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Verso un'altra teoria del partigiano | 2.3: il pensiero di Clausewitz nella ricostruzione di Aron (1)



Non è compito facile restituire nella sua organica completezza il pensiero di Clausewitz. E tuttavia, per rendere ragione degli snodi concettuali presenti in questo elaborato, dobbiamo evitare di cadere nell’eccessiva riduzione e semplificazione operata dalla lettura girardiana e allargare invece la prospettiva sull’intero complesso teorico che Clausewitz sviluppa, peraltro con notevoli evoluzioni, ripensamenti e significative revisioni, nell’arco di trent’anni. È bene inoltre specificare subito che verrà posticipato l’excursus sul quadro biografico di Clausewitz, senza per questo negare che vi sia, come sempre del resto, un decisivo intreccio tra vita e pensiero. La motivazione di tale scelta è di natura puramente strategica nell’economia del presente testo: poiché la questione del partigiano ha, nella nostra prospettiva, un carattere fortemente esistenziale oltre che politico (meglio, incarna il “politico” nel suo portato esistenziale) e poiché, tanto Schmitt quanto Girard, attingono effettivamente dalla biografia di Clausewitz ‒ il primo per ricostruire la genealogia storico-concettuale di Teoria del partigiano il secondo per dedurre le drammatiche implicazioni di alcune sue intuizioni ‒ pare più proficuo legare la presentazione della personalità e delle scelte esistenziali di Clausewitz al momento in cui destineremo la decostruzione della genealogia schmittiana. Limitiamoci dunque al dominio dei concetti teorici.


Ciò che colpisce già dagli articoli scritti intorno al 1804-05 è il rigore con il quale Clausewitz elabora il suo pensiero e il suo stile, rivelando sin dalla giovinezza una spiccata coscienza della propria superiorità, ai limiti dell’arroganza a mascherare le proprie fragilità, rispetto ai teorici della guerra suoi contemporanei.

Il suo primo obiettivo polemico è un testo di Von Bülow(1), una sorta di summa di temi elaborati dall’autore e diplomatico tedesco in opere scritte in precedenza. Bülow propone alcune tesi rispetto alla trasformazione strutturale della strategia e della tattica militare che, implicitamente, custodiscono significative conseguenze politiche: 1- la massa, intesa come l’esorbitante numero di soldati e la quantità di mezzi appropriati utili a condurre una guerra, sarà il fattore dirimente per decidere l’esito delle guerre moderne, fattori infinitamente più incisivi rispetto alla disciplina o al coraggio di un esercito; 2- i piccoli Stati sono prede e non possono aspirare alla conquista di uno Stato più grande; 3- l’Europa sarà divisa in pochi grandi Stati; 4- fino a che le forze militari sono vincolate allo Stato non saranno illimitate e, proporzionalmente, più si allontanano dalla regione di provenienza più si indeboliscono; 5- per il fatto che la forza del numero è più decisiva rispetto all’effettiva eccellenza dei soldati, verranno favorite le guerre difensive o le insurrezioni di cittadini (in caso di oppressione politica) piuttosto che gli eserciti regolari e disciplinati; 6- naturale conseguenza di questa evoluzione è il fatto che gli Stati europei troveranno più ragionevole stare nei propri confini e, pertanto, la pace perpetua si offre come prospettiva destinale.

Bülow non solo deduce nuove regole per condurre le operazioni militari, poste le evoluzioni tecnologiche a disposizione degli eserciti, ma fonda sullo stesso progresso tecnico delle armi la condizione, in ambito politico e diplomatico, per edificare il progetto di pace perpetua per i popoli della terra. Per Clausewitz non esiste possibilità alcuna che la pace sia l’automatico destino offerto dalla tecnica: le guerre assumono varie forme nel corso del tempo ma la loro natura essenziale rimane la stessa (è da subito riconoscibile un problema a tutti gli effetti epistemologico: quello del rapporto tra natura essenziale dell’oggetto-guerra fissato dalla teoria ed evoluzione storica in cui questo incarna varie forme così come sono colte dall’esperienza). Resta che, sia Bülow che Clausewitz, vogliono riflettere sull’oggetto-guerra secondo un approccio “scientifico” o razionalistico, nel senso che, per prima cosa, occorre elaborare delle nozioni generali in grado di restituire un’immagine nitida dello schema descrittivo e analitico. Per esempio, Bülow definisce la strategia come la scienza dei movimenti di guerra fuori dal campo d’osservazione del nemico, la tattica invece attiene ai movimenti inclusi nel campo d’osservazione del nemico: l’elemento quindi che definisce il confine tra strategia e tattica è il tiro d’artiglieria, l’estensione del raggio d’azione dei cannoni. Per Clausewitz tale definizione è problematica: è una distinzione cruciale che, radicandosi eccessivamente nell’esperienza, non riesce a cogliere l’astrazione del concetto.

Il primo Clausewitz, in effetti, codifica un metodo che prevede la formalizzazione dei concetti visualizzati per forti antitesi; nel 1804-05 risulta dunque nettissima la distanza che separa il concetto come caso estremo, principio quanto più astratto possibile, e realtà che tende solo in maniera approssimativa al concetto. Nella “scienza della guerra” da lui prospettata una definizione che distingue strategia e tattica deve esprimere astrattamente la dialettica in atto tra mezzi e scopo: «Just as tactics are the use of armed forces in combat, strategy is the use of combat (…) with a view to the ultimate objectives of the war»(2). L’intento di Clausewitz è quello di mostrare le contraddizioni che viziano il metodo di Bülow: la sua “arte della guerra” sovrappone e, di fatto, confonde movimenti tattici e manovre strategiche; questo perché i «tangible criteria» ricavati dall’esperienza si prestano all’arbitrio più deleterio che, peraltro, offre il fianco, secondo Clausewitz, al dogmatismo strategico. Per Clausewitz, a differenza di Bülow, sono le tattiche che in ultima analisi producono gli esiti della guerra: la strategia deve predisporre la battaglia in un luogo favorevole e in un momento propizio ma, in definitiva, occorre combattere ed è la battaglia in sede tattica a spostare gli equilibri della guerra.


Il punto è che il pensiero di un Bülow è drammaticamente superato e contraddetto dalle vittorie dell’esercito francese figlio della Rivoluzione (anche se sarebbe meglio evitare pericolose generalizzazioni perché, eccettuati alcuni momenti epocali come Valmy e Jemappes, bisognerà di fatto attendere l’imperialismo aggressivo di Napoleone per raccogliere i frutti in sede tattica della trasformazione dell’esercito e di tutto l’apparato militare operato giocoforza dalla Rivoluzione(3)). I nuovi metodi di reclutamento della leva, l’organizzazione capillare di confisca dei beni messi a disposizione dell’esercito liberava i singoli battaglioni dalla limitatezza dei loro rispettivi arsenali, in modo tanto radicale da innervare, per la prima volta, Stato, territorio ed esercito con la stessa energia e cercando, quanto più possibile, di costituire un’unità organica (specie, chiaramente, nei momenti di difesa dei confini).

Dal confronto con Bülow è possibile apprezzare come Clausewitz cominci a definire una sua specificità, alcune idee di fondo che verranno portate avanti anche negli anni successivi: ad esempio la centralità della volontà, della risolutezza e delle virtù morali che, se attivate e sorrette da un’abile strategia, possono rivelarsi decisive nel sovvertire un’inferiorità materiale sul piano numerico o dei mezzi a disposizione. La guerra, soprattutto per il primo Clausewitz, è un evento che evoca e sprigiona delle forze morali e non può quindi essere ridotta ad un mero calcolo costi-benefici; il dato morale verrà sempre confermato nella traiettoria della sua ricerca ma, più avanti, verrà riposizionato riconoscendo la centralità dell’elemento politico.

Ancora negli anni 1804-05, Clausewitz pensa che un vero progresso nella “scienza della guerra” si ha quando una volontà razionale riesce ad assumersi la responsabilità del rischio, della corretta interpretazione del momento aleatorio e del calcolo strategico, ma resta oltremodo ineludibile l’essenzialità del momento della battaglia. Secondo Clausewitz, in fondo, teorici come Bülow soccombono alla tentazione di trasfigurare un dogmatismo nozionistico e prescrittivo (che ha a che fare con teoremi inerenti agli attacchi alle linee nemiche interne oppure con le manovre strategiche) in un quadro analitico capace di produrre concetti esatti sempre validi. Clausewitz incalza questi “prigionieri dell’esperienza” arrivando di fatto ad accusarli di eliminare il momento della battaglia, tanto che, a questa altezza, sembra che l’antidogmatismo di Clausewitz rischi di tradursi in un nuovo, romantico, dogmatismo centrato sullo scontro campale e sull’anti-manovra.



Sempre nel 1804 Clausewitz pubblica un lavoro profondamente anti-sistematico che rivela sin da questi anni uno spiccato interesse per la guerra combattuta in zone montane. La sua riflessione verte su alcuni temi che troveranno più ampia e sistematica formulazione nel Vom Kriege, ad esempio la cruciale importanza dello spazio nel computo dei fattori strategici: la natura del territorio, infatti, caratterizzata dalla presenza di montagne, fiumi o paludi, non influenza la battaglia solo in sede tattica, vale a dire il modo in cui si combatte, ma condiziona anche il versante strategico per quanto riguarda la disposizione delle truppe (per esempio concentrarle o disperderle davanti o dietro l’ostacolo naturale).

Un ulteriore elemento di interesse che emerge da queste ricerche è legato al rapporto che si instaura tra le truppe e il loro comandante, variabile secondo la natura del territorio, con rilevanti conseguenze sul piano tattico: se in montagna il comandante ottiene la vittoria grazie all’esercito, in pianura l’esercito vince grazie al comandante. A partire da queste riflessioni è possibile intravvedere, nelle ricerche di Clausewitz, un filo rosso che racconta di un interesse mai esaurito intorno al tema della guerriglia (di cui diventerà massimo esperto tanto da tenere una cattedra in materia all’accademia militare di Berlino), delle insurrezioni o guerre di popolo contro un invasore quale ultimo e decisivo fattore della difensiva strategica ma, in generale, dell’autonomia che un esercito può guadagnare, in determinati frangenti e secondo precise condizioni storico-strutturali, traducendosi in un possibile vantaggio in sede tattica(4). Lo studio della guerra di montagna dà poi a Clausewitz l’occasione di formulare alcune proposizioni generali che rimarranno invariate nella trattazione successiva: un giudizio sulla debolezza e l’inefficacia dei reparti minori posizionati sul lato difensivo, l’errore di difendere sulle creste anziché attendere l’attaccante nel punto in cui la valle si apre, l’opportunità dell’attaccante di concentrare le forza per sferrare un attacco decisivo.

È indubbio che, per quanto riguarda metodologia e alcune idee strutturali (attinenti la polarizzazione dialettica tra strategia e tattica, attacco e difesa, forze materiali e forze morali, oppure il ritratto del genio guerriero capace di armonizzare coraggio, valutazione del rischio e prudenza), vi sia continuità tra la prima e l’ultima fase del pensiero di Clausewitz(5). Dalle annotazioni del 1804 o del 1807 si intuisce che non esistono, come sostengono taluni interpreti, due direzioni divergenti nel pensiero del prussiano.


È più corretto sostenere che, nella riflessione teorica giovanile di Clausewitz, l’elemento politico fatichi ad integrarsi con le considerazioni di ordine puramente militare: la centralità della politica nella determinazione dello scopo della guerra risulterà infatti lo stadio finale dell’itinerario teoretico, in grado di illuminare e ricomprendere traiettorie ed evoluzioni del percorso, configurando di fatto, come vedremo, due tipi di guerra, traccia di ciò che nei paragrafi precedenti abbiamo definito l’infinita e problematica responsabilità nei confronti del “politico”, la possibilità cioè di evitare la teologizzazione della guerra mediante la negazione del riconoscimento della soggettività sovrana del nemico.

Flagrante è la distanza dal punto di partenza offerto dalle prime annotazioni di Clausewitz: nel 1804 è messa a tema la distinzione tra obiettivi della guerra (indicati dal fine politico) e obiettivo in guerra (di natura puramente militare); il fine politico presenta questa alternativa: o la completa distruzione del nemico, vale a dire la fine della sua esistenza politica come Stato, o, al momento del trattato di pace, imporne i termini e le clausole. Invariata rimane l’intenzione di paralizzare le forze nemiche, in modo che venga sottratta loro la possibilità di una guerra di liberazione. Tale “falsa alternativa” verrà ricompresa, in un testo datato 1827 e poi approfonditamente sistematizzata durante la composizione e revisione del Libro I e del Libro VIII del Vom Kriege, come uno dei termini di un’alternativa più ampia: detto altrimenti, la distruzione del nemico o l’imposizione di condizioni di pace, due modi che esprimono la medesima sostanza, divengono opzioni appartenenti ad un unico e specifico tipo di guerra finalizzato alla sottomissione del nemico. Ciò che effettivamente cambia nel pensiero di Clausewitz è che lo scopo politico (ossia la modalità del ritorno alla pace) informa e determina l’intera condotta di guerra, con conseguenze decisive rispetto alla limitazione dell’intenzione ostile: il “politico” come differenziazione tra amico e nemico agita il cuore della decisione politica, a testimonianza del fatto che, in ultima analisi, la pace è possibile solo se il nemico esiste e resiste.

In sintesi, è opportuno ribiadire due punti: 1- Clausewitz già a partire dagli scritti del 1804 ha definito il quadro metodologico e alcune delle idee principali che accompagneranno tutto il suo pensiero e il suo approccio scientifico alla guerra(6); 2- la presenza e la centralità della politica rimane ancora inespressa nelle sue implicazioni, impaniata in considerazioni di ordine puramente militare.

Quali sono stati gli eventi, gli incontri, che hanno spinto Clausewitz a ricomprendere e riformulare la relazione politica-guerra nell’intervallo che va dal 1827 fino alla morte? Secondo Aron, decisiva è stata l’influenza di Scharnhorst, tanto per le sue idee espresse negli scritti studiati dal prussiano quanto per le sue azioni militari. Certo è che: «no contemporary of the wars of Revolution or Empire could ignore the influence of circumstances or political conditions on military events, the differences between cabinet war and popular war. All there was left to do was to fit these personal experiences into a theory. There is nothing to prove that Clausewitz achieved this before the end of his life, the years of peace having allowed him to look back at Napoleon and at the prussian catastrophe. Twenty years after Jena, ten years after Waterloo, wars to the death had become the exception rather than the rule»(7).

Posta dunque la piena consapevolezza di Clausewitz riguardo il fatto che, con la torsione epocale indotta dalla svolta rivoluzionaria, le guerre da quel momento in avanti sarebbero state guerre nazionali mobilitanti masse popolari via via più estese (ma mai l’intera popolazione come in quella che, in futuro, verrà definita guerra totale), nei testi del 1804, 1807 e 1812 (un articolo contenuto nel Neue Bellona) rimane inesplorata la domanda sulla possibilità di formulare una teoria o una dottrina strategica che dipenda dall’intenzione politica, dalla pura e semplice ragione incarnata nello Stato personificato. Resta significativo il fatto che la presenza della politica, nonostante in questi primi lavori rimanga sospesa come ad inquietare il cuore “romantico” (tutto rivolto alle decisive battaglie campali e all’audacia del genio guerriero) delle considerazioni di esclusiva materia militare, venga comunque richiamata da Clausewitz in precise circostanze: troverebbe infatti puntuale realizzazione in quel «arming of the people» evocato quale drammatica necessità di una risposta efficace all’imperialismo napoleonico, necessità che corrisponde all’evocazione di un nemico in grado di resistere all’intenzione ostile dell’Impero.




La storia editoriale e compositiva del Vom Kriege è materia contraddittoria e complessa. L’inizio della composizione è datato tra il 1816 e il 1818, periodo che Clausewitz ha trascorso a Coblenz. Non si hanno notizie precise in merito all’ordine di redazione delle singole parti che costituiscono il trattato ma si può affermare con sicurezza che il 1827, anno in cui viene scritta l’avvertenza, sia stato quello della svolta teorica dirimente: la rivelazione inerente la distinzione dei due tipi di guerra (cui abbiamo accennato precedentemente) inducono Clausewitz a una revisione di alcune parti essenziali del manoscritto (sicuramente parti del Libro I, del Libro VI e forse del Libro VIII). Ma tale rielaborazione non comporta una modifica strutturale delle idee strategiche che trovano nel Vom Kriege una sistemazione rigorosa e coerente in continuità con gli scritti precedenti, quanto piuttosto un ricomprendere e illuminare il tutto partendo dall’intuizione della precedenza dell’elemento politico, da intendersi come drammatica responsabilità della politica per ciò che concerne la condotta delle operazioni militari: elemento che offre unità e armonizzazione (piuttosto che sintesi nel senso hegeliano del termine) ad antitesi, a tutta prima, incommensurabili(8).

Per Aron il Vom Kriege assume tre forme nel corso dell’evoluzione compositiva: 1- l’idea di scriverlo in brevi capitoli secondo lo stile di Montesquieu (l’influenza dell’autore di De l’Esprit des Lois è testimoniata anche da varie note di Marie Von Clausewitz), uno stile che il prussiano aveva già ampiamente sperimentato negli articoli e negli scritti precedenti e che testimoniano l’influenza costante dell’onda lunga dei Lumi settecenteschi nella traiettoria della sua riflessione; un’impronta vivida, quella di Montesquieu, che peraltro smorza sul nascere tutte quelle interpretazioni che vedono nel pensiero di Clausewitz esclusivi legami con la filosofia kantiana o hegeliana(9).

2- Pagine sicuramente indicative sono poi quelle scritte nella prefazione, che Schering situa temporalmente nel 1818 sul finire del soggiorno a Coblenz. La prefazione definisce “scientificità” il tentativo di penetrare l’essenza del fenomeno della guerra; abbiamo visto in precedenza quanto, sin dai tempi dello scritto sulla strategia del 1804, l’uso dell’astrazione e di definizioni essenziali fosse già il criterio di validità di una “scienza della guerra” in grado di superare l’arte della guerra proposta dai sistemi dei vari Bülow o Jomini.

La prefazione sottolinea però anche la connessione tra teoria astratta ed esperienza in termini vicini al ritratto che Clausewitz dà di Scharnhorst in una nota sempre del 1818 («ʻThe author never evaded the demands of philosophical rigour, but when the thread of the latter became too thin, the author preferred to break it and to turn to the corrisponding phenomena of experienceʼ (…) ʻAbstract analysis and observation, philosophy and experience, must not scorn or exclude each other: they safeguard each otherʼ»(10)). Clausewitz quindi, a questa altezza, non ha dubbi sulla necessità di dare forma sistematica al Vom Kriege: ecco che allora dalla struttura ordinata in piccoli capitoli si passa all’edificazione di un sistema, anche se radicalmente antidogmatico. L’obiettivo che Clausewitz si propone è, in effetti, analitico-descrittivo, non prescrittivo.

3- L’avvertenza del 1827, come accennavamo, inaugura, per Clausewitz, quel periodo di radicale rivolgimento intellettuale che lo avrebbe spinto, nei suoi propositi, a rimaneggiare significativamente i primi sei Libri del trattato. Poiché tale rivolgimento è utilizzato da alcuni interpreti (Girard, ad esempio, lo rende uno dei perni concettuali della sua argomentazione) per sostenere come nel pensiero del prussiano si annidi una contraddizione che oppone razionalismo politico e integralismo militare, è opportuno riportare lo scandaloso passo dell’avvertenza nella sua interezza: «Considero i primi sei libri già messi in pulito come un materiale piuttosto informe che ha assoluto bisogno di subire un rimaneggiamento. In questo rimaneggiamento, la guerra dovrà essere tenuta costantemente sott’occhio nella sua duplice forma: e ciò finirà per conferire alle idee un senso più netto, una direzione più precisa, un carattere applicativo più immediato.

Ecco che cosa intendo per duplice forma della guerra. Nella prima forma, lo scopo della guerra è di atterrare l’avversario, sia distruggendolo politicamente, sia mettendolo semplicemente nella impossibilità di difendersi, e imponendogli quindi la pace che si vuole. Nella seconda forma, lo scopo della guerra si limita al proposito di fare qualche conquista lungo le frontiere dello Stato, sia che si intenda conservarla, sia che si voglia sfruttarla come mezzo vantaggioso di scambio nelle trattative di pace. Forme intermedie di guerra hanno pur tuttavia il diritto di sussistere: ma il carattere ben distinto delle due tendenze di cui sopra deve risultare in ogni caso a nettamente distinguere questi due modi di azione bellica inconciliabili.

Oltre a questa differenza di fatto che esiste fra le guerre, occorre porre esplicitamente ed esattamente un altro punto di vista altrettanto pratico e indispensabile: e cioè che la guerra non è se non la continuazione della politica con altri mezzi. Attenendoci costantemente a tale punto di vista, otterremo maggiore unità nelle considerazioni, e tutto riuscirà a districarsi più agevolmente»(11).


Contrariamente a ciò che pensa Girard, il fatto che la prima forma di guerra sia anch’essa espressione della politica, il fatto cioè che un’intenzione ostile generata e amministrata dalla razionalità dello Stato personificato possa essere finalizzata al disconoscimento politico del nemico, non deve in alcun modo essere interpretato come una sorta di esorcismo di matrice illuministica, come un impaurito rifugiarsi dietro le barriere del diritto. Clausewitz ausculta lo spirito dell’epoca e, vivendo sulla sua pelle il cambio di paradigma dell’ostilità causato dal cambiamento rivoluzionario occorso nel paradigma della sovranità(12), consegna alla politica l’onere e la responsabilità di trattenere e non rendere indiscriminata l’inimicizia.

Il dramma consiste appunto nel dover decidere e riconoscere il punto di distinzione tra i due tipi di guerra senza smarrire la bussola nella realtà concretissima della condotta delle operazioni(13): perché se è vero che, come nel pugilato, esiste una differenza nel condurre il match quando come fine ci si pone il knock out dell’avversario o la vittoria ai punti, allo stesso modo la scelta tra le due forme di guerra cambia le condizioni di ritorno alla pace; infatti, da una parte avremo l’imposizione delle condizioni di pace ad un nemico annichilito, piagato dalla distruzione dello Stato e minacciato dall’eliminazione fisica della popolazione, dall’altra avremo invece la prospettiva di negoziare mutualmente una pace che abbia convenienza reciproca.

E se quindi, come sottolinea Aron, «the definition of strategy as the use of combat with a view to the end of the war remain valid; however, what calls for reflection is the possible modification of strategy (or conduct of operations) in relation to the end (to overthrow the enemy or not)»(14), è chiaro che, con la svolta del 1827, tutte le coppie antitetiche che sorreggono l’architrave concettuale del Vom Kriege (strategia/tattica; scopo/mezzo; difesa/attacco) dovranno essere essere rilette alla luce di tale distinzione, perché, da quel momento in avanti, Clausewitz è convinto che la politica influenzi direttamente la guerra e che, quest’ultima, possa essere studiata come oggetto indipendente, vale a dire secondo il funzionamento delle sue leggi intrinseche, solo nella sua forma assoluta, astratta, algebrica(15).



La rivelazione della duplice forma della guerra trova una precisa declinazione nell’altra importantissima distinzione, quella fra guerra assoluta o astratta e guerra reale. Tale distinzione, la quale non solo funge da principio metodologico ed epistemologico lungo l’intero trattato ma diviene, al contempo, la migliore dimostrazione del fatto che il compito della decisione politica sia propriamente quello di incarnare la mediazione razionale tra idea e realtà, determina l’andamento del primo capitolo del Libro I, dalla definizione della guerra come duello su larga scala alla guerra come camaleonte che nel suo aspetto generale si presenta come uno «strano triedro».

È interessante notare, infatti, come la differenziazione dei due tipi di guerra implicasse, in entrambe le possibilità, la pace come fine politico della guerra: 1- se il nemico viene sconfitto totalmente, il vincitore del conflitto impone condizioni di pace; 2- se nessuno dei due contendenti ha ridotto l’altro in uno stato di totale impotenza, entrambi negoziano la pace. Ma quando Clausewitz nel primo capitolo del Libro I del Vom Kriege cerca l’essenza più nuda e astratta della guerra, la separa da qualsiasi altra relazione concettuale puntando alla formulazione di una verità basica ed elementare: «La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà»(16).

Come è noto Clausewitz invita il lettore ad immaginare lo scontro tra due eserciti come a due lottatori che cercano di costringersi reciprocamente alla resa («Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza»(17)): davanti al prorompere di un’energia che attiene esclusivamente alla forza fisica (perché, dice Clausewitz, «all’infuori dell’idea di Stato e di Legge non vi è forza morale»(18)), il diritto delle genti non è che un manuale per le buone maniere. Posponendo la questione della pace, occorre dunque dire che il fine immediato della guerra è il disarmo dell’avversario: lo Stato nemico è sconfitto nella misura in cui non può continuare la guerra o la resistenza. Il fatto poi che i due belligeranti, nell’andamento del conflitto, si impongano legge mutualmente, genera quella reciprocità mimetica che logicamente deve condurre all’estremo.

«Se le guerre fra nazioni civili sono meno crudeli e devastatrici di quelle fra i selvaggi, ciò deriva dalle singole condizioni sociali degli Stati e da quelle degli Stati considerati nei reciproci rapporti. La guerra nasce da queste condizioni e da questi rapporti sociali che la determinano, la limitano, la moderano; ma tali modificazioni non sono inerenti alla guerra, costituiscono solo elementi contingenti: mai si potrà introdurre un principio moderatore nell’essenza stessa della guerra, senza commettere una vera assurdità»(19). L’errore di fondo che determina l’intero svolgersi dell’interpretazione girardiana è qui ben riconoscibile: il militare prussiano è totalmente consapevole del fatto che la guerra, nella sua essenza, non contenga in sé alcun principio regolatore in grado di limitare l’espressione della propria legge interna, ossia il necessario dispiegarsi della perniciosa reciprocità mimetica; ed insieme è altrettanto consapevole che qualsiasi tentativo di inserire tale principio dall’esterno verrebbe accolto dall’essenza suddetta come qualcosa di avventizio.

Non è vero quindi che la teoria mimetica svelerebbe e dischiuderebbe ciò che di segreto rimane sigillato nel pensiero di Clausewitz, semplicemente «the propositions which are true at this initial stage of the analysis, at the conceptual level, are not definitive. They apply to war in the abstract, separated from its origins and ends, and not to real war: (…) Clausewitz wants to prove that one cannot and should not separate a real war from its origins and ends»(20).

Pertanto, così come il compito della politica, alla luce di un lucido realismo figlio di Tucidide e Machiavelli, non è certo quello di modificare l’essenza dell’uomo, allo stesso modo è improprio pensare che nella teoria clausewitziana la politica rientri con lo scopo di trasformare l’essenza della guerra. È la realtà che imbastardisce e sporca il nitore essenziale della guerra insieme alle leggi primordiali che articolano le sue implicazioni. Compito della politica è, al limite, quello di gestire e farsi carico della guerra nella sua imperfetta realtà; da tale presupposto ne consegue, per esempio, il seguente corollario: per Clausewitz l’intenzione ostile (da ricondurre a quella responsabilità della decisione politica che determina una concatenazione di conseguenze legata alla condotta delle operazioni e alla prospettiva sulla fine del conflitto) risulta essere più importante e comprensiva del sentimento ostile(21).

Gli altri assiomi della guerra assoluta, che comportano necessariamente il montare della violenza all’estremo, recitano: 1- solo il disarmo dell’avversario mi dà sicurezza (ma il nemico rilancerà con un pensiero uguale e contrario): tale logica, nella sua reciprocità mimetica, conduce automaticamente all’estremo(22). 2- La resistenza dell’avversario dipende dalla forza dei suoi mezzi e dalla sua volontà di combattere: se l’entità dei mezzi è numericamente misurabile, la volontà è invece imperscrutabile; fino a che vi è volontà di combattere esiste una possibilità di resistenza o, più precisamente, uno sforzo di resistenza che trascende il limite del calcolo e che l’avversario dovrà affrontare con un’intensità almeno uguale e contraria sprofonda nuovamente i due contendenti in una logica che conduce necessariamente agli estremi.



Stando all’interpretazione di Girard questo è il confine oltre il quale la verità intuita da Clausewitz va progressivamente perdendo il suo portato rivelativo e incendiario. L’astuzia ermeneutica dello studioso avignonese consiste in una doppia mossa: da una parte pretendere che il concetto disincarnato contenga immediatamente anche il lavoro dello scontro con la dura e oggettiva realtà, dall’altra, contemporaneamente, assumere che la realtà tenda automaticamente, mediante le forze impersonali della reciprocità mimetica, alla perfezione del concetto.

Ma è Clausewitz stesso a sconfessare tale interpretazione, senza peraltro, come pretende Girard, evocare la presenza della politica quale tentativo posticcio di limitare la portata della rivelazione delle forze incontenibili del mimetismo. Siamo solo al paragrafo 6 del primo capitolo del Libro I, quando Clausewitz afferma: «Anche ammesso che la tensione delle forze fino all’estremo costituisca qualche cosa di concreto e di realizzabile, occorre tener presente che lo spirito umano difficilmente si adatterebbe in pratica a simil fantasticherie della deduzione logica»(23); la guerra assoluta, con la sua ferrea logica, s’incaglia e si smorza non appena inizia ad incorporare il peso della sua stessa realizzazione: il mondo umano, plasmato nella e condizionato dalla temporalità, non soddisfa le condizioni di funzionamento della guerra assoluta. La guerra, infatti, non è mai un atto isolato, non si riassume mai in una sola decisione (o in un insieme di decisioni simultanee) e non è mai un evento definitivo. Ecco perché, con la postulazione della duplice forma della guerra, Clausewitz nega la possibilità di concepire quest’ultima (comprendendo ogni gradazione possibile, quindi dall’intensità massima con l’eliminazione fisica e il disconoscimento politico-giuridico del nemico fino alla mera osservazione armata passando per ogni stadio intermedio) come qualcosa di autonomo e altro dalla politica.

Dalla visione monistica della guerra come duello su larga scala dunque, Clausewitz, ampliando e inserendo progressivamente nuovi elementi che allontanano sempre più il lettore dalla pura essenza della guerra assoluta, immortalata nella sua concettuale autonomia secondo il funzionamento della sua legge primordiale (la reciprocità che porta la violenza all’estremo), approda allo schema trinitario e all’identificazione dello “strano triedro” quale principio formale descrittivo delle guerre reali.

La prima antitesi che, in effetti, costringe a muovere i primi passi verso lo schema trinitario della guerra è proprio l’opposizione tra la sua astratta e disincarnata definizione e la realtà: «Poiché i due avversari non sono semplici astrazioni, ma Stati e governi reali, la guerra esce dal campo ideale per entrare in quello del determinismo delle cose»(24). Ai due lottatori si sostituiscono gli Stati ed insieme a questi compare tutto il peso degli attriti che rallentano fino a rendere irreali le condizioni per l’ascesa agli estremi fissate in precedenza. Fattori spaziali, temporali e politici condizionano le valutazioni e i ragionamenti, opponendo una vischiosa resistenza al volatile svolgimento del concetto: tanto più la legge della tendenza all’estremo perde forza immergendosi nella realtà quanto più lo scopo politico della guerra riprende importanza. Clausewitz sostiene infatti che «Se tutta la questione diviene un calcolo di probabilità basato su persone e rapporti ben determinati, lo scopo politico, quale determinante ordinario, deve essere fattore essenzialissimo di calcolo»(25).

«The reintroduction of policy, while not necessitating the opposite of a rise to extremes, does make possible the descent to armed observation»(26): anche Aron sottolinea come, nella teoria di Clausewitz, la reintroduzione dell’elemento politico non garantisca di per sé una limitazione allo scatenamento della violenza. Quando ci si immerge nel regime probabilistico della guerra reale diventano urgenti un insieme di valutazioni che coinvolgono l’avversario, per cui «Quanto minore è il sacrificio che si esige dall’avversario, tanto minore dobbiamo presumere che sia lo sforzo che esso farà per sottrarvisi; e anche il nostro sforzo, in conseguenza, sarà minore»(27). Ponderare lo scopo politico quale direzione dell’intenzione ostile è compito essenziale dell’intelligenza e della decisione politica, proprio perché vi è proporzionalità tra scopo politico, riconoscimento del nemico e moderazione dello sforzo bellico. Si intuisce allora quanto sia importante il legame tra scopo politico, inteso come ragione iniziale che porta alla decisione per la guerra, e obiettivo militare al fine di formulare una strategia adeguata.


Clausewitz vive precisamente il periodo di transizione in cui, per la prima volta in una dimensione a tutti gli effetti internazionale, nuovi paradigmi di definizione del “politico” alterano l’intensificazione (come discriminazione ideologica del nemico) e l’estensione dell’ostilità (perché, con la Rivoluzione e l’Impero, le guerre contro le vecchie monarchie europee vengono combattute in nome del genere umano), dando consistenza storica alla presenza prima quasi invisibile delle masse (certo non ancora nel senso della mobilitazione totale o della guerra totale). Dalla sua prospettiva privilegiata (nella misura in cui ha simultaneamente vissuto l’evoluzione bellica tanto “dall’interno” nella concretezza del campo di battaglia quanto “dall’esterno” partecipando attivamente alle conseguenze politiche e teoriche di tali cambiamenti) ha rilevato e diagnosticato tale trasformazione, essendo stato inoltre testimone, dopo la rovina dell’avventura napoleonica, di una risacca dell’ostilità nella relazione tra Stati e popoli.

Ed è proprio in virtù di questo andamento ondulatorio e prolungato che risulta sempre possibile pensare una teoria della decisione politica all’altezza di sempre nuovi paradigmi di ostilità (lavorando a partire dall’asimmetria tra attacco e difesa per scoraggiare forme imperialistiche di aggressione e disconoscimento esistenziale-politico del nemico). Clausewitz, quindi, non è un’anima bella che si affida all’utopia della ragione per sradicare dall’umano la realtà incontrovertibile della sua violenza ma nemmeno un ingenuo che giudica non problematica la posizione della politica, costretta com’è alla drammatica mediazione tra idea e realtà. L’intenzione ostile non deve giocare con le braci del sentimento ostile: «Fra due nazioni o Stati possono esistere tensioni così forti, somme tali di elementi ostili, che un motivo politico di scarsissima importanza intrinseca divenga capace di provocare effetti sproporzionati alla sua natura: una vera esplosione»(28).

Se la guerra reale, così come analizzata da Clausewitz, trova la sua consistenza e il suo svolgimento nell’assommarsi di un numero sempre crescente di attriti, tali da riempire e dare corpo ai trascendentali dello spazio e del tempo, ha ragione Aron nel rilevare che «as soon as real wars are considered, the possibility of descent determines or should determine conduct just as much as the abstract possibility necessitates a rise»(29): ma questo fatto non esonera e mette al riparo la decisione politica; al contrario, per certi aspetti, tutto ruota intorno alla modalità con la quale l’intenzione ostile metterà in forma il sentimento ostile, se verrà o meno rispettato il criterio del “politico” come principio relazionale (ossia se il nemico verrà o no delegittimato o criminalizzato, rendendo la guerra che si combatte “giusta” proprio in virtù di una mancanza di riconoscimento preventiva) e se verranno identificati obiettivi di guerra commisurati allo scopo politico. Così chiosa Clausewitz: «chiaro risulta da ciò perché esistano, senza intima contraddizione, guerre di ogni grado d’importanza ed energia, da quella di sterminio alla semplice osservazione armata»(30).



La differenza e l’asimmetria tra attacco e difesa emerge allora con la prospettiva di dare una solida spiegazione ad un fenomeno a tutta prima incomprensibile: la sospensione dell’ostilità. Il ragionamento di Clausewitz si sviluppa nelle due consuete direzioni: astrazione contro realtà. Partiamo dicendo che «Se le due parti si sono armate per la lotta, occorre che un principio ostile ve le abbia spinte. Fino a che esse restano armate, e cioè finché non concludono la pace, questo principio continua a sussistere, e pertanto la sosta non può essere motivata che da un solo movente: attendere un momento più favorevole per agire»(31); ma l’idea di attendere per attaccare in maniera vantaggiosa presuppone che uno dei due contendenti conosca perfettamente il piano tattico dell’avversario.

D’altra parte nemmeno un perfetto equilibrio nelle forze può giustificare una sosta nel conflitto perché saremmo comunque ricondotti alla prospettiva dell’attesa del momento più favorevole(32) ma, soprattutto, alla finzione di una conoscenza perfetta della situazione da entrambe le parti belligeranti. La perfetta conoscenza della situazione dell’avversario produrrebbe come conseguenza una altrettanto perfetta continuità dell’azione bellica, in un susseguirsi di attacchi e contrattacchi che riproducono emblematicamente la girardiana lotta tra doppi mimetici: tale convulsa reciprocità avrebbe come esito la tensione verso l’estremo perché «ogni azione singola acquisterebbe maggiore importanza e diverrebbe quindi più pericolosa»(33).

Perfetta conoscenza della situazione dell’avversario e perfetta continuità delle manovre che costantemente riconducono alla battaglia decisiva: queste sono le condizioni di svolgimento della guerra assoluta e algebrica. Accettando tali presupposti, entra in gioco un principio di polarità riscontrabile nella reciproca esclusione degli obiettivi strategici: «in una battaglia ognuna delle parti vuol vincere: vi è in questo caso una vera polarità, poiché la vittoria dell’uno esclude quella dell’altro»(34). Ma questa disincarnata idea della guerra assoluta funziona esclusivamente nella misura in cui l’indifferenziazione mimetica dei belligeranti consuma ogni differenza tra i due, rendendoli perfettamente speculari.

Per Clausewitz, invece, le cose stanno diversamente perché l’attacco e la difesa sono quiddità di specie differente e, quindi, la polarità sussiste unicamente in un preciso momento del loro rapporto: nelle guerre reali, la differenza asimmetrica tra attacco e difesa determina una discontinuità che, di per sé, costringe i due belligeranti a muoversi ben sotto la soglia della decisione tesa all’estremo per intensità e violenza(35). Peraltro, la differenza quidditativa tra attacco e difesa si manifesta con la superiorità, per un complesso insieme di fattori, di quest’ultima rispetto all’attacco: è ovvio quindi che, difficilmente, il contendente più debole vorrà perdere i vantaggi della difensiva e avrà invece tutto l’interesse a differire nel tempo lo scontro, unendo alla difensiva strategica un piano costituito da mirate offensive tattiche.

Colui che attacca deve essere quindi consapevole del fatto che, per aver ragione degli elementi essenziali della difensiva, occorre un surplus di volontà da parte dell’esercito e un’abilità di calcolo raffinatissima da parte del comandante(36). L’esperienza dice che: «Quanto più deboli sono i motivi di azione, tanto maggiormente essi saranno assorbiti e neutralizzati da questa differenza fra attacco e difesa, e tanto più frequenti saranno le soste dell’atto bellico»(37).

Nella guerra reale le operazioni militari non conoscono mai una continuità di azione e informazione tale da risolversi immediatamente in un atto decisivo ed istantaneo: a dire il vero nella maggior parte delle guerre il tempo impiegato nell’azione è esiguo, mentre le soste ne condizionano sostanzialmente l’andamento. Con una conseguenza precipua: «Quanto più lento è lo sviluppo dell’azione bellica, quanto più numerosi e lunghi sono i suoi tempi d’arresto, tanto maggiore diviene la possibilità di rimediare ad un errore, tanto più diviene ardito, nelle proprie previsioni, colui che agisce, tanto maggiormente egli si terrà indietro rispetto alla linea dell’assoluto e baserà tutto su probabilità e supposizioni»(38).




***


(1) Ricaviamo queste notizie dal ricchissimo lavoro di Raymond Aron consultato in traduzione inglese in assenza di traduzione italiana (Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, trad. di C. Booker e N. Stone, Touchstone Edition published by Simon & Schuster, Inc., New York (1986); edizione originale Raymond Aron, Penser la Guerre, Clausewitz, Editions Gallimard, Parigi (1976)). Aron riporta che il testo di Bülow analizzato da Clausewitz si intitola Lehrsätze des neueren Krieges oder reine und angewandte Strategie aus dem Geist des neueren Kriegssystems, hergeleitet von dem Verfasser des neueren Kriegssystems und des Feldzuges von 1800, pubblicato nel 1805 e in cui confluiscono alcune tesi di un’opera pubblicata nel 1798 che, in traduzione inglese, presenta il titolo The Spirit of the System of Modern Warfare e notazioni provenienti dal resoconto della campagna militare del 1800 a cui Bülow ha partecipato.

(2) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 45.

(3) Vale la pena riportare alcuni brani di Lefebvre: «I generali francesi restavano in molti punti fedeli alla tattica tradizionale: il regolamento dell’agosto 1791, fondato sull’insegnamento di Guibert, propugnava l’ordine sottile, la fanteria venendo schierata su due linee, ciascuna di tre ranghi, e ammetteva l’attacco in ordine profondo, per colonna di battaglione. Tuttavia, la forza delle cose cominciava a trasformare la tattica: la difensiva la guerra di avamposti, la necessità di utilizzare i volontari, ch’era difficile addestrare all’ordine lineare, ma che erano pieni d’ardore e d’iniziativa, avevano condotto a impiegare come tirailleurs una parte sempre crescente delle forze disponibili.

(…) Jemappes, eco formidabile di Valmy, fu una vera vittoria rivoluzionaria ottenuta per mezze di un attacco frontale dai sanculotti, che si erano lanciati all’assalto delle posizioni nemiche al canto della Marsigliese e della Carmagnola e avevano sommerso l’avversario sotto il numero: essa fece nascere nei rivoluzionari l’idea della leva in massa e di una guerra popolare nella quale si potesse fare a meno di scienza e di organizzazione»; Georges Lefebvre, La Rivoluzione francese, trad. di Paolo Serini, Einaudi, Torino 1958, cit. p. 295 e pp. 298-299 (ed. or. Georges Lefebvre, La Révolution française, Presses Universitaires de France, Paris 1951-1957).

(4) Ovviamente, una prima rivelazione in tal senso Clausewitz la raggiunge studiando le campagne della Francia rivoluzionaria.

(5) Ecco un significativo esempio: «At this point, the offensive strategy is defined by the invasion of enemy’s territory of operations. The adoption of the defensive apparently only finds justification on the grounds of inferiority in numbers. Now, (…), where he writes about the propitious moment for battle and where, quoting Machiavelli, he stresses the moral superiority which an army draws from a first victory, he makes an important reservation: ʻif Bonaparte one days advances as far as Poland he will be easier to beat than in Italy and in Russia; i should consider his defeat assured.ʼ Many times afterwards he comes back to the difficulty of conquests in Europe, conquests which were thought impossible before Bonaparte. In the Treatise [Vom Kriege, nda], he gives expression to this constant idea and completes it by analysis of the European balance of power. But this makes the reader wonder about the connection between the calls to boldness and offensives on the one hand, and the difficulties which space and men pose for conquest on the other.

In 1804 he notes that, to avoid battle, one must give up territory; an inevitable but not necessarily too high price to pay, for example in the case of Russian frontier territory. In the war plan against France of 1807, he comes to the extreme formula: to abandon the country in order to save the army, to separate the army from the State and put the invading army at the disadvantage of having to fight defensively on enemy soil, to operate in complete freedom with one of invaluable advantage, surprise.»; Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 50.

(6) L’idea di una scienza della guerra in grado di raggiungere criteri di generalità svincolati dal puro dominio dell’esperienza storica, richiede chiaramente altissimi livelli di astrazione seguendo due vettori: da un lato la formulazione di concetti in grado di sezionare e descrivere analiticamente l’oggetto-guerra; dall’altro la ricollocazione degli assiomi trovati in un sistema che sinteticamente li organizzi. Questo è, propriamente, lo sforzo che anima la scrittura del Vom Kriege.

(7) Raymond Aron, op. cit., cit. pp. 51-52.

(8) Nel paragrafo 23 del Capitolo I del Libro I, autentico manifesto di ciò che abbiamo definito responsabilità della politica rispetto al “politico”, proprio perché, anche nella massima intensità della polarizzazione amico/nemico, la guerra resta pur sempre un mezzo serio relativo a uno scopo serio, Clausewitz dice: «Ma la guerra non è un passatempo, un divertimento consistente nel rischiare e riuscire, un’opera di libera ispirazione; è un mezzo serio inteso ad uno scopo serio. (…) La guerra di comunità – nazioni intere, e specialmente nazioni civili ‒ nasce sempre da una situazione politica e vien provocata solo da uno scopo politico: costituisce dunque un atto politico. Se essa fosse una manifestazione completa, indisturbata, assoluta di forza, quale dovremmo dedurla dalla pura astrazione, allora, dall’istante in cui la politica le ha dato vita, si sostituirebbe ad essa come alcunché di assolutamente indipendente, la eliminerebbe, non seguendo più che le proprie intrinseche leggi, come la esplosione di una mina non è più suscettibile di essere guidata dopo che si è appiccato il fuoco alla miccia. È in tal modo che finora si è concepita la cosa, quando una disarmonia fra politica e condotta di guerra ha fatto pensare a distinzioni teoriche del genere. Tuttavia, non è così; anzi, questa concezione è radicalmente falsa. Nel mondo della realtà la guerra non è (…) una cosa così assoluta che la sua tensione si risolva in una sola decisione; è, invece, l’azione di forze che non si sviluppano in modo uniforme e regolare: che talvolta si sviluppano abbastanza per vincere gli ostacoli frapposti dall’inerzia e dagli attriti, talaltra sono troppo deboli per produrre un effetto. (…) in altri termini, è un atto che conduce più o meno prontamente allo scopo, ma che dura sempre abbastanza perché nel suo corso consenta influenze atte ad imporgli questa o quella direzione: sì da restare insomma sottoposto alla volontà di una intelligenza direttrice. Se consideriamo ora che la guerra procede da uno scopo politico, è naturale che questo motivo primo che le ha dato vita continui a costituire elemento precipuo per la sua condotta. (…)

Così, la politica si estrinseca attraverso tutto l’atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo, per quanto è consentito dalla natura delle forze che nella guerra si manifestano»; Karl Von Clausewitz, Della guerra, cit. pp. 36-37.

(9) Per Aron non è granché rilevante sapere quali capitoli scritti durante il periodo di Coblenz siano effettivamente entrati nella versione finale del manoscritto senza ulteriori modifiche (peraltro, un punto su cui vi è accordo tra diversi interpreti, per esempio Rosinski, Schering e Kessel, è che il Libro III, IV e V non siano stati nemmeno revisionati dopo il 1827).

(10) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 55.

(11) Karl Von Clausewitz, Della guerra, cit. p. 9.

(12) Vedremo come Schmitt, in Teoria del partigiano, sbaglia ad attribuire unicamente a Clausewitz il cambio di paradigma dell’ostilità, quella transizione cioè che, nella genealogia del giurista di Plettenberg, porta dal vero nemico al nemico assoluto.

(13) Schering recupera negli archivi clausewitziani una nota che, verosimilmente, risale ad uno stadio ancora embrionale della scrittura del Vom Kriege e che dà l’idea della portata degli interrogativi che inquietavano la ricerca del militare prussiano e, al contempo, dell’urgenza di trovare risposte in una forma diversa, più veridica e profonda: «ʻIs one war of the same nature as another? Is the objective of the enterprise of the war distinguishable from its politic end? What is the size of force which must be mobilized in a war? What amount of energy must be deployed in the conduct of the war? What is the reason for the many pauses during hostilities: are they important parts of the latter or real anomalies? Do the wars of the seventeenth and eighteenth centuries with a restricted force, or the wanderings of half-civilized tartars, or the destructive wars of the nineteenth century conform to the phenomenon itself? Or is the nature of the war conditioned by the nature of the relations, and what are these relations and these conditions? The substance of these questions does not appear in any of the books written about war, in particular in those which have been written recently on the conduct of the war in its overall perspective, that is to say strategyʼ»; Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 59.

(14) Ivi, cit. p. 59.

(15) Così Clausewitz: «Nessuno ignora certo che la guerra deriva dalle relazioni politiche fra i governi e i popoli; ma ordinariamente si pensa che con essa venga a cessare il lavoro politico, e che subentri uno stato di cose del tutto diverso, regolato soltanto da proprie leggi. Affermiamo invece che la guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi. Diciamo: vi si frammischiano altri mezzi, per affermare in pari tempo che il lavoro politico non cessa per effetto della guerra (…) e che le linee generali, secondo le quali si svolgono gli avvenimenti bellici ed alle quali essi sono legati, non sono che i fili principali della politica, penetranti attraverso l’intreccio della guerra, e svolgentisi di continuo fino alla pace.

       (…) Questo modo di concepire la guerra sarebbe indispensabile anche se si trattasse della guerra assoluta, della manifestazione non frenata del principio di ostilità. Ed invero, tutti gli elementi, sui quali la guerra si basa e che ne determinano i tratti fondamentali (…) sono di natura politica. (…) Inoltre, questo modo di vedere le cose appare tanto più indispensabile, se si considera che la guerra reale non è mai una tendenza così conseguente, così rivolta verso l’estremo, come dovrebbe essere secondo l’idea originaria; essa non è che una mezza misura implicante intima contraddizione e pertanto non può seguire completamente leggi proprie: essa è il frammento di un altro complesso, e questo complesso è la politica.

La politica, servendosi della guerra, evita tutte le conclusioni rigorose che l’essenza di questa comporterebbe.», Karl Von Clausewitz, Della guerra, cit. pp. 811-812.

(16) Ivi, cit. p. 19.

(17) Ivi, cit. p. 19.

(18) Ivi, cit. p. 20.

(19) Ivi, cit. pp. 20-21.

(20) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 62.

(21) «La lotta fra gli uomini si fonda su due differenti elementi: il sentimento ostile e l’intenzione ostile. Nella nostra definizione della guerra ci siamo basati sul secondo perché più generale; non possiamo infatti pensare all’odio, anche il più selvaggio, quello che si avvicina all’istinto, separandolo dall’intenzione ostile, mentre esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almeno non essenzialmente accompagnate, da inimicizia preconcetta», Karl Von Clausewitz, Della guerra, cit. p. 21. Su questo punto anche Aron concorda sostenendo che, tra i due elementi, è l’intenzione ostile ad avere maggiore importanza perché, se è vero che l’intenzione non implica un sentimento ostile, quest’ultimo invece, per manifestarsi, necessita di un’intenzione; la questione è assolutamente rilevante proprio perché ciò che la politica, compatibilmente con i suoi limiti, deve evitare è proprio la sottovalutazione delle forze impersonali del mimetismo, lasciando proliferare indiscriminatamente quelle leggi della reciprocità che diventano tanto più intense e necessitanti quanto più la guerra viene abbandonata alla pura autonomia dello scatenamento delle forze in gioco: «men and races who at first fight without mutual hatred end up by hating each other by reason of the fighting», Raymond Aron, op. cit., cit. p. 63.

(22) «Se l’avversario deve essere, a mezzo dell’azione bellica, costretto a compiere la nostra volontà, dobbiamo dunque o porlo realmente in stato d’impotenza, o metterlo in una situazione tale che, secondo ogni probabilità, sia sul punto di esserlo.

La guerra deve dunque mirare sempre a disarmare, o ad abbattere che dir si voglia, l’avversario. Essa non suppone però il lavoro di una forza attiva contro una massa inerte, giacché un atteggiamento completamente passivo è incompatibile con qualsiasi condotta di guerra: consiste invece sempre nell’urto di due forze attive contrapposte, e quanto si è detto circa lo scopo finale dell’attività bellica si applica ad entrambi i belligeranti. È, quindi, una nuova azione reciproca; finché non abbiamo abbattuto l’avversario, dobbiamo temere noi stessi di esserne abbattuti; non siamo più liberi; l’avversario ci impone la sua legge, come noi gli imponiamo la nostra», Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. pp. 22-23.

(23) Ivi, cit. p. 24.

(24) Ivi, cit. p. 27.

(25) Ivi, cit. p. 28.

(26) Raymond Aron, Op. cit., cit. p. 64.

(27) Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. p. 28.

(28) Ivi, cit. p. 28. Al contrario, «Lo scopo politico avrà in sé stesso, come misura degli sforzi, un influsso tanto più prevalente e decisivo quanto più le masse saranno indifferenti e quanto minore sarà la tensione esistente naturalmente fra i due Stati; in alcuni casi l’influsso dello scopo politico diviene, così, quasi esclusivamente determinante», Ivi, cit. p. 29.

(29) Raymond Aron, Op. cit., cit. p. 65.

(30) Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. p. 29.

(31) Ivi, cit. p. 30.

(32) «Supponiamo dunque che, dei due Stati, l’uno abbia uno scopo positivo: conquista di una provincia, per valersene nelle trattative di pace. Dopo tale conquista, essendo il suo scopo politico raggiunto, esso non sente più alcun bisogno di agire, e si arresta. Se l’avversario si rassegna a tale risultato, deve fare la pace: altrimenti occorre che agisca: ma se, poniamo, fra quattro settimane esso ritenga di esser meglio organizzato, avrà in ciò motivo sufficiente per differire l’azione. Ma, da quel momento, sembra che logicamente l’obbligo di agire incomba all’avversario, per non lasciare al vinto il tempo di preparare la nuova azione», Ivi, cit. p. 30.

(33) Ivi, cit. p. 31.

(34) Ivi, cit. p. 31.

(35) «Se non esistesse che una forma di guerra, e cioè l’attacco, e quindi nessuna difesa, o se, in altre parole, l’attacco non differisse dalla difesa che per lo scopo positivo insito nel primo e mancante nella seconda, la lotta sarebbe sempre di un’unica specie: ogni successo dell’uno sarebbe un insuccesso altrettanto grande per l’altro, e quindi vi sarebbe polarità.

Ma l’attività bellica comprende due forme, l’attacco e la difesa, che (…) sono molto diverse e di forza differente. La polarità sta dunque in ciò cui tendono entrambe, e cioè la decisione (…) Se uno dei comandanti desidera ritardare la soluzione, l’altro deve volerla affrettare, ma senza cambiare la forma della lotta. Se l’interesse di A richiede che egli non attacchi il suo avversario oggi, bensì fra quattro settimane, B ha interesse ad essere attaccato non fra quattro settimane, ma subito», Ivi, cit. p. 32.

(36) «Ogni condottiero non conosce esattamente che la propria situazione (…) Vero è che questa mancanza di intuito della situazione potrebbe condurre tanto ad un’azione intempestiva quanto ad un tempo d’arresto intempestivo, e, quindi, di per se stessa, non contribuirebbe maggiormente a ritardare, che ad accettare, l’azione bellica: ma insomma essa è pur sempre da ritenersi come una delle cause naturali che possono determinare una sosta dell’azione stessa, senza intima contraddizione. Quando poi si consideri che si è generalmente proclivi e indotti piuttosto a sopravvalutare che a sottovalutare la forza dell’avversario, essendo ciò insito nella natura umana, si converrà che la imperfetta conoscenza dello stato di fatto contribuirà molto a ritardare l’attività bellica e a moderarne il principio vitale», Ivi, pp. 33-34.

(37) Ivi, cit. p. 33.

(38) Ivi, cit. p. 34.

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