Marc Chagall, dettaglio da La commedia dell'arte.
l'articolo è stato precedentemente pubblicato su Liberazioni - rivista di critica antispecista, Anno IX, n. 42 (http://www.liberazioni.eu).
Ogni volta daccapo, «iniziamo dunque dal principio» (1): ci raccontiamo la metafisica occidentale quasi fosse storia di un narcisismo ontologico della sostanza, narrazione per voce di, e necessariamente imperniata su, un fondamento primo e necessario — capace di sussistere da sé, capace di avere un proprio luogo, capace di esercitare a partire questo stesso una propria sovranità. Ed effettivamente il discorso deve partire da un basamento che sia stabile e saldo; crocevia di logica, ontologia, teologia e politica, il bene platonico è sito principe di una articolata totalità, che scaturisce e viene strutturata da questa originaria e originale istanza come da quell’uno che solo contiene e consente la pace di tutti, poiché, unico, può manifestare da se stesso il suo potere. La sostanza aristotelica è tale perché autoriferita: soggetto di inerenza e mai predicato, kath’auto, è quel tode ti (questa cosa qui!) che, autonomo perché separato, consegue la singolare esistenza, e s’indica come eccezionale determinatezza. Il cogito cartesiano trova se stesso — miracolo ex nihilo — nell’iperbole del dubbio, nella sospensione dal mondo: avendone sperimentato la distanza ed essendosi sperimentato come differenza può rintracciare nell’esclusivo, residuale, perimetro del proprio la propria dimora; e da questa poi muoverne alla ricerca del godimento, per tornare a sé con mani piene, ritrovatosi confermato al fondo di ogni propria percezione e azione. Non vorrei qui negare un’effettiva e tendenziale coincidenza tra identità e potere, proprio e sovranità (se anche chi rinuncia al Soggetto lo dissolve non in altro ma in esercizio di forze e potenze, e dunque non abdica realmente un dominio. È probabilmente problematica la posa di chi si vuole essenzialmente oppositore, e parla con spirito di negazione e d’oblio, quasi a voler ricuperare ora un’innocenza, ora una nocenza di senso inverso, originarie). Rimane però forse lo spazio per l’interpellanza: in che misura questa esposta prometeica avventura è effettivamente tale, resoconto affidabile come degno di fede, in che misura questo catalogo è favola (2) nel senso di un far sapere — di più: dar l’impressione di sapere —, verbo creatore che, prendendo parola, appropriandosi della parola, si dà per mezzo di questa l’edificante fondamento di cui abbisogna, e a suo piacimento si modula, premunendosi da sospetti e incertezze? (domanda un po’ retorica). In che misura, poi, questa eloquenza performante rimane buona novella anche per chi pretende di porsi al suo esterno, per raccontare una storia rispetto ad essa critica, del tutto alternativa e originale (e, ancora, originaria) — una cronaca sicuramente valida e verace! ma indebolita, come forse ogni forza di reazione, nel far proprio proprio quel gesto di autoesaltazione per mezzo della distanza, nella pretesa di globalizzare il proprio sapere, di esporre notizia univoca e prioritaria di uno stato di cose (col rischio di reificare quest’ultimo, e occultarne l’apparato solamente discorsivo che lo sostiene), colonizzando paradossalmente l’imperialistico sapere del Medesimo, per porsi come suo salvifico contraltare (3)? In che misura questo bisogno di altari fondamenti lapidi pietre angolari e di scandalo, come varia promessa di un sistema conchiuso, è concupiscenza un poco sacrificale? Prendo in prestito l’insegnamento della cosiddetta disobbedienza civile, che, con movenza fluida, non rigetta tout court — che forse significherebbe spostare solo altrove, rimandare, se non infine arrogarsi — il discorso della legge sovrana (4), ma si appella a qualcuna soltanto delle sue parti, di cui realizza già in opera (nel duplice senso, del prendere coscienza e dell’inverare) l’impossibile: invenendo dunque nella stessa norma tensioni lasciate scoperte, non pensate eventualità e buone occasioni.
Rimaniamo dunque ai margini, pensati come spessore piuttosto che come limite (cioè chirurgico tratto di una riquadratura in coordinate e assi, griglia preparatoria al calcolo dell’inclusione e dell’esclusione), non come demarcazione che decide il dentro nell’eccezione dal fuori, sacro solco decumano da cui diparte e si informa la regale gerarchia — piuttosto lembo incolto, dimensione che non corrisponde (né ora, né poi) a forma stabilita, ma in cui, per usare le parole di Gilles Clément e del suo Manifesto del Terzo Paesaggio (5), regna sovrana l’indecisione: l’apertura all’imprecisione e alla profondità. Rinunciamo a innalzare un (nuovo, diverso, qualsiasi?) ordine, rinunciamo alla sicurezza dell’immobile (esanime!) basamento, alla sua concrezione che mima l’unisono dell’organico, per presentare la propria introiezione dell’esteriore come ineluttabile necessità. O meglio, lasciamo che questo fondo precipiti, senza però che il residuo si rapprenda in sé compiutamente — facciamoci da parte, e facciamo sfilare quella stessa egologia! Lasciamola parlare, che ci e si racconti (ancora una volta, dall’inizio), che si dispieghi nelle fattezze di quel necessario trascendentale, principio di individuazione, punto d’appoggio e condizione di ogni esperienza, ogni potere, ogni tecnica, ogni prensione: forse proprio tra tali tese maglie ci sarà dato di trovare quello zoccolo (sabot, traccia forse umana, forse ferina, ad ora indefinibile figura), brano indocile che s’incastra nei denti della macchina, e le impedisce di concludere l’incessante lavorìo della trama e dell’ordito (6). Mettiamoci a latere e prestiamo tutti i sensi a colui che parla, prima ancora che al suo enunciato (volgendo gli occhi non alla luna ma il dito che la indica, come fa lo sciocco, come farebbe l’animale, che secondo tanta letteratura ignora il gesto ostensivo): ascoltiamolo pure affermare, come diceva Agostino nella sua confessione, «voglio fare la verità entro il mio cuore — davanti a Te nella confessione, e davanti a molti testimoni mediante lo scritto —», e così affermarsi. Ma, sempre con l’Agostino delle Confessioni: quell’Io che parla, che istruisce sul me, è davvero un’ipseità, sostanza prima, presupposto di ciò che è autentico, di ogni ritegno di oggettività? «Perché chiedono di udire da me chi sono?» — a che titolo l’Ego ammaestra, da che luogo come ex cathedra insegna? Che se è vero che una certa maestria, maestà e sovranità implica l’autoposizionalità di chi si presenta come riconoscibile (7) (e, ricorda Derrida, presso i pitagorici il maestro era indicato come autos: la tradizione scolastica non ha che seguito il magistero di questo ipse dixit), come egli stesso in quanto esemplare e ravvisabile sorgente di ogni intellegibilità e disciplina, può ancora esser vero che questa stessa origine non sia disponibile e rintracciabile per colui che parla! Lo nota molto bene Marion (8) rileggendo le Meditazioni cartesiane (il discorso potrebbe essere sviluppato certamente con altri esempi e altri testimoni, scelgo questi in modo molto parziale): il cogito non è mica ben sicuro di essere il primo venuto, né che quel luogo sotto il sole che occupa da tempo immemore sia legittimamente suo — scandaglia dunque le proprie radici, si chiede le ragioni del proprio potere e sussistenza, e ammette di non sapere, di non capire, o quantomeno di essere a riguardo confuso. «Non intendo però ancora a sufficienza chi mai sia quell’io che necessariamente già sono. D’ora in poi devo stare attento a non prendere, incautamente, qualcosa d’altro in luogo di me (quid alium in locum mei: devo stare attento a non scambiare qualcos’altro per me)». Prends garde à toi! lo sentiamo, come canterà Carmen sotto la penna di Bizet, ammonirsi: presta attenzione a te stesso, non è che qualcuno, arrivato prima di te, ti abbia prestato il suo posto? La coincidenza con sé non è perfetta, l’auto-identità logica si ripiega, presagisce uno scambio avvenuto alle spalle, si incrina e sfrangia. D’accordo l’esistenza, ma quale è allora la mia essenza — non mi starò confondendo con qualcosa di diverso da ciò che io sono? Un diverso che, oltretutto, è radicalmente altro da me, tanto che non riesco a identificarlo, non ho parole per chiamarlo (al contrario, è forse questi a chiamarmi): addirittura ora appare come buon Dio che m’insuffla nelle nari scienza e assennatezza, ora come genio malvagio e suadente, che mi deride e confonde con eloquio incantatore. Larvatus prodeo — forse il motto appartiene a questa incondizionata e incoercibile presenza, a maggior diritto che a Cartesio —, avanza mascherato anch’egli, e si prende gioco del me: non capisco cosa mi stia dicendo, quale sia la sua intenzione — la sua parola non è tale quale al discorso apofantico-dichiarativo, non le pertiene insomma né il vero né il falso, eppure significa e sprona (in questo è vicina all’ appello o alla preghiera, al verso della bestia che, Aristotele diceva, qualcosa esprime, anche senza giungere a cristallizzarsi in simbolo di alcunché). Voce insomma incomprensibile: poiché non posso afferrarla, non posso farla mia, allora proprio per questo l’invito che mi porge non può venir declinato: se anche l’inganno è tale, rimane ciononostante a me rivolto nella modalità dell’ingiunzione («se anche egli mi fa sbagliare, allora esisto»). Non so chi sia questo qualcuno, ma io mi scopro esistere in quanto sono al suo cospetto; sempre secondo rispetto ad un potere che può tutto men che nuocermi, farmi cessar d’esistere — un potere che dunque si esprime nell’ospitalità? La disobbedienza testarda e animale che qui mi piacerebbe richiamare non ha più l’andamento quadrupede e il passo ferrato degli zoccoli, ma procede irriverente col gesto volatile e sfuggevole dell’uccello, dell’oiseau rebelle del Bizet di poco sopra «che nessuno può mai addomesticare / se preferisce sottrarsi», che ora dice bene ed ora tace, e «che non ha mai conosciuto legge». Con un’espressione di Haraway, un’alterità inappropriabile, un’alterità inappropriata (9), istanza imperscrutabile che, intanto che incede, insieme schernisce si scherma dalla categorizzazione e dal nome proprio («è forse un Dio, o con qualunque altro nome lo si voglia chiamare — est aliquis Deus, vel quocumque nomine illum vocem — che mi suggerisce questi pensieri?»), mentre elegge l’Io come proprio interlocutore, esortandolo ad una relazionalità aliena alla classificazione del dominio.
Il principio dell’Ego allora non è davvero tale: lo precede un’origine non identificabile, che non è dato fissare, perché agisce come sconvolgimento ed effrazione. Quella che Lévinas chiamava anarchia: protesta contro ogni preteso venir primo, contro ogni pretesa sovranità, «rifiuto di lasciarsi ammansire o addomesticare in un tema» (10), messa in scacco che lascia senza parole, davanti alla quale ci è dato solo indietreggiare, passare in secondo piano e in secondo (ancora oltre, terzo) luogo. Facciamoci da parte, come si diceva poco prima, ci siamo accorti di una traccia di un non so dove, relazione di prossimità (non riconducibile «alla semplice rappresentazione del prossimo» (11)), accesso a quel Terzo paesaggio sempre condannato dall’imposizione del modello, minacciato dalla determinazione della decisione, che l'imbriglierebbe e ne ucciderebbe lo stupore, l’illimitata invenzione. Lasciamo questo luogo incolto (friche), rispettiamone l’assenza di regolamentazione senza carpirne il segreto, permettiamone l’insubordinazione, senza violarne la fecondità — fecondità che, sempre con Lévinas, «continua la storia senza produrre vecchiaia» (12). Torniamo dunque al principio, al passato raccontato ogni volta da capo: passato (nostro, di ogni Io) che, abbiamo intravisto, «non è qualcosa di compiuto, ma qualcosa in divenire … anche il passato è futuro, che con il nostro procedere diviene, si modifica, è divenuto altro» (13). Diceva infatti Landauer che la storia sempre si snatura, si trasforma e ci disobbedisce — e così noi, cui è concesso contravvenire a (questa, particolare) storia e raccontarla altrimenti, scoprendone nuove (im)possibilità: essa infatti non è inalterabile catena di sentinelle ormai susseguitesi in corsa, di cui solo l’ultima sarebbe in movimento, come anello della serie non ancora trascorso; è piuttosto «l’intera catena che avanza … e noi la prendiamo, oppure essa ci trascina con sé sulla via» (14). C’è quindi la storia dell’Ego come dominio e sopraffazione, la storia che identifica identità e sovranità, e che è anche storia della domesticazione ed omologazione di tutto il resto, ma ci è data la possibilità di muoverci in essa altrimenti, financo controcorrente, abitandone le problematicità, i punti d’ombra e d’incertezza (forse però non di riscriverla, se ciò significa rifondare, tematizzare, deciderla in e per l’istituzione. Allora come far significare questi insegnamenti? «È un'immagine su cui riflettere seriamente. Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce?» (15)). Qualche anno fa, all’interno di un ciclo di riflessioni sull’interconnessione, ho avuto l’occasione di rivedere il film Koyaanisqatsi (1982) di Godfrey Reggio, racconto (anche!) di un’umanità lanciata e perduta in corsa, nel suo gigantesco sforzo di assoggettamento espansione tecnologica; nel finale, l’immagine del deflagrare in rovina di un razzo, celebrato da una messa lugubre, si riallaccia ai preistorici pittogrammi apparsi già dall’inizio (immagine sì di apertura, ma già celebrante l’univoco e uniforme del solo umano, quasi macchina o fantasma, quello stesso dal quale, non a caso, è assente la raffigurazione, fosse anche predatoria, di altra specie). «Che cosa dobbiamo fare?», ha chiesto chi dirigeva la meditazione — vuole il caso che ci trovassimo anche noi in mezzo a fitto bosco di querce, e di così alti faggi —, prima di restituire una bellissima, un po’ indocile, risposta: «tornare a disegnare gli animali accanto alle pitture rupestri». Ancora con Landauer; non sappiamo se un’altra storia sia lecita, ma per questo sappiamo che il nostro compito è tentarla, sia mai che ci trascini lei con sé: «quel che nel mondo dà vita a nuove realtà è sempre stato l’impossibile» (16).
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(1) Gustav Landauer, La rivoluzione, a cura di F. Andolfi, DIABASIS la Ginestra, 2009, p. 36.
(2) La favola del soggetto è un tema spesso presente in Derrida. Qui faccio riferimento in particolare a La bestia e il sovrano, vol. I, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, 2009, p. 60.
(3) J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità,Laterza, 2019, p. 21, (ma anche Haraway, Manifesto Cyborg - in particolare tutta la sezione seconda, dal titolo Saperi situati).
(4) Con Landauer lettore di La Boétie, che però temo di misinterpretare: non si cerca il Contr’un, «sentimento individuale sovrano» alla sovranità avverso, e che pretende una volta per tutte di levarsi dal proprio asservimento e rinnegarlo, ma qualcosa di più vicino al Contr’Etat, che è comunità parallela a quella istituita dal potere, «non invenzione del nuovo ma scoperta di quanto già esiste e si è già sviluppato (!)». cfr. Landauer, La rivoluzione, p. 113. O ancora, con Capitini: non un potere che sorga come assoluto, ma un potere che è collaterale scaturigine della compresenza. cfr. Il potere di tutti.
(5) Disponibile in copyleft sul sito internet di Clément (http://www.gillesclement.com/fichiers/_admin_13517_tierspaypublications_92045_manifeste_du_tiers_paysage.pdf). Edito da Quoblibet, nell'edizione ampliata del 2014, con annesso Evoluzione e pratica del concetto di Terzo Paesaggio.
(6) È un’etimologia pur incerta quella che riconduce sabotaggio al sabot, lo zoccolo con cui le filatrici avrebbero inceppato il macchinario a vapore. Mi piacerebbe che lo zoccolo fosse qui anche quello dell’animale, o meglio ancora dell’asino (come quello di Buridano, chiamato da Maurizi nel suo Asinus Novus a testimoniare un’infinità passività e incapacità di decisione). Lo zoccolo equino, figura basale attorno alla quale la concrezione assume il significato della disponibilità a ciò che viene, e non di un attivo e rapace ergersi — saldo fino al testardo nella rinuncia alla padronanza, ma nel mantenersi alla ricerca della fedeltà.
(7) cfr. La bestia e il sovrano, p. 98.
(8) cfr. Jean-Luc Marion, Questioni cartesiane sull’Io e su Dio, in particolare il primo capitolo (L’alterità originaria dell’ego), a cui qui mi rifaccio in tutto e per tutto, e a cui rimando per un’esposizione completa della questione. Lo stesso Foucault aveva ben visto la precedenza di Altri sul cogito (Storia della follia nell’età classica (https://www.archeologiafilosofica.it/wp-content/uploads/2016/06/Michel-Foucault-Storia-della-follia-nell-eta-Classica.pdf), tr. it. Franco Ferrucci, p. 94). Così anche Levinas rintracciava nella cartesiana “idea dell’infinito in noi” (propria della Terza Meditazione) una presenza non coercibile, che il pensiero non potrà in alcun modo domare o abbracciare (tutto l’articolo in realtà sta in piedi, se sta in piedi, grazie agli insegnamenti di Lévinas).
(9) cfr. Donna Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, 2019. Inappropriate/d Other (formula ripresa da Trinh Minh-ha): «essere inappropriate/bili non significa “non essere in relazione con” — ad esempio chiudersi in una riserva speciale, godere dello status di autenticità e intangibilità, nella condizione allocronica e allotropica dell’innocenza. Al contrario, significa trovarsi in una relazionalità diffrattiva e non riflettente: un modo per essere connessioni potenti che spezzano i rapporti di dominazione», p. 55.
(10) Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere o Al di là dell'essenza, Jaca Book, 1983, p. 125.
(11) ibid., p. 126.
(12) Anche qui rimando a Lévinas (al suo Totalità e infinito, Jaca Book, 2012). cfr. in particolare La fecondità, pp. 275-277: «la relazione con l’altro, non potere ma fecondità, mette in rapporto con l’avvenire assoluto e con il tempo infinito».
(13) Landauer, La rivoluzione, p. 49.
(14) ibid, p. 50.
(15) Pier Paolo Pasolini, Il processo, in Lettere Luterane, Einaudi, Torino.
(16) Landauer, La rivoluzione, p. 116.
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