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The neon demon | Desiderio mimetico e sacrificio della bellezza

Aggiornamento: 19 lug 2019


Parte I


The neon demon è un film che ha un'essenza profondamente girardiana. Non solo per l'evoluzione dell'intreccio e la strutturazione di triangolarità continue tra i personaggi ma anche per la sua forma, per la sua estetica tesa al mascheramento. Un mascheramento che tuttavia si muove in superficie, esplodendo con prepotenza nel campo del visibile, tanto che sarebbe inutile parlare di simbolico: ogni elemento, ogni scena è pura superficie, puro corpo e pura luce. Eppure è costantemente in gioco il mascheramento. Potremmo definire The neon demon una fiaba oscura, gotica, estremamente violenta. La fiaba, infatti, si dà in tutta la sua semplice icasticità: non abbiamo bisogno di contestualizzare eccessivamente ambienti e personaggi; le cose semplicemente accadono come se tutti fossero irretiti da qualche filtro o sotto l'effetto di un'ipnosi: ma è proprio questa sensazione di fatale impossibilità ad agire diversamente che occorre decostruire e tematizzare, perché è proprio lì che il mascheramento gioca, velandosi e disvelandosi, producendo una narrazione che giustifica lo svolgersi e la risoluzione del racconto e cercando di obliterare (ma l'assoluta gratuità della violenza deborda sfacciata, non solo tra i personaggi ma anche nell'universo sacrificale che perpetua l'economia circolare tra moda e morte) l'innocente crudeltà dello spettro di una violenza originaria.

Come in ogni fiaba che si rispetti la trama è veramente delle più semplici: Jesse è una giovanissima ragazza in fuga da qualche sperduta provincia americana che cerca fortuna nel mondo della moda di Los Angeles. Sin dal primo colloquio le viene prefigurato un futuro di successi e, in effetti, accede subito allo studio del più importante fotografo e, poco dopo, riesce a folgorare uno dei maggiori stilisti di L.A che le permetterà di chiudere la sua sfilata. Jesse, sin dal primo servizio, suscita il fascino di Ruby, una truccatrice che vive il margine del “dietro le quinte” del mondo della moda ed è amica di due modelle, Gigi e Sara, già inserite nel giro di Los Angeles: questi tre personaggi saranno preda di un progressivo rafforzamento del risentimento generato dalla mediazione di Jesse che sfocerà in un sabba infernale di cui mostreremo la natura.


Per rivelare con rigore la matrice girardiana di The neon demon occorre analizzare le macro-sequenze che compongono la pellicola seguendo la crescente intensificazione della mediazione nel passaggio da esterna ad interna e, contemporaneamente, tenere sempre presente la gratuita inevitabilità della violenza sacrificale la cui evidenza tende a dissolversi perché oscurata dalla luce troppo abbagliante della fiaba: una luce che viene condensata (con una precisa funzione deresponsabilizzante) in un elemento demoniaco che agisce da una parte come segno vittimario e dall'altra, in modo molto meno soprannaturale, come segno di consapevolezza e riconoscimento che Jesse comincia a sentire e ad affermare contro l'alterità, in modo da marcare una distanza ancora più vertiginosa rispetto agli altri personaggi sempre più sfiniti dall'abisso dell'indifferenziazione mimetica e dall'amore/odio con cui guardano alla sua idolatrica altezza.

Ogni sequenza di The neon demon è intrinsecamente mimetica perché costruita intorno allo sguardo. In ogni scena, infatti, Nicolas Winding Refn, sceneggiatore e regista di questo capolavoro del 2016, posiziona la macchina da presa in modo da creare un'inquadratura che sia sempre vettore di sguardo (cifra stilistico-narrativa che, lo segnalo come ipotesi di ricerca, può essere il nucleo di un cinema “mimetico”). Refn compone lo spazio filmico come un luogo solcato dalle intensità degli sguardi, i quali rimbalzano passando da un volto all'altro, generando geometrie che direzionano il desiderio e che, nella triangolarità, strutturano quelle polarizzazioni in cui andranno a consolidarsi le frustrazioni, la sofferenza, il risentimento (cioè il desiderio mediato) da una parte e il riconoscimento (come forma del desiderio di sé) dall'altra.


Emblematico da questo punto di vista è il blocco narrativo della festa. Jesse è la modella di un servizio fotografico amatoriale fatto da un ragazzo che subito si innamora di lei. In quell'occasione Jesse viene truccata e ritratta come un cadavere: lo splendore candido del suo corpo inerte genera un desiderio intenso nello sguardo di chi la ritrae ed è cifra di un elemento cruciale del suo carattere che analizzeremo a tempo debito. La truccatrice di questo servizio fotografico è Ruby che, immediatamente, si affeziona a Jesse e, vedendola sola e spaesata, la invita ad una festa in cui conoscerà anche Gigi e Sara.

Il momento della festa (https://www.youtube.com/watch?v=TfeqfkP7wLs), nell'indifferenza dell'oscurità penetrata dalle luci al neon, è un vero e proprio assedio di sguardi: non appena entra nella sala Jesse comincia ad essere osservata con interesse quasi morboso. Risulta subito evidente come le venga attribuita una qualche incoercibile pienezza d'essere, una purezza innocente e inviolabile, una forza in grado di canalizzare i desideri altrui. Refn, abilmente, continua a rinforzare le inquadrature oggettive facendoci notare come non siano mai neutre ma, piuttosto, dominate dalla rete di sguardi che converge su Jesse, facendole poi dialogare con i primi piani dei volti così da sottolineare l'amore ed insieme il disprezzo che li abita. Se questo avviene nel silenzio degli sguardi, ciò che avviene a livello verbale è un palese tentativo da parte delle altre modelle di attentare alla purezza della giovane e bellissima ragazza. Gigi mostra subito tutta la sua fragilità risentita nel proporle il contatto di un chirurgo plastico: come se il rifarsi e il non accettare la propria bellezza fosse un elemento organico del suo fisico e del suo spirito, come se l'infernale circolarità economica tra moda e morte s'impiantasse naturalmente in una pratica tesa al superamento della propria finitezza, una tensione verso la marionetta (<<guardami: mi chiamano la donna bionica!>> riferisce Gigi a Jesse e quest'ultima, innocentemente (?), risponde: <<dovrebbe essere un complimento?>> suscitando la risata di Sara), verso una disumanizzazione che la porta ad essere contemporaneamente vittima e carnefice del medesimo meccanismo sacrificale. Sara, invece, la ingaggia su un altro piano della questione (ma sempre nello stesso orizzonte mimetico): <<non è quello che tutti vogliono sapere? Una ragazza nuova e carina entra nella stanza, tutti si girano a guardarla dall'alto in basso, chiedendosi: chi si scopa? Chi si potrebbe scopare? E quanto in alto potrà salire, quanto più in alto di me?>>.



Sessualità e competizione, sessualità in funzione della competizione ed ecco che l'estranea bellezza di Jesse diventa l'oggetto scabroso che scardina le logiche del mondo a cui sono abituati questi personaggi; tale anomalia è però, d'altra parte, anche la rappresentazione più corrusca del senso della moda stessa, quella bellezza innocente che è lì solo per essere desiderata e poi sacrificata, un pegno per placare la morte e il suo essere organo-ostacolo della bellezza e della “perfezione”. Ruby, invece, è testimone silenziosa di questa scena: all'inizio della pellicola, infatti, Ruby non soggiace alle logiche sacrificali dell'accerchiamento perché la mediazione esterna che Jesse esercita su di lei non è ancora soffocata dai miasmi della mediazione interna e (ormai possiamo inserire anche questo nuovo elemento) il suo desiderio non è ancora stato messo alla prova dalle sofferenze della doppia mediazione e da un riconoscimento che non avviene mai e che, anzi, verrà misconosciuto e brutalizzato nel suo valore.

Parte II

The neon demon come un viaggio allucinatorio degno di Alice nel paese delle meraviglie nel mondo oscuro della moda e della morte. Dove i luoghi sono per la maggiore non-luoghi asettici e costruiti ad arte come i palchi delle sfilate o i set fotografici e i corpi sono perlopiù di plastica o rarefatti e sfibrati dall'anoressia che, se declinata nel contesto della moda, potrebbe assumere proprio il significato di una ricerca della pienezza d'essere, pienezza raggiungibile però solo eliminando le imperfezioni, il non-coercibile più intimamente proprio che risulta perennemente inadatto: insomma, una pienezza d'essere che in realtà è come una tensione asintotica verso il nulla, il proprio nulla.


Pare che il mondo vero in The neon demon sia confinato solo in due luoghi: l'intimo della “casa” (una camera di un hotel marcio quanto il personale che lo gestisce a Pasadena -quindi non a Los Angeles, e in effetti il capro espiatorio è molto spesso lo straniero, colui/colei che viene da fuori-) e il retrobottega delle sfilate, che siano camerini, bagni di locali dove finiscono tutte le modelle dopo gli eventi o bar piuttosto dozzinali. Come se la vita, quella pulsante, quella straziata dai desideri si manifestasse nella piega, horror vacui che non solo riempie ma piuttosto è ciò che brucia e dona senso allo spettacolo barocco in cui dimorano solo manichini e marionette e in cui può crescere ottusa e sotterranea una furente bestialità, la violenta bestialità del risentimento.



Il “dietro le quinte” è quello spazio che non può essere intimo ma che non ha nemmeno l'aura istituzionale del palco in cui le modelle vengono reificate e fotografate, dove sono costrette nella luce e perciò devono nascondere le rispettive oscurità. Il “dietro le quinte” diventa così lo spazio in cui possono proliferare i desideri, le istanze di riconoscimento, anzi la lotta per il riconoscimento e, se questo non può avvenire o se vengono sovvertite inaspettatamente le gerarchie, ecco che questo spazio si trasforma in un territorio di violenza, in cui si soffre e si fa soffrire, dove sadismo e masochismo divengono due facce della stessa medaglia. E la lotta non è solo intersoggettiva perché il “dietro le quinte” è anche un luogo pieno di specchi, quindi la propria egoità è costantemente scissa, fratta e sdoppiata e ognuna deve intraprendere una guerra per accettarsi anche di fronte a se stessa (perché proprio nello specchio vediamo l'Altro) e ricostituirsi in ogni momento come una soggettività solida e piena in grado di affrontare la competizione mimetica.

Dopo la festa l'avventura di Jesse prosegue con tre sequenze separate che sono tuttavia fondamentali per comprendere l'ambiguità della sua natura di capro espiatorio. Nel colloquio veniamo a conoscenza di nuovi indizi sulla sua vita che segnalano ancora di più la sua assoluta estraneità rispetto al contesto, indizi che dobbiamo catalogare come ulteriori segni vittimari: 1- Jesse ha sedici anni, quindi nemmeno potrebbe accedere a quel mondo; 2- viene subito identificata come una singolarità anomala, un caso unico, che subito raggiungerà fama e riconoscimento internazionali, una bellezza pura e luminosa in grado di rendere tutte le altre modelle vuoti simulacri di bellezza, umili corpi illuminati dai suoi raggi (e la metafora del sole verrà usata da Sara, la modella rivale, in pieno delirio mimetico).


Dopo di che, Jesse fa ritorno nella sua camera d'hotel e un sottile dubbio comincia a balenare nella testa dello spettatore che utilizza gli strumenti girardiani come faro esegetico: per la seconda volta Jesse ritrova se stessa nello specchio, cioè ritrova certezze nello specchio. Senza bisogno di modificare la propria immagine (cosa che invece fanno le altre modificandosi o truccandosi eccessivamente), Jesse vede nello specchio l'assoluta purezza della sua bellezza, la traccia di una distanza che significa separazione rispetto a tutte le persone che la circondano: Jesse, insomma, scopre di bastare a se stessa (la prima volta in cui un episodio simile accade è, non a caso, durante la scena del bagno alla festa, appena terminate le prime schermaglie con le modelle rivali: Jesse si specchia e anche in quel momento ritrova se stessa; il violento desiderio altrui non la espropria della sua soggettività, piuttosto ne è nutrimento perché nel risentimento altrui lei vede la sua distanza, la sua innocenza, la sua purezza e quindi la sua consapevolezza e il suo controllo).



La sera stessa poi la viene a prendere il fotografo della prima scena il quale, già vinto dal desiderio che prova per lei, la accompagna a “calpestare” lo skyline di Los Angeles. In questo cruciale dialogo troviamo ulteriori indizi per comprendere quanto il riconoscimento del desiderio di sé agisca profondamente nel cuore di Jesse e quanto questo desiderio di sé debba essere nutrito dal desiderio dell'altro: Jesse spiega come già dall'infanzia lei fosse pienamente consapevole di non aver nessun talento specifico (<<non so cantare, non so scrivere...>>) ma <<sono carina e posso fare molti soldi con questo>>. Il giovane la incalza dicendole che lei avrebbe le potenzialità per non fermarsi a godere della propria bellezza ma lei risponde che in realtà lui non può dirlo e subito dopo cerca di porre una distanza ancora più forte confessando di avere sedici anni, ponendo quindi dei confini virtuali, cercando di sporcare il desiderio del ragazzo, ma solo fino ad un certo punto: la scena infatti si conclude con Jesse che rifiuta un bacio ma con la richiesta di un nuovo appuntamento. Tornata al suo appartamento, lo troverà violato da un puma che si cela nell'ombra, come un demone notturno penetrato da una finestra che, forse consapevolmente, è stata lasciata aperta. Lei lo guarda intimorita ma come ipnotizzata. La bestialità e il demoniaco sono complementari: sono quell'elemento perturbante che, faticosamente, l'uomo cerca di scacciare dalla propria umanità; effrazione e possessione sono figure che aleggiano fantasmatiche in The neon demon: il puma-demone notturno è l'immagine di una violenza che non deve sfondare la porta per penetrare negli animi.

Con Girard è tempo di dare un nome ai comportamenti: <<imitare il desiderio del proprio amante significa desiderare se stesso grazie al desiderio dell'amante. Tale particolare modalità della doppia mediazione si chiama civetteria>>. E ancora: <<la preferenza che la civetta accorda a se stessa si fonda esclusivamente sulla preferenza che le accordano gli altri. Perciò ricerca avidamente le prove di tale preferenza; tiene vivi e rinfocola i desideri dell'amante, non per abbandonarvisi, ma per meglio rifiutarvisi>>. E aggiungo, perché cruciale nel rivelare una componente essenziale della moda come fenomeno sostanziato dal desiderio mimetico: <<lo sdoppiamento fa apparire un triangolo ai cui tre vertici sono l'amante, l'amata e il corpo di questa>>. La civetta, insomma, è colei che, nutrendosi del desiderio dell'altro (ma ritenendo questo desiderio non degno di un suo riconoscimento) reifica il suo corpo separandosene, lasciandolo come simulacro svuotato alla mercé del desiderio altrui così da proteggere l'essenza della sua persona, del suo autentico desiderio, custodendo il segreto della sua pienezza d'essere (ossia il fatto che dipende completamente dalla qualificazione che deriva dall'altro). Per ritrovare la certezza basterà allora guardare il proprio corpo, specchiarsi.



Parte III

Il demone ha trovato il varco per entrare nell'intimità della “casa”, nel sogno, nel desiderio, e se ancora non ha avuto il pieno consenso, di certo il suo fascino ha già avvinto e ammorbato la fragile innocenza di Jesse.


La successiva scena (https://www.youtube.com/watch?v=LzRYTc_yCgA) risulta essere uno snodo fondamentale per l'altro personaggio centrale del racconto. Jesse è chiamata al servizio fotografico di Jack McArthur, uno dei più importanti fotografi di Los Angeles (che scopriamo essere l'uomo che la guardava morbosamente alla festa). Qui ad aspettarla c'è anche Ruby. Questa scena è cruciale per comprendere la trasformazione del desiderio che Ruby prova per Jesse. Refn è ancora una volta geniale nel rendere con poche inquadrature questa evoluzione: si tratta solo di articolare con precisione i vettori dello sguardo e ritrarre il volto di chi in quel momento guarda guardare, ritrarre l'escluso dalla rete di sguardi. Dopo poche inquadrature, infatti, pare cambiare totalmente il paesaggio emotivo, sorgono nuove consapevolezze, dal profondo emerge il gorgo della doppia mediazione e la trappola sadomasochista a cui forse solo la violenza può dare risposta (ma questo “forse” è precisamente la soglia in cui si può scorgere il rischio ma anche la responsabilità, anche se in questa eco di forse la trappola mimetica è già scattata col suo scientifico meccanismo).


Jesse arriva e Ruby la accoglie con tutta la sua cura: i loro rispettivi sguardi sono puri, per un attimo paiono superare un desiderio teso al godimento del Medesimo e paiono rivolgersi solo all'altro. Ma il faccia a faccia, come si può dedurre dagli scritti di Lévinas, è comunque una situazione limite, una soglia dove ostilità e ospitalità vengono a coincidere e che può essere abitata da un riconoscimento autentico in grado di obbligarmi alla responsabilità verso l'altro ma che può anche essere solcata da una sordida violenza che viola la fedeltà del riconoscimento. Il volto in Lévinas è sempre fragile nel suo essere traccia dell'infinito e sempre aperto a dirittura o sconvolgimento perché perennemente esposto alla presenza del terzo, ossia l'illeità d'Altri. Tutta la scena deflagra infatti quando Jesse, dopo essere stata truccata con amore da Ruby, viene portata davanti a Jack e in un attimo l'universo del desiderio si riconfigura: Jesse sa che Jack non la desidera come la può desiderare Ruby; Jesse sente che l'affetto di cui Ruby è latrice porta in sé il rischio dell'erotico e l'erotico, se ancorato al godimento, può cadere nel morboso; per Jack, invece, Jesse è semplicemente una creatura bellissima, un corpo reificato nella sua purezza, la bellezza estranea che è lì solo da cogliere e fermare in un'inquadratura. Jesse, come abbiamo visto, necessita di questo tipo di desiderio per ravvivare il suo desiderio di sé; diversamente, il desiderio dell'altro che vuole interagire con la sua essenza misteriosa e segreta è percepito come una minaccia da allontanare. Ebbene, ecco che Ruby viene brutalmente esclusa dalla rete del desiderio (e dalla rete di sguardi) fino ad essere fisicamente estromessa dal set fotografico.



Questo radicale misconoscimento è l'inizio della trasformazione del desiderio di Ruby: la cura diventa attaccamento morboso, il sentimento amoroso diventa il correlato di un cupo masochismo che gode nel desiderare l'ostacolo che ci misconosce, l'apertura all'altro viene sostituita dallo spettro concreto di una pulsione di morte. Silenziosamente, il motore del meccanismo del capro espiatorio comincia ad attivarsi; il giogo mimetico della trascendenza deviata e della mediazione interna porta con sé i suoi comandamenti: scacciare Satana con Satana (o il demone con il demone).

Nella scena successiva, infatti, Ruby incontra in un bar Gigi e Sara, rivelando loro come Jesse sia stata fortemente voluta da Jack McArthur per il suo set fotografico e che le si prospetta un futuro luminoso. Gigi cerca di normalizzare il tutto sostenendo che anche lei viene sempre fotografata da Jack ma subito Sara le risponde: <<non durerà. Chi vuole del latte avariato quando può avere del latte fresco?>> e Ruby incalza con un <<giusto>>. Gigi ancora cerca di relegare Jesse nell'anonimato, cerca di dissolverla nella giostra economico-sacrificale sostenendo che <<queste ragazze vanno e vengono continuamente; lei non ha niente di speciale>> ma Ruby insiste nello stimolare la mediazione segnalando con sapienza l'assoluta alterità e l'indifferenza imperturbabile di Jesse (quella stessa indifferenza che fa soffrire tremendamente Ruby ma che è anche il fuoco inesauribile del suo desiderio) dicendo: <<ma devi ammettere che c'è qualcosa in lei>> e Sara risponde <<tipo cosa? È giovane e magra>>; <<no>> - dice Ruby- <<è molto più di questo... lei ha quel... qualcosa>>.

Lo capisce subito Sara che durante il provino per una sfilata viene crudelmente ignorata dallo stilista, lo stesso che un attimo dopo rimarrà estasiato davanti all'angelica bellezza ancora vergine di Jesse. Questa scena (https://www.youtube.com/watch?v=h2od1e2paxY) è invece la tappa fondamentale del calvario di Sara: prima la mediazione era solo esterna, ora i mediatori (lo sguardo dello stilista ed insieme l'ultramondana bellezza di Jesse) si avvicinano pericolosamente, rendono palpabile e lacerante la sconfitta. Sara vuole essere Jesse, vorrebbe rubarle la sua essenza, vorrebbe nutrirsi della sua pienezza d'essere ma solo perché vuole essere guardata come Jesse. L'esistenza di Jesse annichilisce la speranza di Sara di bastare a se stessa; guardandosi allo specchio Sara non potrà vedere nient'altro che la sua inconsistenza. Non è il suo corpo che è mutato ma l'essenza del suo desiderio: non riesce più a desiderare se stessa, è stata sconfitta da una indifferenza più indifferente di lei.

Nuovamente in un bagno, di fronte ad uno specchio, un dialogo emblematico: Jesse raggiunge Sara subito dopo il provino cercando di confortarla ma è pienamente consapevole di cosa significhi compiere quel gesto in quel momento; il demone della violenza domina già vittime e carnefici rivelando in questo modo la totale indifferenza tra i due, l'arbitrarietà più casuale, la nuda realtà di un mondo popolato solo da carnefici. <<Pensi che non lo sappia>> - dice Sara - <<la gente ti vede; si rendono conto; sai quanto sei fortunata? Sono un fantasma. Cosa si prova? Entrare in una stanza e nel bel mezzo dell'inverno, tu sei il sole>> e Jesse risponde: <<è tutto>>. In Menzogna romantica e verità romanzesca Girard spiega come sia proprio il padrone annoiato il primo a diventare un masochista o come colui che pratica asceticamente l'indifferenza sia in fondo necessariamente condotto all'annichilimento di sé perché <<non si sa se abbia smesso di desiderare perché gli altri lo desiderano o se gli altri lo desiderano perché ha smesso di desiderare>> (così Girard sullo Stavrogin de I demoni): Jesse potrebbe diventare entrambi ed insieme nessuno dei due. Nel momento in cui l'idolo è più vicino il peso della trascendenza viene ad essere più gravoso: la troppa vicinanza dell'idolo comporta la sua più riuscita trasfigurazione in Dio (o demone), esso non può più avere il volto della vittima per chi cede divorato dalla mediazione interna. La trascendenza deviata disumanizza, sradica i soggetti dalla realtà e la violenza può così scorrere libera ed innocente.


Parte IV

Precedentemente avevamo figurato l'esistenza di tre spazi, i quali sono evidentemente anche immagini di una differente manifestazione del desiderio: l'istituzionalità barocca delle sfilate e dei set fotografici come luogo di luce che svuota gli umani della loro persona e dei loro vivi desideri, perché il riconoscimento gerarchico è in qualche modo già avvenuto; il “dietro le quinte” come luogo della lotta per il riconoscimento, del conflitto violento tra desideri che cercano di imporsi e annichilire l'altro, della mediazione interna insomma; lo spazio intimo della “casa”, che abbiamo visto essere estremamente fragile, penetrabile, soglia perennemente vulnerabile e quindi spazio di aperture possibili o di chiusure violente.

È quindi proprio quell'intimità che Jesse non può esporre perché lì viene custodito il segreto della sua forza, ossia l'apparente indistruttibilità del suo desiderio di sé (ma abbiamo visto come questo, in fondo, sia solo il riflesso del desiderio dell'altro). Chi accede all'intimità di Jesse, chi ne ha la possibilità? Nel territorio vergine della sua intimità avvengono fondamentalmente due tipi d'incontro, uno reale e l'altro che ha le forme del sogno (o meglio dell'incubo). Per ciò che concerne l'incontro reale l'unico personaggio che riesce ad entrare gentilmente nella sua “casa” è il fotografo amatoriale, il quale, da una parte subisce sicuramente la civetteria di Jesse con la sua eburnea e distante bellezza ma dall'altra si percepisce (e lo percepisce anche Jesse) che egli la desidera in una forma che non può essere limitata ad uno sterile godimento: desidera insomma la sua alterità in quanto alterità, un desiderio che si manifesta come apertura all'altro e non come brutale appropriazione (tanto è vero che per Jesse compierà dei gesti semplicemente altruisti e che il suo desiderio finirà non perché la giovane gli si vorrà concedere ma perché smetterà di riconoscerla nella sua alterità).



L'altro incontro assume invece le forme della violazione, della penetrazione, dell'effrazione, del rischio a cui l'umanità e la singolarità di Jesse è esposta: il puma-demone notturno, l'incubo del custode che penetra nella sua stanza e le tiene aperta la bocca con un coltello che scivola silenzioso nelle profondità della sua gola, pareti che si flettono viscose come spinte da mani misteriose in un'altra stanza, urla provenienti dalle stanze vicine, immagini di figure geometriche triangolari al neon che squarciano la più vuota oscurità. L'incubo è il demoniaco, è la figura di un'alterità non comprimibile e categorizzabile, di un'alterità non gestibile che deve essere espulsa con forza oppure accettata come fosse una possessione. Nel limite, nella soglia, la possibilità anzi la doppia possibilità: il demone è l'alterità da scacciare con forza per preservare, radicare e imporre la propria purezza sugli altri? Oppure il demone già mi abita e un desiderio non sclerotizzato dalla mimesi può aiutarmi con la sua espulsione?


Nuovamente nel “dietro le quinte” si consuma un'altra scena cruciale, un'altra tappa fondamentale per compiere “in totale innocenza” l'evocazione rituale del capro espiatorio. In questo caso sarà Gigi a vivere la bruciante sofferenza della mediazione suggerita da Jesse. Gigi è una delle modelle più importanti nel panorama di Los Angeles e ha una reputazione tale da permetterle di scavalcare i paludosi terreni dei provini. Abbiamo analizzato poco fa come sia stato proprio un provino, luogo particolarmente deputato al conflitto mimetico, l'apertura dell'abisso in cui l'identità di Sara si è in un attimo spezzata di fronte alla metafisica civetteria di Jesse. Ecco che Jesse, proprio grazie a quel provino, accede a uno dei principali eventi di moda, sorprendendo Gigi. La sola presenza di Jesse in quel camerino è per Gigi un affronto che deve essere necessariamente normalizzato.

L'istanza metafisica incarnata dal desiderio di Gigi risplende in tutta la sua bieca stolidità, tanto il personaggio appare privo di chiaroscuri. Il talento di Refn è quello di aver reso in un'esagerazione mai grottesca l'autismo di una civetteria che giunge ai limiti del narcisismo più sordo: in effetti potremmo tentare una interpretazione del narcisismo in chiave girardiana come di una civetteria che ha sostanzialmente perso ogni legame con l'identità del soggetto ed insieme con l'alterità di un eventuale modello-rivale-oggetto del desiderio e in cui l'intensità di quest'ultimo, piuttosto, tende a convergere nell'ossessione per l'immagine del proprio corpo reificato. Gigi infatti è talmente goffa e sfacciata nella sua civetteria da non accorgersi nemmeno (oppure volendo obliterare completamente) l'assoluta alterità di Jesse, forse perché la sua posizione di padronanza ha creato intorno a lei una illusione di inviolabilità, una stanza di sughero da cui non è più stata in grado di ascoltare la realtà. Ma Jesse ora è penetrata all'interno delle sue certezze e il consueto movimento dialettico che da una parte la spinge ad accusare la rivale di adulazione (<<non perdi tempo tu>>; <<devi averci scopato [con lo stilista]>>) e a destabilizzarla con sottili cattiverie (<<sei molto mascolina. Scommetto che è per questo che fai parte del casting>>) ma che dall'altra necessita di un immediato riconoscimento e della riaffermazione della propria identità di fronte all'avversaria. Così facendo, però, si rivela in tutta la sua sostanziale debolezza (che è poi l'essenza della civetteria stessa) poiché ricerca da Jesse proprio quelle conferme che un attimo prima era propensa a definire come adulazione, finendo così a parlare di sé come di un corpo perennemente perfezionabile, dove anzi l'assoluta perfezione è direttamente proporzionale all'annichilimento della propria singolare unicità e riconoscibilità. <<Ti ha fatto male?>>, chiede Jesse dopo che Gigi le ha elencato le varie operazioni che ha eseguito sul suo corpo, riferendosi in particolar modo alle orecchie; <<qualsiasi cosa per la quale valga la pena, fa un po' male>>, risponde Gigi, <<inoltre, a nessuno piace la forma che hanno>>; <<a me sì>> sospira il demone-Jesse da una metafisica altezza, imitando -senza lasciarsi scoprire- il desiderio della rivale, dominando quindi la rivalità, suggerendola senza mai subirla. Gigi torna a guardarsi nello specchio ma questa volta non sorride più: come Sara, anche lei ha perso se stessa nell'immagine; ora non può far altro che vedere la distante superiorità della rivale. Refn, per mostrare lo scacco della civetteria di Gigi, usa la macchina da presa in modo magistrale, cercando continuamente di sottolineare la doppia presenza nella medesima immagine di Jesse che guarda Gigi e di quest'ultima che guarda se stessa allo specchio, non accorgendosi appunto dell'imperturbabile leggerezza con cui Jesse seduce gli sguardi altrui mantenendosi però separata e innocente.




Come per magia, infatti, lo stilista decide che sarà proprio Jesse a chiudere la sfilata. Jesse sorride consapevole e verrà vestita subito dopo circondata da specchi, protetta dallo sguardo dello stilista che, come quello del fotografo, è mancante di quel desiderio che vorrebbe ghermire il cuore della nostra protagonista: a loro basta il simulacro, l'immagine proposta dalla sua civetteria. Con una carrellata Refn ci mostra la lunga fila delle modelle che precedono Jesse, immobili e senza vita come fossero marionette. Solo Gigi si gira per guardare l'altera bellezza della giovanissima ragazza in un abito nero splendido, gotico, funereo: in una lisergica metamorfosi, tra neon e specchi, verrà infatti cantato il requiem per la sua identità. Dall'innocenza sorgerà la gelida consapevolezza, dall'alterità come fragile purezza sorgerà l'algida superiorità come signoria in un mondo di uguali, dall'umanità sorgerà l'idolo demoniaco, dando così una vigorosa spinta alla giostra della violenza, sempre più palpabile ed insieme più indifferenziata.


Parte V

Il volto di Jesse affiora dall'oscurità profonda e vuota come una sconosciuta caverna (https://www.youtube.com/watch?v=ukqyho-fuUA). Il nulla rarefatto delle tenebre è penetrato solamente da rapidi flash azzurri, come se nell'ombra fosse nascosta una folla silenziosa di fotografi, tutti con lo sguardo catturato dallo splendore della giovane creatura, il cui viso restituisce una luce del medesimo azzurro. Lo sguardo di Jesse finisce nel nulla, non ha un correlato oggettuale a cui aggrapparsi, eppure tutti la guardano: è percepibile il brulicante fascino di questa situazione ma contemporaneamente i suoi occhi e la sua bocca tradiscono la sospensione e il timore di un'esposizione assoluta. Dal fondo dell'oscurità ecco che però risalta un'altra figura, la stessa che da qualche tempo abita gli incubi di Jesse: tre triangoli coincidenti per un vertice in modo da formare un altro triangolo nello spazio creatosi al centro. Questa figura risplende della stessa luce azzurra e pare comunicare con Jesse nel suo variare dall'intermittenza ad una minacciosa fissità. Il metaforico campo-controcampo che Refn imposta ci mostra come effettivamente il volto di Jesse testimoni emozioni contrastanti: una indescrivibile fascinazione ed insieme una enigmatica minaccia. Ora però lo spazio comincia a definirsi. L'oscurità infatti dona ritraendosi la natura dello spazio in cui Jesse ha, sin dall'inizio, mosso i suoi passi: la figura triangolare che, come un'insegna al neon, risplende davanti a Jesse, simmetricamente si riflette anche alle sue spalle ma invertendo il rapporto tra luce e oscurità. Dietro Jesse infatti i tre triangoli che vanno a formare un ulteriore triangolo al centro rimangono nella più velata oscurità, mentre la luce azzurra, questa volta, sgorga dal triangolo centrale tracciando la direzione del movimento di Jesse, attirata dall'enigmatica figura triangolare. Insomma, Jesse viene attirata nello spazio buio apertosi tra i triangoli sorti dall'oscurità: il passaggio da “la luce nell'oscurità” all' “oscurità al centro della luce” definisce simbolicamente la parabola del cammino di Jesse ed insieme dona una marca iconografica minimale ma luminosa al decorso del processo mimetico. La storia di Jesse, infatti, è quella di un progressivo allontanamento dalla luce (la sua innocente purezza originaria, costantemente vulnerabile e minacciata) e di un approdo nella più cupa oscurità costituita da una civetteria che l'ha progressivamente isolata perché trasformata in idolo ed insieme da una violenza nata dalla tagliola dell'accerchiamento, la violenza cioè che si sfoga su un capro espiatorio. I tre triangoli che vediamo intorno allo spazio vuoto, ossia il simulacro idolatrico proiettato dalla civetteria di Jesse, rappresentano Ruby, Sara e Gigi, ossia le tre soggettività risentite e sofferenti che, per non crollare sotto i colpi di una violenza indifferenziata, devono trovare un modo di ristabilire l'ordine.

A Refn bastano poche inquadrature per rivelare questo cammino simbolico: Jesse giunge di fronte alla composita figura triangolare e il suo sguardo, tra la tentazione e la paura, esplora proprio la profondità abissale posta nel suo centro. E lì assiste (e lo spettatore con lei) alla definitiva solidificazione del suo desiderio. Nel centro infatti Jesse vede la sua immagine, un'immagine che però non è semplicemente un riflesso, piuttosto è l'immagine del suo corpo reificato dal desiderio altrui che, altero e sicuro, bacia i riflessi che proietta sugli specchi che lo circondano. La soggettività di Jesse è totalmente espropriata a vantaggio di un'immagine di sé proiettata dalla sua civetteria che va a rinsaldarsi nella più demoniaca consapevolezza (una sorta di immaginifica genealogia del narcisismo). Refn per rinforzare il concetto cambia i colori dei neon: dal malinconico e incerto azzurro si passa ad un intenso rosso, tonalità che rispecchia ormai la superbia da cui è agita la giovane ragazza. Jesse guarda la sua immagine baciare i riflessi stagliati sulle pareti di specchi al centro del triangolo traendone infinito godimento; anche il grosso triangolo divampa di un rosso fuoco, come se dovesse esplodere da un momento all'altro; ora Jesse può inabissarsi di nuovo nell'oscurità protetta dall'illusione di una metafisica pienezza. È il demone che ormai l'ha ghermita e va a tracciare la sua strada. Ogni grande storia attraversata dal desiderio mimetico è una storia di tentazione.







Insomma, dal punto di vista girardiano, Refn compone una sorta di canto in onore della bellezza, del suo culto e del suo rischio che riesce però ad avere la chiarezza di un teorema. Il desiderio costituisce il flusso che anima il soggetto e il desiderio è sempre triangolare; l'intersoggettività ha allora l'immagine di una rete, potenzialmente infinita, le cui maglie sono costituite da triangoli. Refn è geniale nel suggerire tutto questo partendo dalla scarna icasticità archetipica della fiaba.

La scena successiva (https://www.youtube.com/watch?v=uB24HiY9A1A), manifestamente, mostra la trasformazione avvenuta nel desiderio di Jesse mettendo in luce soprattutto l'ottusa forza che d'ora in poi animerà la sua civetteria, facendo di quest'ultima il segno vittimario decisivo. Jesse ha di nuovo un appuntamento con Dean (il fotografo amatoriale) ed insieme si recano in un locale in cui stanno bevendo un drink anche lo stilista in compagnia di Gigi e di un'altra modella. Gigi, ovviamente cerca di “difendere il suo territorio” come può, ma il discorso iniziato dallo stilista prende da subito una piega rischiosa che, nuovamente, rilancerà la violenza mimetica. Lo stilista inizia ad esporre le sue tesi: <<ci si accorge sempre quando la bellezza è artificiale. E se non sei nata bella, non lo diventerai mai>>. Gigi allora risponde: <<non credo che tu possa affermarlo sempre>>. E allora il gioco in un attimo si fa molto più pericoloso. Viene nuovamente ingaggiata una lotta per il riconoscimento che oppone questa volta non solo le proiezioni del proprio desiderio e della propria immagine come forma di affermazione di sé, ma diviene anche uno scontro di idee che contrappone personaggi impaniati nelle maglie del desiderio mimetico al desiderio di Dean che si presenta, invece, come un altrimenti del desiderio mimetico e che vorrebbe accedere alla persona e non fermarsi all'immagine di Jesse (un autentico desiderio dell'altro). È ovvio che tale scontro di idee è anch'esso plasmato dal mimetismo e da una ricerca/esercizio simbolico del potere e dell'immagine, per il riconoscimento e l'istituzione di gerarchia. Ecco che lo stilista coinvolge Dean nel macabro gioco al massacro: egli deve valutare la bellezza di Gigi, esposta dallo stilista come se fosse un semplice corpo (o il resto di una civetteria dilagante); il tutto sotto lo sguardo ormai consapevole e mutato di Jesse. <<Pensi che sia bella?>>, chiede lo stilista e Dean balbetta: <<non so, voglio dire... sì, credo che stia bene>>; e allora lo stilista: <<certo. È proprio quello che volevo dire.>>; <<ora, osserva Jesse>> e Gigi, livida in volto, guarda il riflesso di Jesse negli occhi dello stilista, guarda cioè quello sguardo che tanto brama per se stessa negarsi in un'irrecuperabile distanza... <<niente di falso, niente di artefatto. Un diamante in un mare di vetro. La bellezza, al massimo livello concepibile>>, come se non parlasse di Jesse ma solo del suo simulacro (e il riferimento a questa separazione genera di per sé godimento e sicurezza in Jesse). Subito dopo, infatti, lo stilista riprende: <<ora, senza questo lei non sarebbe niente>> (e Gigi torna a sorridere, ormai il suo godimento è infatti intrinsecamente correlato all'abbattimento dell'idolo demoniaco); ma Dean risponde: <<penso che lei si sbagli>> e subito lo stilista reagisce chiedendo con arroganza <<quindi mi stai dicendo che ciò che conta, è ciò che hai dentro?>> - <<sì, è esattamente quello che penso>>. Al che lo stilista risponde cercando di ingabbiare Dean negli stessi giochi mimetici che annientano alla base qualsiasi possibilità di relazione autentica e che dominano il mefitico circuito della moda: <<io penso che se lei non fosse stata bella tu non ti saresti mai fermato a guardarla. La bellezza non è tutto, è l'unica cosa che conta>>.

La retorica finisce per delimitare anche un campo esistenziale e metafisico confinando così il desiderio di Dean all'esterno, bandendolo, squalificandolo come menzognero nella sua essenza. Dean, ovviamente, non troverà nemmeno in Jesse una sponda e anzi verrà allontanato da lei con violenza: Jesse è ormai il centro di tutte le mediazioni possibili, esercitando così una padronanza assoluta. Dean poteva essere quella forma di desiderio rappresentante l'istanza della relazione, una traccia etica interna all'erotico. Ma, per un soggetto dominato dal demone della civetteria, tutto ciò è impossibile per due ragioni: 1- poiché il desiderio dell'altro mira alla persona e non all'immagine, il desiderio dell'altro viene di principio squalificato come indegno di riconoscimento; 2- un tale desiderio proveniente dall'altro espone nella propria fragilità, perché si viene desiderati per la propria irriducibile singolarità.

Tale definitiva chiusura è confermata dal dialogo che i due hanno nel cortile del motel in cui Jesse alloggia, al termine della serata. Dean, nel velleitario tentativo di rivedere un barlume di purezza in Jesse, chiede: <<chi sei tu? È questo quello che vuoi? Vuoi essere come loro?>>; ma Jesse, ormai completamente agita dal demone, emblematicamente risponde: <<non voglio essere come loro. Loro vogliono essere come me>>. Il terreno si sta così progressivamente erodendo intorno a Jesse: ancora un passo e resterà la semplice solitudine del capro espiatorio.



Parte VI

L'unico personaggio che ancora deve subire direttamente la violenza espulsiva e squalificante della civetteria di Jesse è Ruby, la quale, dopo un periodo di assenza dall'intreccio, torna ad essere motore degli eventi nell'ultima parte della pellicola. Ruby, per tutto questo tempo, è rimasta in balia dell'evoluzione del carattere di Jesse: il suo desiderio, seguendo l'evoluzione della possessione demoniaca di Jesse, ondeggia tra la cura e un erotismo pronto a soverchiare l'altro fino ad assumere tinte perverse e morbose. In esso, infatti, abitano simultaneamente due istanze opposte ma co-essenziali: il culto dell'idolo irraggiungibile presso cui la sua attenzione e la sua cura possono stabilire un aggancio sicuro per sancire una forma di contatto e vicinanza ed insieme il risentimento generato dall'eccessiva distanza (la quale è tuttavia cercata ed è anima del suo desiderio) che da un momento all'altro può sclerotizzarsi in forme violente. Ruby è un personaggio estremamente fragile, senza una casa, latore di un desiderio omoerotico cupo e misterioso; per questo, quando ne ha l'occasione, è ossessionata dal controllo e dalla volontà di costringere a sé il suo oggetto del desiderio, il quale per forza di cose viene a coincidere con il suo mediatore.




Se per Dean il movimento e la tensione del desiderio procedeva dall'erotico (desiderio dell'altro in funzione del godimento) a un autentico desiderio dell'altro in quanto Altro colto nella sua unicità inviolabile e non nei meccanismi mimetici spersonalizzanti, per Ruby si tratta del movimento opposto, o meglio, si capisce che il terreno della cura e dell'attenzione per la “fragilità” di Jesse altro non è che un dispositivo di attivazione del desiderio, il quale, in maniera masochista, finirà per nutrirsi della progressiva civetteria della giovane (proprio perché nella mediazione interna è l'ostacolo stesso a produrre il desiderio; usando le parole di Girard: <<il masochista sessuale si sforza di riprodurre, nella sua vita erotica, le condizioni del più intenso desiderio metafisico. (…) Idealmente, il compagno e il mediatore dovrebbero essere la stessa persona. Ma questo ideale è, per definizione, inattuabile, poiché se si attuasse, cesserebbe di essere desiderabile>>), accrescendone silenziosamente il potenziale sadico di sfogo.


Jesse chiama Ruby in cerca di conforto e subito l'amica risponde invitandola nella casa che custodisce. Nel giro di qualche scambio di battute tuttavia, in un cortocircuito di vittime e carnefici, entrambi i personaggi cominciano a disporre i meccanismi di attivazione del proprio desiderio nella reciproca e assoluta negazione dell'alterità: da una parte Jesse riempie di complimenti Ruby per essere sempre così gentile con lei, stimolando così il fiorire del desiderio nell'amica, per poi negarsi proteggendo la propria purezza sessuale ed insieme squalificando con violenza come indegno di riconoscimento proprio quel desiderio che consapevolmente viene stimolato ma che, non appena inizia a configurarsi come irruzione dell'alterità nel cuore del godimento narcisistico, è da espellere in quanto minaccioso. Dall'altra Ruby, che in qualche modo già è stata testimone della civetteria di Jesse, ricrea le condizioni perfette per suscitare in se stessa la foga di un desiderio pressoché violento per poi essere respinta (con Girard: <<Neppure in questo masochismo puramente sessuale si potrebbe affermare, quindi, che il soggetto “desidera” la sofferenza. Ciò che egli desidera è la presenza del mediatore, il contatto con la divinità. Può suscitare l'immagine di questo mediatore solo ricreando l'atmosfera, reale o supposta, dei rapporti con lui.>>). Come se concepissero la reciprocità animata unicamente dalla violenza, mai dall'apertura ospitale in grado di coinvolgere l'altro senza soffocarlo nelle proprie spire. Dopo essere stata respinta con decisione e violenza Ruby non può più trattenere il risentimento incamerato: urge uno sfogo espiatorio della violenza.

Un attimo prima dello sfogo definitivo, tuttavia, Refn decide di esplorare la profonda disperazione in cui affonda il masochismo-sadismo di Ruby. Con una leggera dilatazione temporale, gestita magistralmente attraverso un montaggio alternato prima e un sintagma parallelo con precisa rilevanza simbolica poi, Refn ci mostra in maniera cruda ed insieme poetica la precisa natura del masochismo-sadismo della truccatrice, senza usare un tono minimamente teso allo scandaloso o al giudicante, piuttosto lasciando essere il personaggio in tutta la sua intensità e disperazione. Ruby, nella glaciale cornice di un obitorio, fotografato con toni che procedono dal blu al grigio, fa sesso con il cadavere di una donna (che un attimo prima ha truccato con cura) eccitandosi, ovviamente, immaginando Jesse intenta a masturbarsi. Sarebbe un errore pensare che Refn possa aver usato la necrofilia come un gratuito e macabro dettaglio. In realtà, a pensarci bene, la necrofilia custodisce uno stretto legame con la natura sadomasochista del desiderio sessuale di Ruby. Se, poco sopra, abbiamo visto come il masochismo non sia, ottusamente, la ricerca del godimento nella sofferenza, quanto piuttosto un modo per ricreare il contatto con la divinità idolatrica del mediatore (rivelandosi una delle stazioni più profonde del calvario della mediazione interna: il vero e delirante inferno della trascendenza deviata), occorre ora meglio definire il suo ribaltamento dialettico, e cioè il sadismo, cercando di mantenere viva l'attenzione sull'estremizzazione necrofila di tale desiderio.



Dice Girard: <<In quel teatro dell'esistenza che è l'attività erotica, il masochista sosteneva una sua parte e mimava un suo desiderio: il sadico, invece, sostiene la parte del mediatore. (…) Il sadico si sforza di imitare il dio nella sua funzione essenziale che è ormai quella di persecutore>>. Se guardiamo all'esperienza complessiva del desiderio erotico di Ruby vediamo esattamente in atto questo doppio movimento, ma non come due movimenti separati che si susseguono temporalmente l'uno all'altro, piuttosto come una sinfonia che ha i suoi crescendo e le sue riprese in cui masochismo e sadismo sono compenetrati e l'uno serve all'evocazione dell'altro. Non è un caso che l'unico atto sessuale che noi spettatori vediamo compiere da Ruby sia con un cadavere inanimato, con un corpo senza più la persona. La necrofilia è in effetti una delle più terribili estremizzazioni del masochismo-sadismo sessuale ma, come tutte le estremizzazioni, può mettere meglio in luce l'essenza del fenomeno. Fare sesso con un corpo inerte è, contemporaneamente, la manifestazione più assoluta di controllo (e abbiamo visto come vi sia in Ruby una doppia ossessione di controllo, come cura prima e come cattura dell'altro poi) ed insieme l'espulsione massima, la non-risposta assoluta. Nel controllo infinito che Ruby può esercitare sul cadavere assistiamo alla parodia disperata di un sadismo che non può attuarsi sul vero oggetto del desiderio (Jesse). Girard constata: <<Il sadico (…) si sforza di prendere il posto del mediatore e di guardare il mondo con i suoi occhi, nella speranza che la commedia si trasformi a poco a poco in realtà>>. L'illusione di superiorità e assoluto controllo che Ruby cerca di mettere in scena per se stessa sul corpo inerte della donna è in realtà lo scacco definitivo, in due sensi: 1- <<Il sadico non può illudersi di essere il mediatore senza trasformare la vittima in un altro se stesso. Nell'attimo stesso in cui diventa più brutale, non può impedirsi di riconoscersi nell'altro che soffre>>; provare a simulare la superiorità del mediatore (nel caso di Ruby l'aura di potere simbolico che riverbera dalla civetteria di Jesse), in realtà, mi mette di fronte al me stesso come vittima e Ruby quindi trova nella necrofilia non la sublimazione sadica della propria sofferenza ma un'ulteriore rafforzamento del proprio masochistico risentimento. 2- Anche nella necrofilia, in realtà, Ruby non riesce a pensare ad altro che all'altero narcisismo di Jesse, al suo algido e inarrivabile splendore (chiosa infatti Girard: <<Il masochismo e il sadismo sessuali sono imitazioni di seconda mano; sono imitazioni di quella imitazione che già è l'esistenza del soggetto nel desiderio metafisico>>): lo sfogo del suo risentimento non può avvenire in una semplice e illusoria sublimazione, è necessaria una forma più drastica e “innocente”.


Ruby torna alla casa che cura in custodia e trova Jesse, bella come non mai, in piedi sul trampolino di una piscina asciutta, protesa sul vuoto. Ruby entra nella vasca e guarda dal basso Jesse pronunciare le sue ultime parole, così che, in maniera iconograficamente dichiarativa, anche lo spettatore può apprezzare l'istituirsi simbolico della trascendenza deviata. Il monologo finale di Jesse è l'acme della possessione demoniaca; è, propriamente, il demone della civetteria che evoca il demone della violenza, perché ormai solo la violenza indifferenziata domina e bisogna cercare di riscrivere un nuovo ordine abbattendo l'idolo. <<Sai come mia madre era solita chiamarmi? Pericolosa. Tu, sei una ragazza pericolosa. Lei aveva ragione. Io sono pericolosa. Io so come sono. E comunque, cosa c'è di sbagliato in questo? Ci sono donne che ucciderebbero per essere così. Loro si modellano e roba simile. Si iniettano di tutto. Si lasciano morire di fame, sperando, pregando che un giorno possano apparire come una seconda versione di me>>.



Parte VII

La violenza può allora esplodere libera e “in piena innocenza”. Ruby, Gigi e Sara, unite come in un sabba infernale, si liberano del loro risentimento braccando Jesse, accerchiandola, chiudendola in una morsa, spingendola nella piscina vuota, rompendole gambe e schiena. Il risentimento che Jesse aveva stimolato nelle rivali rischiava di sfogarsi orizzontalmente, rischiava di incorporarsi nelle loro identità e di destabilizzare in maniera critica i loro rapporti. Il delirio mimetico indotto dalla presenza di Jesse poteva quindi essere risolto solo con l'eliminazione unanime dell'idolo scandaloso: le tre infatti compiono simultaneamente il macabro gesto. Ordinate, precise, chirurgiche, come se eseguissero un rito o una danza. E il rituale non si ferma all'eliminazione della persona di Jesse, quell'essenza unica e misteriosa che esercitava su di loro amore-idolatria e odio senza soluzione di continuità, ma procede fino alla sua eliminazione fisica culminando in un vero e proprio pasto totemico.



Ecco che termina la notte; l'indomani tornerà la pace. Sarà effettivamente così? Ovviamente no. Arrivati pressoché alla fine dell'analisi, dopo aver scandagliato a fondo le relazioni mimetiche tra i personaggi e dopo aver mostrato come il risentimento causato dalla civetteria di Jesse abbia generato quella che Girard ne La violenza e il sacro chiama crisi mimetica, ci si presentano ancora gli ultimi problemi da affrontare. Il primo problema è il seguente: l'omicidio a cui si assiste è quello di un vero e proprio capro espiatorio? La struttura, il modo, l'essenza dell'omicidio non può, in effetti, che far pensare ad una forma sacrificale e il pasto totemico finale ne è ulteriore conferma. Eppure rimane un resto che riverbera, un'eco che genera una cesura marcata, una differenza netta che si imprime ben oltre il semplice livello della rappresentazione simbolica: il resto che avanza è, da una parte, tutta la genealogia mimetica dei desideri e dei risentimenti che hanno portato a questo momento critico ed insieme la piena autocoscienza di chi sta compiendo il gesto omicida. In tutti i testi in cui Girard parla del sacrificio (da La violenza e il sacro a Il capro espiatorio e oltre) il fatto cruciale per la sua buona riuscita è la carica d'odio dei carnefici e il transfert del male e delle colpe che deve “inconsciamente” avvenire tra le persone che stanno compiendo la brutale uccisione verso la vittima, l'eliminazione della quale viene appunto vista come risoluzione della crisi.

In The neon demon non abbiamo propriamente a che fare con il sacrificio di un capro espiatorio bensì con un omicidio che deve/vuole essere espiatorio. Non possiamo in questa analisi affrontare i vari problemi, implicazioni e disseminazioni che scaturiscono dalle possibili differenze tra sacrificio e omicidio espiatori, così come non possiamo rendere conto delle infinite somiglianze. Per l'economia del racconto e l'efficacia dell'analisi fin qui eseguita è sufficiente notare che l'omicidio di Jesse non porta in realtà a nessuna pace e che, anzi, la consapevolezza e l'autocoscienza con cui è stato consumato l'atto fanno sì che rimanga un profondo residuo di colpa, segno che sta a dimostrare come il transfert non sia completamente avvenuto (ma dobbiamo fare dei distinguo anche in questo caso: il fatto che non vi sia una differenza se non impalpabile, essenzialmente indicibile, tra Jesse e le altre due modelle può significare che l'odio con cui l'hanno uccisa non è stato sufficiente per dimenticare le consonanze sostanziali che dominavano il desiderio e la soggettività di questi tre personaggi; diverso è il caso di Ruby, il cui omicidio ha tutt'altro significato perché lei non desiderava primariamente essere Jesse -come invece Gigi e Sara- piuttosto desiderava possederla, e quindi la sua eliminazione fisica può portare ad una differente pace). Ciò che, quindi, fa dell'omicidio espiatorio un puro e semplice omicidio è il residuo persistente di una coscienza intenzionale che vuole compiere quell'atto per un preciso fine. Per certi aspetti è simile alla critica che ne La violenza e il sacro Girard porta al Freud di Totem e tabù, laddove mostra la natura non fondatrice del parricidio originario e la concettualizzazione pattizia che ne sta alla base. In The neon demon, insomma, non abbiamo mai la sensazione che da una parte vi siano le vittime e dall'altra i carnefici e, verosimilmente, questa sensazione non ce l'hanno nemmeno i personaggi. Il “rito sacrificale”, o meglio, l'omicidio espiatorio appare sempre eterodiretto da una certa progettualità vendicativa che elimina la possibilità di un “sorgere innocente” dell'evento.



Eppure (e qui sta il secondo problema) The neon demon è, repetita iuvant, un film percorso da un'estetica del mascheramento: come le tragedie classiche, il film di Refn vuole mostrarci, velandolo, un mondo immerso pienamente nel sacro. In fondo il miglior modo per portare alla luce la violenza che soggiace dietro ogni meccanismo di capro espiatorio è quello di mostrare la totale indifferenza tra vittime e carnefici, evitare ogni tipo di manicheismo (il quale, appunto, può sorgere solo laddove si instaura una prima simbolica differenza tra vittime e carnefici), evidenziando la centralità della persona, della sua libertà, della sua fragile ricerca di identità, perennemente assoggettata alla tentazione di un desiderio violento ed espropriante. Il meccanismo del capro espiatorio appare allora, nell'economia di The neon demon, come quel resto da cui si separano, pur rimanendone totalmente immersi, i personaggi per meglio rilucere nelle loro istanze; come se il sacro fosse ancora, nel mondo contemporaneo della moda, quella forza gravitazionale da cui invano si tenta di fuggire ma a cui tutto deve in qualche modo ritornare.

Perché, a guardar bene, Refn riesce a dipingere, come fosse uno sfondo o un paesaggio semantico, il mondo della moda come un mondo infestato dalle logiche sacrali. Traspare continuamente, in tutta la pellicola, la stretta correlazione tra moda e morte, quell'economia simbolica che instaura una perfetta reciprocità tra le due. E tale economia non è latrice solo di una valenza/violenza cosmica, dove ogni giorno corpi di vittime innocenti vengono immolate sugli altari della perfezione e della bellezza nell'illusione di sopravvivere alla morte in un processo di perpetua ri-creazione e ri-generazione -sia ben chiaro, a Refn non frega assolutamente di fare lo spiegone sociologico e non frega nemmeno a chi scrive-, ma è comunque significativo notare come tale economia simbolica si incorpori in pratiche che hanno a che fare con le singolarità e che, necessariamente, portano queste ultime a non accorgersi dell'eternoritornare del medesimo meccanismo in varie forme, così come a non rendere conto della negazione dell'alterità che alberga nelle forme più comuni di desiderio. Nelle Operette morali Leopardi rivela in maniera insuperata il rapporto mimetico che domina la stessa relazione tra Moda e Morte e, soprattutto, ha un'intuizione folgorante di come l'economia simbolica tra le due abbia in qualche modo a che fare con i cicli sacrificali che verranno, più di un secolo dopo, indagati da Girard. Dopo aver constatato di essere entrambe eterne e sorelle, figlie di Caducità, la Moda si rivolge alla Morte in questo modo: <<Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino a principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali>>; e più avanti nel Dialogo, continua Moda: <<A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introddotone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell'animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte.>>.

Il finale di The neon demon è il tragico canto orrorifico che testimonia solamente uno degli infiniti riti di passaggio dell'eternoritornante circuito economico-simbolico tra moda e morte. Il demone è ormai digerito e incorporato da Gigi e Sara e nel “dietro le quinte” del nuovo set fotografico di Jack McArthur ne possiamo subito apprezzare le conseguenze. Ora è Sara a custodire il segreto demoniaco: la sua bellezza, infatti, è misteriosamente trascolorata in qualcosa di più angelico ed insieme è diventata molto più distante e fredda. Jack, non appena si accorge di lei, licenzia un'altra ragazza che aveva preso parte al servizio, rapito dalla sua altera bellezza. Gli occhi di Sara, consapevoli, si accendono di un pieno desiderio di sé. Gigi, invece, soffre. Si assenta dal set e tra le lacrime, i gorgoglii e i rantoli vomita ciò che resta di Jesse. Il resto di Jesse è proprio quel residuo sacrificale che assume il volto della colpa, il transfert non completato, l'innocenza perduta. Urlando la povera Gigi esclama: <<devo cacciarla fuori da me!>> e, presa una forbice, si suicida sventrandosi davanti ad un'immobile e attonita Sara. Con silenziose lacrime, Sara rimangerà l'occhio azzurro vomitato un attimo prima dall'amica, nella consapevolezza che un altro tra gli infiniti cicli dominanti lo scambio sacrificale tra moda e morte si è chiuso ed immediatamente se ne aprirà uno nuovo, in cui proprio lei sarà il nuovo idolo da sacrificare (https://www.youtube.com/watch?v=4oQUr3TTfXo).


* Tutte le citazioni di Girard presenti nel testo provengono da Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965

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