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Tristi eventi e lieti fine | Fiabe e miti tra invenzione e realtà


Quando si legge una fiaba che parla di un matrimonio forzato di una ragazza non consenziente e poi si conclude con un lieto fine, nessuno ha dubbi su come interpretare questi due elementi del racconto. Sappiamo tutti che le fiabe appartengono al mondo della fantasia, che i mostri e le fate non esistono, eppure questo non ci impedisce di essere certi che una storia del genere nasconde un fondo di verità. Né fatichiamo a vedere in cosa consiste il “mascheramento”.

La conoscenza che i matrimoni forzati sono reali e la consapevolezza che è fenomeno che trascende la singola epoca e la singola cultura sono dati sufficienti. Ci appare più che lecita l’ipotesi secondo cui il racconto documenti qualcosa di effettivamente accaduto nella società in cui è stato elaborato, qualunque essa sia. Il fatto poi che ci sia presentato un lieto fine non introduce in noi il sospetto di esserci sbagliati, perché anche questo elemento lo sappiamo interpretare. Non rigettando l’immagine negativa che oggi abbiamo di un simile fenomeno, semplicemente capiamo che dove era in vigore si cercava di giustificarlo. Non ci sorprende il lieto fine, non ci coglie impreparati, non perché siamo disposti a mettere in discussione i nostri valori, ma perché abbiamo l’intelligenza di renderci conto che non sempre si sono imposti nella storia umana. E quale tentativo di giustificare un comportamento è più semplice da riconoscere di quello che ci assicura che tutto finisce bene?

Perciò non abbiamo bisogno di sapere che le fiabe come Il Principe Cinghiale o Il ramoscello d’oro sono state scritte da Marie-Cathérine d’Aulnoy, non abbiamo bisogno di sapere che questa donna a quindici anni dovette sposare un uomo molto più vecchio di lei e che questo fatto segnò la sua vita. Non abbiamo bisogno di sapere ciò interrogando altre fonti, più “oggettive”, perché sono proprio le sue storie che testimoniano meglio di qualsiasi altro documento il suo dramma: il bisogno di credere nella possibilità di trovare la felicità anche in simili circostanze. Mostri e fate, pur non essendo né reali né invenzioni della scrittrice, sono chiaramente riproposti da lei nell’ottica di riflettere e farci riflettere su una sua esperienza reale e personale (benché condivisa con molte altre donne). I dati biografici servono solo a confermare che anche lo scetticismo sa essere dogmatico, persino in un ambito per certi versi particolarmente delicato, come l’interpretazione di un testo.


Se dunque vediamo che fiabe del XVII secolo possono essere lette come testimonianze di fatti realmente accaduti, non mettendo da parte gli aspetti specificatamente “fiabeschi”, ma integrandoli in questa lettura, allora perché escludere un’interpretazione analoga per altri racconti di altre epoche, ma che narrano fatti analoghi?

Del piccolo Efesto scaraventato giù dall’Olimpo teniamo presente solo il fatto che è un dio: qui il lieto fine prevarica su tutto. Eppure è un ben misero lieto fine, visto che si riduce al semplice fatto che, in quanto dio, non muore e riceve anche lui i suoi onori da parte dei comuni mortali. Lo zoppo fabbro degli dèi non manca di recitare la parte dello zimbello: come se non bastasse la sua bruttezza fisica e il fatto di essere relegato nella sua fucina fuori dall’Olimpo, gli tocca pure la parte del “cornuto”, visto che la moglie Afrodite, troppo bella per un simile mostro, si lascia ammaliare dal ben più prestante Ares (sulla possibilità di letture analoghe tra miti e fiabe confronta l’articolo Indifferenti alle differenze).

Ma noi negli antichi racconti provenienti dal mondo greco non vediamo nulla di reale. Sono solo l’espressione di una raffinata immaginazione nella più generosa delle interpretazioni, il frutto dell’ingenua superstizione nella più ingenerosa. Eppure è difficile dubitare che il disprezzo per gli zoppi sia pura immaginazione; come mai questo fattore non viene considerato? Perché in questi racconti è irrilevante?

Così bravi a sottolineare ed enfatizzare tutti i limiti della nostra società, non sembriamo altrettanto propensi allo stesso compito nei confronti delle altre. In particolare di quelle antiche greca e romana preferiamo avere un’immagine quasi “fiabesca”, in cui sono presenti solo grandi condottieri, grandi intellettuali e grandi artisti. Tutto è grande e niente è “volgare”. Non è il caso di parlare del disprezzo che la gente comune aveva per persone deformi agli angoli delle piccole strade, ci sono argomenti più importanti, più “grandi” di cui parlare.



Peccato che se si guarda bene il mito, la scelta dei temi degni di un qualche discorso è quasi invertita. Non è l’esito del colpo di genio di un grande della storia la fondazione della città che conquistò tutto il mondo conosciuto, ma dell’esposizione di due gemelli, che potremmo definire bastardi (anche se il dato “mitico” è che sono figli di Marte). La grande città di Roma fondata grazie a un evento simile: questo come lo spieghiamo? Sappiamo che a Roma accadeva realmente che i bambini, specialmente quelli senza un padre, venissero esposti (peraltro anche nella Grecia che ha miti come quello di Atalanta, Edipo e Paride): sarà una coincidenza?

Quando l’antropologo René Girard si è rifiutato di crederlo, nonostante avesse raccolto un numero ben più alto di coincidenze, è stato preso da alcuni per ingenuo. Come credere che miti e fiabe siano paragonabili in qualunque modo ai documenti storici? Come legittimare che essi possano essere chiamati a testimoniare per qualcosa di realmente accaduto? Sembra assurdo. O meglio lo è fino a quando non si incontra fiabe come quelle di Madame d’Aulnoy, poi “magicamente” non lo è più. Ma se si perdessero tutti i suoi dati biografici, non sapremmo più interpretare i suoi racconti?

La teoria di capri espiatori reali dietro i racconti mitici non è ingenua, è la teoria di chi non si lascia ingannare dal lieto fine. Romolo, il bambino esposto, secondo il mito è diventato re di Roma ed è stato celebrato quasi come un dio, ma quanti bambini realmente esposti non hanno avuto una simile sorte?

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