di più sorridendo, sereni, a non posare neanche un istante lo sguardo su nessuno; 2) Manifestano nel modo più inequivocabile la loro assoluta autosufficienza e mancanza di ogni interesse per ciò che non riguardi il loro xxx [“fottuto”, chioserei] rapporto; 3) Si tengono regolarmente – e senza derogare un istante a tale regola – strettamente abbracciati […] o infine, si tengono di comune accordo per mano, anche se è lui che la impugna, con il tacito consenso di lei; 4) Tacciono a causa dell’ineffabilità dimostrativa del loro rapporto, che ostentano come provocatorio (in mezzo a centinaia di altre coppie che fanno esattamente la stessa cosa); 5) Parlano, quando parlano, in modo fitto e intimo, come se parlassero un gergo da iniziati, appena percettibile, tanto fra di loro l’intesa è immediata; 6) Non si xxx [“stancano”?] una sola volta di osservare l’effetto (che deve essere strepitoso) sui passanti». (5)
Come dialogano Pasolini ed Eva Illouz intorno a questa tragicomica rappresentazione saggistica ed artistica del legame di coppia nel morente XX, nascente XXI secolo? Credo sia opportuno fissare innanzitutto l’attenzione sullo stretto legame che intercorre, ancora, tra il portato ideologico della civilizzazione borghese (XVIII-XX secolo), con la sua logica economicistica e utilitaristica, e l’esplosione di imitazione negativa, mediazione interna e crisi assunta a sistema che si produce nello stesso arco di tempo. L’economico come quintessenza della civilizzazione borghese è il grimaldello concettuale che può permetterci di guardare più a fondo nell’abisso del presente: il calcolo, la ragione dell’utile, l’obliterazione dei risvolti negativi dell’esistenza, del sacrificio improduttivo (la dépense batailliana, l’atto di fede non garantito da certezze di calcolo previsionale) e l’assunzione destinale dello Yang (il positivo, l’utile, il profitto) a legge dell’universo, contestuale all’oblio notturno e irredimibile dello Yin (Il negativo, il sacrificio, la perdita); e contemporaneamente la perdita di ogni trascendenza verticale, la riduzione del mondo a orizzonte piano, a scacchiera di pedine il cui valore dipende dalla disposizione sintattica, dal posto che occupano nel piano orizzontale degli scambi e delle transazioni orbate di un sopra e di un sotto. Altrettanto cruciale è la vocazione individualistica del portato borghese, la quale però soffre di una contraddizione lancinante, dal momento che cerca validazione precisamente nelle relazioni – o meglio, tramite le relazioni, ridotte a negozi interessati di un’accumulazione autistica di valore da parte di attori economici spogliati di qualsiasi fondamento stabile di senso. «Il legame erotico/romantico deve generare un senso di valore, e il valore sociale moderno è soprattutto performativo, cioè si consegue nel corso dell’interazione con gli altri e attraverso di essa», dice Eva Illouz (6). Ma ciò avviene soprattutto perché oggi, dopo la rivoluzione sociale dell’Ottocento, il valore dei singoli individui deve essere costantemente ricercato e riaffermato, essendo crollate le gerarchie che collocavano in maniera non negoziabile ciascun individuo sul suo gradino sociale stabile e definito una volta per tutte. E se, nel vortice della crisi mimetica contemporanea assunta a sistema, il valore individuale è sintattico, cioè dipende dal rapporto che la posizione relativa di ciascuno ha con quella, altrettanto relativa, dei prossimani, allora è nell’interazione sociale – e nella forma romantico-matrimoniale, che ne è il coronamento stellare – che il valore dei singoli spicca con particolare luminosità, congiuntamente a quegli altri indicatori di status, come il censo, lo stile di vita e la professione, per i quali ci arrabattiamo ogni giorno con infaticabile acribia. Ancora Pasolini: «[Tutti] hanno l’aria di sapere benissimo che non ci si deve unire in matrimonio per lottare contro la miseria, [come in passato], ma per raggiungere ed esprimere socialmente il benessere». (7)
“Nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”, recita la formula di rito del matrimonio – ma il depresso, nevrotico mortale del XXI secolo vive la perdita come un assassinio, e non esiste legame o valore che compensi un cattivo affare, soprattutto se ci siamo inguaiati a vita, e la prospettiva del sacrificio si configura come un lento stillicidio di morte, noia e sopraffazione quotidiana che rassomiglia da vicino lo scenario apocalittico della “crescita zero” paventata dai guardiani delle nostre economie nazionali. Dal versante in luce della montagna, nell’assunzione irrevocabile del Positivo come unico destino, ogni macchia d’ombra è l’immagine vera della morte eterna. Così, come in generale non esiste matrimonio perfetto, saldatura inconsutile del due nell’uno, nella piena adesione alla civilizzazione borghese manca addirittura lo spazio perché si dia matrimonio in senso vieto e perfettibile – come affidamento e non come calcolo – e quindi, a cascata, mediamente non sono veri e propri legami quelli che creiamo e vediamo crearsi ogni giorno, ma piuttosto investimenti plurali, infiniti, liberi come i mercati finanziari, finalizzati alla “crescita”. La liberalizzazione del divorzio, profeticamente, cade nel 1970, pochi anni prima della revoca della convertibilità del dollaro in oro.
Una nota conclusiva. Mi accorgo che, da un punto di vista analitico, opero un’indebita sovrapposizione tra il concetto di legame romantico e quello di matrimonio, che una lunga tradizione che affonda le sue radici nel Medioevo, e che Denis de Rougemont ha chiaramente messo in luce, tende a contraddire. Ma è pur vero che, nella narrazione media cristallizzata nei secoli dei secoli, il matrimonio non è che la naturale conseguenza dell’intesa romantica, anzi la sua culminazione, come in un romanzo di Jane Austen. Questa manifesta inevidenza persiste nelle nostre coscienze come un assioma insuperabile, nonostante le infinite contro-evidenze della sua natura menzognera. La sopravvivenza fastidiosa di quest’illusione, io penso, allude a qualcosa come una verità più profonda – come se davvero l’amore romantico, in qualche maniera che è ignota ai più, possa e debba culminare nel matrimonio, come sembra pensare anche Meiko Honma nell’immagine che accompagna questo articolo. Se pure è così, non è in questo secolo, credo, che tale segreto si tradurrà in verità condivisa.
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(1) La Illouz, e io a traino, esclude dalla propria analisi i rapporti non eterosessuali, per i quali il discorso non sembra tanto diverso, ma indubbiamente meritevole di un’analisi dedicata.
(2) Denis De Rougemont, L’Amour e l’Occident, Parigi 1939.
(3) Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, Il Mulino, Bologna 2013, p. 222
(4) Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Mondadori Oscar, Milano 2015, p. 345.
(5) Ibid., pp. 384-385
(6) Illouz, Op. cit., pp. 181-182.
(7) Pasolini, Op cit., p. 379.
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