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Verso un'altra teoria del partigiano | 2.3: il pensiero di Clausewitz nella ricostruzione di Aron (2)



Prima di tematizzare esplicitamente la questione politica a completamento del percorso che porta alla descrizione della guerra in forma trinitaria, Clausewitz assomma quindi una serie di elementi che denotano l’originalità del suo approccio agli aspetti più tecnici della guerra: nell’interpretazione di Aron, Clausewitz, a questo livello di svolgimento della teoria, introduce l’opposizione tra intelletto (inteso primariamente come capacità decisionale nella confusione probabilistica della realtà contingente) e volontà (in due sensi: come insieme delle qualità morali se pensiamo al comandante; se ci riferiamo all’esercito nel suo complesso, la volontà attiene invece alla capacità di produrre o resistere ad uno sforzo). La volontà e le forze morali di un esercito guidato da un abile comandante diventano fattori determinanti non solo rispetto alle forze materiali di cui effettivamente egli dispone (forza numerica, armi e provvigioni) ma, più in generale, sono fattori che agiscono in antitesi alle astrazioni della pura teoria e alle speculazioni di chi crede di poter applicare l’idea senza resistenza alcuna da parte della realtà.

Come ultimo gradino prima della formalizzazione della definizione trinitaria della guerra, ritroviamo riaffermata la centralità dello scopo politico. Le guerre fra popoli civilizzati sorgono da una situazione politica e sono spinte da motivazioni politiche e, pertanto, il fine politico ha suprema considerazione nella conduzione della guerra. Se allo stadio precedente, muovendoci tra le fila dell’esercito, vi era supremazia dei valori morali (audacia, coraggio, prudenza ecc.), alla fine del percorso sono i valori legati all’intelligenza a prendere il sopravvento, i valori cioè più adatti alla decisione politica. «Real war cannot be compared with the total and blind unleashing of violence because it unfolds slowly enough to remain in submission to the will of a directing intelligence»(1). Ma tale notazione di Aron non deve essere interpretata come alcunché di edificante: dire che la guerra è uno strumento della politica, una sua prosecuzione con altri mezzi (consistenti in atti di violenza che uniscono dispendio di forze materiali e morali, passioni e abilità di calcolo strategico-tattico), significa che questi ultimi, di rimbalzo, esercitano un’influenza sull’intenzione ostile che anima lo scopo politico.

Gli stadi intermedi del conflitto, rispecchianti la molteplicità di situazioni comprese tra la forma astratta della tendenza all’estremo e la mera osservazione armata, acquistano senso proprio a partire dalla relazione scopo politico/mezzo militare (sempre ricordando però che «la guerra è il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi»(2)): il motivo drammatico della responsabilità politica trova qui il massimo fulgore perché, nel viluppo di questo nodo che già annuncia il criterio formale del “politico”, Clausewitz ha intuito con lucidità la consustanzialità e la complementarietà di politica e guerra(3).

Lo schema trinitario della guerra emerge dall’esigenza di offrire un modello che renda ragione della sua evoluzione storica e che, al contempo, ne renda sempre riconoscibili le invariabili teoriche (compresi i rapporti e le proporzioni attraverso cui queste invariabili si dispongono assumendo una trasformazione sostanziale del singolo vertice del triedro). Lo schema trinitario è il luogo in cui la teoria diviene più nitida e formalizzata, la risposta ai problemi epistemologici che Clausewitz stesso era andato ponendosi lungo tutta la sua attività di ricerca. «The threefold definition none the less brings a decisive innovation: it alone is valid for alla real wars, and although wars may deviate more or less from absolute war, they are nevertheless war from the moment that one refers to the threefold definition which is the basis of theory, history and doctrine»(4).

L’ambizione di armonizzare teoria ed esperienza per ottenere un modello descrittivo funzionale e trans-storico nasce precisamente dal desiderio di percorrere strade alternative rispetto al dogmatismo dottrinario delle teorie prescrittive dei suoi contemporanei: «la guerra non solo rassomiglia al camaleonte perché cambia di natura in ogni caso concreto, ma si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto: 1- della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto; 2- del gioco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima; 3- della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. (…) Queste tre tendenze, che si presentano come altrettanti sistemi diversi di legislazione, hanno profonde radici nella natura intima del soggetto, e sono in pari tempo di grandezza variabile. Una teoria che negligesse l’una o che pretendesse di stabilire fra loro rapporti arbitrari, si troverebbe immediatamente in tale contrasto con la realtà, da doversi, già per questo solo motivo, considerare come distrutta»(5).

Ma qual è allora la differenza principale tra la duplice forma della guerra postulata nell’avvertenza del 1827 rispetto all’elaborazione teorica del primo capitolo del Libro I? Di fatto, è la sistematizzazione della duplice forma della guerra dentro la separazione teorica che oppone guerra assoluta e guerra reale. L’irrealtà della guerra assoluta emerge solo nella riflessione degli ultimi anni, tra il 1827 e il 1830. I Libri III, IV e V, i libri cioè focalizzati sulla strategia nella declinazione più concreta del termine e sull’analisi delle forze combattenti, presentano una sostanziale continuità con i primi scritti risalenti al 1804 e al 1812: non vi è traccia invece della sintesi finale del pensiero del prussiano che unisce la duplice forma della guerra con la rilevanza ineludibile dell’elemento politico.

Sono gli studi storici che lo conducono ad una progressiva rielaborazione del concetto di guerra: Napoleone è il fulcro per esprimere la duplice forma che può assumere la guerra; dopo Napoleone, infatti, la sottomissione della volontà del nemico diviene la pratica normale, logica e necessaria. Ogni altra strategia si rivela totalmente improduttiva in sede tattica, ed è ricondotta alle sconfitte degli alleati dei prussiani. La ragione di ciò è facilmente intuibile: l’indifferenza del popolo nelle guerre di gabinetto, guerre in cui l’intenzione ostile collimava esattamente con la decisione politica e quest’ultima trovava forma ed espressione nella rigida regolarità dell’esercito e del diritto internazionale, era stata completamente stravolta dall’adozione della leva in massa determinante il carattere nazionale delle guerre.

Se in gioventù Clausewitz introdusse le forze morali nella teoria per decostruire il nozionismo dogmatico dei dottrinari che culminava in una strategia pianificata more geometrico; in maturità appare la distinzione concettuale della duplice forma della guerra (da una parte la sottomissione integrale dello Stato nemico mediante distruzione delle forze armate rivali, dall’altra la conquista di una provincia o la mera osservazione armata) sempre sotto l’egida della decisione politica, con l’obiettivo di riconciliare all’esperienza storica la natura trans-storica della teoria, cercando le tracce della forma immutabile in ogni differente caso concreto.



Ricordando che una delle argomentazioni con cui Girard suffraga la sua tesi è relativa al fatto che il Libro VIII sarebbe in fondo il tentativo di stemperare la verità apocalittica del riconoscimento della reciprocità violenta propria delle prime pagine del trattato, occorre chiedersi: qual è l’effettivo rapporto tra il Libro VIII (“Il piano di guerra”) e il primo capitolo del Libro I? Al netto dei problemi filologici legati all’impossibilità di sapere precisamente quando e in che ordine Clausewitz abbia operato riscritture e revisioni dei due Libri, si può con certezza affermare che anche il Libro VIII postula l’antitesi tra guerra assoluta e guerra reale. Con una sostanziale differenza: nel Libro VIII non compare la definizione trinitaria della guerra, proprio perché sembra già presupporla. Clausewitz non potrebbe certo definire “guerre a metà” quelle guerre a bassa intensità che rientrano nelle gradazioni intermedie comprese fra la conquista di una provincia e l’osservazione armata in vista di una pace negoziata, se lo schema trinitario non fosse già presupposto.

La folgorante apparizione nella storia di Napoleone genera un potenziale cortocircuito nella teoria clausewitziana che si manifesta con questa contraddizione: da una parte ritenere che le sole guerre reali siano quelle che mirano ad annichilire lo Stato nemico e costringere l’avversario alla propria volontà, dall’altra pensare che tanto le guerre limitate quanto quelle tese all’estremo siano coerenti non con la loro natura astratta ma solo con la natura concreta e complessa della realtà contingente in cui gli elementi della definizione tripartita agiscono insieme seppur a intensità differenti(6). Nel primo capitolo del Libro I la guerra assoluta come necessità logica viene dedotta, astrattamente, dall’azione reciproca delle antitetiche volontà militari che si scontrano e, concretamente, dallo spiegamento delle passioni mimetiche. Nel Libro VIII la guerra assoluta trova la sua verità nella natura del concetto e poi una verità di secondo tipo, sperimentale, nella storia(7). Nel Libro I è la stessa definizione trinitaria della guerra, valida per tutte le guerre reali, a marcare una separazione definitiva con la vecchia idea che solo le guerre che annichiliscono il nemico derivano dal concetto mentre nella storia si sperimentano solo guerre imperfette. Con il Libro VIII, invece, Clausewitz riconosce nell’elemento politico il collante in grado di riunire in una spiegazione unitaria la natura polimorfa della guerra nella storia: intuizione che lo spinge ad allentare la morsa tirannica della deduzione logica, eliminando così il rischio di trasformare la teoria da descrittiva a prescrittiva(8): «There is no absolute war in reality (…) yet, wars approaching absolute war are not perfect wars as opposed to imperfect wars mixed with policy (…) A war which approached perfection is neither more nor less political than any other: it is policy itself which determines its absolute character (…) In Book VIII, the unreality of absolute war arises from the inevitable gap between the concept and the phenomenon; in Book I it arises from an incomplete definition of war. (…) The magnitude of conflicting interests, the intensity of tensions and the political understanding, responsible for the choice of objects, all combine to determine the character of the phenomenon created by hostilities»(9). In fondo, quando l’assoluto s’incarna ed entra nella storia, diventa anch’esso relativo: attraverso la politica, paradossalmente, la storia ospita declinazioni diverse della stessa forma assoluta della guerra. Rendendo conto di ciò, la teoria resisterà all’usura del tempo.


Intersecando storia e teoria, diventa più comprensibile la questione della variazione formale della guerra assoluta (pur mantenendosi limite noumenico di ogni guerra reale): nonostante l’evoluzione tecnologico-militare liberi senza soluzione di continuità nuove possibilità in sede tattica, la strategia si realizza sempre all’interno di precise condizioni storico-politiche. È la combinazione dei due elementi che avvicina, in un preciso momento, la guerra alla sua natura essenziale: proprio perché la realizzazione dell’essenza della guerra non è mai un esito fatale ma una possibilità che abbisogna di un gran numero di condizioni convergenti simultaneamente, occorre dunque riflettere sulle motivazioni che hanno reso le guerre del secondo tipo (quelle cioè a obiettivi militari limitati, paludate nella mera osservazione armata e con una prospettiva rivolta alla negoziazione della pace) di gran lunga le più presenti nella storia.

Per illuminare al meglio il problema (il quale introduce al meglio l’approfondimento successivo sulle opposizioni dialettiche tra mezzo militare/scopo politico, forze morali/forze materiali, difesa/attacco), recuperiamo, grazie ad Aron, una sintesi delle riflessioni di Delbrück che, richiamandosi ai nuclei teorici del Vom Kriege, mette a tema le differenze sul piano strategico tra Federico il Grande e Napoleone. Delbrück formula nel 1878 la distinzione tra una strategia dell’annichilimento dell’avversario mediante distruzione delle armate nemiche e una strategia dell’attrito (attribuendola a Clausewitz). Fissata la distinzione teorica portante, nel 1886 tenta un’applicazione descrivendo i differenti approcci strategici di Federico il Grande e Napoleone: in sede strategico-tattica tale differenza si realizza nella contrapposizione tra battaglia e manovra; sul piano strettamente strategico, la scelta del primo o del secondo elemento è dirimente perché alla polarizzazione massima in una sola battaglia si oppone un piano che prevede la combinazione di battaglie e manovre.

Aron ci fa sapere che la riflessione di Delbrück seminò scandalo nell’ambiente accademico-militare del tempo perché i generali tedeschi, complici le vittorie di Sadowa (1866) e Sedan (1870), seguivano orgogliosamente la dottrina che Napoleone mise in pratica e che Clausewitz così nitidamente formulò. È opportuno comunque gravitare intorno a tre domande: 1- quanto differisce effettivamente l’approccio strategico di Federico da quello di Napoleone? 2- È corretto attribuire a Clausewitz la contrapposizione tra concentrazione dell’attacco in vista della distruzione delle armate nemiche e manovra? E, correlatamente, tale distinzione può essere ricondotta alla duplice forma della guerra che fa la sua apparizione nell’avvertenza del 1827? 3- Posto che Clausewitz effettivamente riconosca un tipo di guerra in cui quello che, dentro lo schema della guerra assoluta, viene definito come naturale obiettivo dell’ostilità (cioè la sottomissione della volontà dell’avversario alla propria) non sia effettivamente raggiunto, è interessante chiedersi: quali circostanze giustificano l’abbandono di questo obiettivo senza per questo risultare dissonanti rispetto all’essenza della guerra?

L’approccio storico di Delbrück fa emergere subito le differenze più evidenti tra i due condottieri e capi di Stato. In primo luogo, il numero di combattenti schierati (l’esercito più vasto che Federico comandò nel 1757 nella guerra contro l’Austria era composto da meno di 100.000 soldati, Napoleone si affacciò in Russia nel 1812 con una marea di 467.000 coscritti). In secondo luogo, il profondo stravolgimento per ciò che concerne disciplina e addestramento, che comporta una significativa trasformazione dell’unità dello schieramento in sede tattica (dalla ferrea disciplina prussiana che si riflette sul campo nel dispiegamento di rigide linee coordinate come un sol uomo, si passa alla massa priva di addestramento degli eserciti rivoluzionari che sviluppano la loro azione distribuiti in profondità). Infine, il cambio di paradigma nel reclutamento e nell’organizzazione dell’apparato militare determina e condiziona radicalmente il modo di combattere. In Prussia la paura della diserzione escludeva la pratica delle confische che, al contrario, divennero la pratica consueta dell’esercito rivoluzionario, mentre la mancanza di disciplina degenerava abitualmente nel saccheggio. Usando la tattica lineare, Federico non aveva i mezzi per assediare un esercito nemico stanziato in una posizione ben difesa e nemmeno poteva cambiare posizione con una rapida marcia: diventava allora fondamentale la scelta del più consono terreno dove si svolgevano battaglie che, condotte in accordo alle tattiche tradizionali, poteva diventare proporzionalmente anche più sanguinosa dei massacri di epoca napoleonica.

Delbrück vuole inequivocabilmente evidenziare il fatto che l’assetto politico-istituzionale della vecchia monarchia prussiana, con la conseguente organizzazione dell’apparato militare, non è in grado di fornire risorse sufficienti per sottomettere la volontà dello Stato nemico attraverso il combattimento; infatti, anche dopo aver ottenuto una vittoria militarmente decisiva, non ne consegue la possibilità di distruggere la totalità delle forze armate nemiche, né l’occupazione della capitale e di gran parte delle province: diventa quindi impossibile imporre incondizionatamente la pace. Una strategia commisurata alle possibilità dell’epoca invita a prendere possesso di una provincia o di una zona dalla quale il nemico faticherà a respingere l’aggressore fuori dai propri confini e, confidando sull’esaurimento delle risorse economico-finanziarie dell’avversario, spingerlo ad accettare condizioni di pace favorevoli.

Il sistema delle monarchie emerse da Vestfalia, fino ai dispotismi illuminati che caratterizzano il Settecento, è contraddistinto quindi dalla dualità di battaglia e manovra quale mezzo militare per raggiungere il fine politico; al contrario, l’impostazione di Napoleone trova monistica espressione nella battaglia, come assoluto e incondizionato mezzo per imporre la pace all’avversario. Per manovra si intende tutti i mezzi con i quali è possibile ricavare un vantaggio sull’avversario senza combattere. Nonostante l’abilità guerriera del monarca prussiano, la battaglia nel suo senso assoluto e decisivo era comunque concepita come un mezzo disperato di salvezza da attuare in circostanze particolari(10). In definitiva, al netto di eventuali parzialità interpretative di Delbrück, in linea con la teoria clausewitziana, è corretto sostenere che una dottrina strategica non è mai storicamente separata dai mezzi a disposizione in una determinata epoca: la dottrina strategica di Federico differisce essenzialmente dalla dottrina di Napoleone.


La distinzione strategica di Delbrück ricalca effettivamente la duplice forma della guerra figurata da Clausewitz nell’avvertenza del 1827? I critici sostengono che le idee di Delbrück differiscano profondamente da quelle di Clausewitz, forse perché mal comprendono l’intreccio che lega teoria e storia nel pensiero di quest’ultimo. Semplificando, nella prospettiva di Clausewitz è considerabile manovra strategica l’insieme di azioni e movimenti dell’esercito che non sono direttamente finalizzati alla preparazione della battaglia decisiva in cui vi è massima concentrazione delle forze armate(11). Attraverso la manovra, sfruttando l’errore del nemico, si può prendere vantaggio. E se è indubbio il fatto che, nell’economia del Vom Kriege, il “manovrare” non abbia grande rilevanza, tuttavia non è errato segnalare come Clausewitz riconosca comunque a questa teoria dei piccoli vantaggi prodotti dalle piccole azioni che procedono per obiettivi militari minori una sua pregnanza nella misura in cui, generalmente, in guerra prevalgono scelte strategiche che conducono alla mutua osservazione armata piuttosto che alla distruzione del nemico.

Delbrück e Clausewitz condividono in tal senso la medesima prospettiva, radicata nell’evidenza storica: l’osservazione armata caratterizza mediamente l’andamento delle ostilità e limita significativamente l’obiettivo politico-militare; potremmo in qualche modo dire che l’osservazione armata è la forma storica in cui si realizza la definizione del secondo tipo di guerra (che porta con sé l’idea di una negoziazione e non un’imposizione della pace).

Ad ogni modo, ed è questo un altro punto dirimente, ogni guerra costituisce una totalità, un intero; ma esistono in tal senso due tipi di totalità: o questa è rappresentata da un unico evento decisivo oppure si dà nella somma consecutiva di risultati parziali; la prima possibilità è la forma che tangenzialmente si avvicina al limite del concetto di guerra assoluta, la seconda si realizza storicamente perché, nella guerra reale, l’istantaneità della decisione è sostituita dal tempo con il portato dei suoi attriti. L’importante è non cadere nella tentazione di confondere acriticamente i due tipi di guerra con i due tipi di strategia perdendo di vista la centralità dell’elemento politico che definisce e limita l’intenzione ostile oppure di sovrapporre impropriamente la prima forma di guerra (quella cioè finalizzata all’imposizione della pace) alla guerra assoluta come concetto astratto e trascendentale trans-storico (è sempre l’intelligenza politica, infatti, che osa realizzare la mediazione tra concetto e realtà: la decisione emerge proprio in ragione di una frattura, proprio perché non vi è necessità nella contingenza)(12): «from the political finality is derived the military objective. From the military objective is derived strategy since Clausewitz includes in strategy the whole conduct of the war»(13). La strategia viene chiaramente dopo, tanto in un senso gerarchico quanto cronologico.



E dunque, quali sono le circostanze che trasformano le guerre del primo tipo (con lo scopo politico dell’imposizione della pace mediante annichilimento dello Stato nemico e della sua volontà militare) in guerre del secondo tipo (con lo scopo politico della negoziazione di una pace favorevole mediante l’identificazione di obiettivi militari minimi)? In fondo, uno dei tanti fili rossi sciolto tra le pieghe del Vom Kriege, corrisponde proprio al tentativo di rispondere a questa domanda, approfondendo ogni volta vari aspetti che si rivelano comunque costitutivi della realtà inemendabile della guerra.

Nel secondo capitolo del Libro I, per esempio, Clausewitz, spiegando in maniera più concreta in cosa consiste lo scopo politico della guerra, fa emergere la resistenza della realtà come chiave di volta che conduce al cambio di rotta strategico. Partendo dal puro concetto della guerra, si tratta semplicemente di abbattere l’avversario, di renderlo impotente. Ma cosa significa concretamente rendere impotente uno Stato? Significa concentrare le forze contro tre obiettivi: 1- le forze armate avversarie devono essere ridotte a condizioni tali da non poter continuare la lotta; 2- il paese deve essere conquistato, perché altrimenti potrebbe formarvisi una nuova forza militare; 3- l’annichilimento della volontà del nemico è tale solo se il governo che guida lo Stato e i suoi alleati sono costretti alla sottomissione integrale o alla pace imposta(14). Da un punto di vista strategico, poiché la forza armata è destinata a proteggere il paese, diventa prioritaria la distruzione dell’esercito nemico: tale annichilimento porta con sé la graduale conquista od occupazione del paese e quindi le condizioni per l’imposizione della pace.

«Ma questo scopo della guerra ideale, questo mezzo estremo di conseguire lo scopo politico che deve comprendere tutti gli altri, e cioè la riduzione dell’avversario all’impotenza, non è in pratica sempre perseguito e non è nemmeno la condizione necessaria della pace; non può quindi essere innalzato a legge dalla teoria. (…) Di più, quando consideriamo i casi concreti, dobbiamo dirci che tutta una classe di questi non comporta l’idea di abbattere l’avversario che come vaga astrazione.

(…) Se la guerra fosse ciò che risulta dalla sua concezione astratta, una guerra sarebbe assurda tra Stati di potenza notevolmente differente, e perciò impossibile; (…) Se dunque abbiamo visto svolgersi guerre fra Stati di potenza ineguale, ciò proviene dal fatto che la guerra reale si allontana sovente assai dal suo concetto originario. Due cose si sostituiscono, nella realtà, come motivi di pace, alla impossibilità di continuare la resistenza; la prima è l’improbabilità del successo, la seconda, l’eccessivo prezzo che dovrebbe esser pagato per conseguirlo»(15).


Il passaggio dalla rigorosa legge che articola l’intima necessità del concetto alla realtà in cui decisivo è l’approccio probabilistico, determina il cambio di prospettiva rispetto alla guerra come strumento per ottenere la pace. Le resistenze e i rischi imposti dalla realtà comportano una rettifica delle decisioni politiche in vista della produzione di condizioni probabilistiche più favorevoli per addivenire alla pace(16). «Poiché la guerra non è un atto di passione cieca, anzi, lo scopo politico è in essa predominante, è il valore di questo scopo che deve servire di misura alla grandezza dei sacrifici cui siamo disposti ad assoggettarci. Ciò è applicabile tanto alla estensione che alla durata di essi. E, pertanto, appena il dispendio di forze diviene sì grande che il valore dello scopo politico non lo compensi più, tale scopo deve essere abbandonato, e deve conseguirne la pace. Si avverte, dunque, che nelle guerre in cui l’uno non può rendere l’altro definitivamente impotente, i motivi di pace cresceranno o diminuiranno presso ambo le parti a seconda della probabilità degli ulteriori risultati e del dispendio di forza necessario»(17).

A questo punto Clausewitz tematizza una serie di azioni militari alternative alla diretta distruzione delle forze armate nemiche con annessa occupazione del territorio, con l’obiettivo di spostare il favore del conflitto attraverso strategie “indirette” ma comunque finalizzate allo sfinimento della volontà militare dell’avversario (secondo un grado di efficacia probabilisticamente discendente): imprese che hanno una ripercussione politica e simbolica immediata (come la presa della capitale), operazioni finalizzate a creare scompiglio nella popolazione civile generando condizioni per avvicendamenti politici utili o atte a rompere le alleanze dell’avversario, procurandone all’offensore di nuove. Per aumentare, invece, il dispendio di energie del nemico, cioè il consumo della sua forza militare, Clausewitz delinea tre vie: l’invasione, cioè l’occupazione di province nemiche senza la volontà di conservarle, ma allo scopo di trarne contribuzioni di guerra od anche di devastarle; concentrazione tattica su obiettivi che accrescono il danno per il nemico; spossare l’avversario attraverso azioni che non prevedano grande dispiegamento di energia ma che, al contrario, con il fine di resistere più a lungo del nemico, limitino significativamente il loro obiettivo militare trovando un equilibrio tra intenzione positiva e persistenza.

Tra l’altro, il tema del puro consumo delle forze dell’avversario, esprime al massimo i vantaggi della difensiva strategica e copre la maggior parte dei casi in cui il più debole resiste al più forte. Nell’ottavo capitolo del Libro VIII dedicato alla difensiva relativamente al tema della guerra ad obiettivo limitato, Clausewitz nega che, anche in quel caso, l’obiettivo della difensiva possa esclusivamente essere quello di stancare l’avversario, cioè colui che conduce la guerra offensiva; piuttosto, in genere, le forze dell’attaccante consumano più energie di quelle del difensore: l’attacco s’allenterà se la difesa riuscirà a prolungarsi al punto che, dopo una vittoria tatticamente importante, i rapporti arriveranno a ribaltarsi anche dal punto di vista strategico. Ma se ciò non accade è il difensore che, essendo generalmente di forze inferiori, subirà proporzionalmente perdite superiori rispetto all’attaccante che nel frattempo potrebbe aver invaso e occupato parte del territorio e sottratto risorse strategiche. Clausewitz, tuttavia, non deduce da questa generalità il fatto che il lato rimasto sulla difensiva, esposto ai colpi dell’avversario, debba necessariamente soccombere esausto.

La vera posta in gioco per la difesa, lo abbiamo già visto nei capitoli precedenti del presente scritto, concerne il guadagnare tempo e, pertanto, l’attesa diviene la sua caratteristica essenziale. Certamente la stanchezza dell’offensore, la parte belligerante più forte, ha spesso portato alla pace ma ciò dipende soprattutto dalla palude in cui s’invischia l’intenzione ostile incapace di rinfocolare e mettere in forma il sentimento ostile e, di per sé, non giustifica razionalmente uno scopo esclusivamente negativo della difesa. L’attesa, invece, «implica la speranza di un mutamento delle circostanze, di un miglioramento futuro della situazione, che, se non può essere prodotto da elementi interni e cioè dalla resistenza stessa, può provenire se non dall’esterno, ossia da un mutamento dei rapporti politici con l’estero: e cioè, il difensore può contrarre nuove alleanze, o sperare che si sciolgano le antiche dirette contro di lui»(18): è da qui che accogliamo la potenziale vibrazione messianica contenuta nella figura del partigiano decostruita secondo una teoria alternativa a quella schmittiana.

Problematizzando la questione di un’ostilità priva di decisione militare, in cui vengono mobilitate solo le risorse necessarie per raggiungere obiettivi minimi (Delbrück, dando corpo all’antitesi battaglia/manovra, ha parlato di una “law of boldness” e di una “law of economic forces”), ritroviamo tutte le formule caratterizzanti la rivoluzione concettuale del Vom Kriege, nello specifico la guerra come strumento della politica e lo schema trinitario come modello comprensivo di tutte le sfumature intermedie della realtà, ma avendo inoltre guadagnato la prova che, per Clausewitz, resta decisivo l’affrontare il problema epistemologico di una teoria che trovi il suo valore pratico nel confronto con la storia(19).



Delbrück parla di una certa debolezza della volontà o della forza, causata da inadeguatezza della tecnologia militare e dallo svantaggio numerico, che induce alla transizione verso il secondo tipo di guerra. Anche Clausewitz non distingue rigorosamente tra le possibili cause della transizione e, di fatto, ci si trova di fronte ad un intreccio che tiene insieme mezzi militari (risorse strategiche, capacità tecnologiche e forze fisico-morali), relazione e disparità delle forze in campo e obiettivo militare commisurato allo scopo politico. Nel terzo capitolo del Libro VIII per Clausewitz sembrano preponderanti le condizioni storiche e le circostanze politiche (costituzione dello Stato perché il paradigma dell’ostilità dipende dal paradigma della sovranità, relazione tra governo e popolo, qualità e quantità delle truppe in relazione al sistema di coscrizione, addestramento e confisca delle risorse); la giustapposizione di Federico il Grande e Napoleone, in tal senso, si rivela utilissima proprio se accettiamo l’idea che il primo sia in certa misura precursore del secondo: «Durante il XVIII secolo, all’epoca cioè delle campagne slesiane, la guerra era ancora un affare che interessava il solo governo. La nazione vi partecipava solo come cieco strumento. Al principio del XIX secolo, invece, le nazioni pesarono esse stesse sul piatto della bilancia. I generali contrapposti a Federico il Grande agivano in virtù di un mandato ed erano, appunto per ciò, uomini in cui la circospezione era il tratto distintivo del carattere. L’avversario degli Austriaci e dei Prussiani invece, era, per dirla in modo conciso, il dio stesso della guerra»(20). Ma occorre evitare di cadere nell’errore speculare: così come la storia non riflette immediatamente la teoria, allo stesso modo la teoria non riflette immediatamente la storia. Ciò significa che sarebbe scorretto attribuire una forma della guerra specifica ad una determinata epoca; più stimolante è vedere invece come la trasformazione delle condizioni storico-politiche custodisca ogni volta una diversa declinazione della duplice forma della guerra che, pur mantenendo inalterato lo schema astratto della relazione tra guerra assoluta e guerra reale, si traduce concretamente in differenti possibilità strategiche e tattiche.

La guerra come strumento della politica diviene quindi il ponte che rende fluida la comunicazione tra storia e teoria, proprio perché solo la decisione politica con la formulazione di un’intenzione ostile commisurata alle possibilità concrete realizza la guerra nella sua evoluzione strategica. Nel sesto capitolo del Libro VIII, Clausewitz analizza il lato politico non più dal versante oggettivo (le condizioni storico-politiche dentro cui sorge il conflitto) ma da quello soggettivo: la definizione, cioè, del piano di guerra tanto partendo dalla valutazione intorno alla natura del conflitto quanto con la considerazione di altre determinazioni eterogenee (più tecnicamente militari o amministrative). Dalla politica che, semplicemente, condiziona la guerra, Clausewitz approda ad una definizione in cui la guerra è un linguaggio con una sua grammatica privo però di una logica propria, una scrittura che trova la sua sintassi e la sua composizione solo mediante l’espressione del pensiero politico(21). La guerra come continuazione della politica con altri mezzi è la formula che testimonia espressamente quanto non sia l’iniziale concezione della guerra assoluta a permettere la differente espressione storica delle guerre reali; se esiste un concetto che può sussumere tale eterogeneità questo è appunto il nucleo intrinsecamente politico della guerra. Il perfetto controcanto di questo cambio del centro di gravitazione della teoria è poi il nitore formale dello schema trinitario, il quale può per l’appunto spiegare tanto l’ascesa agli estremi quanto la discesa verso l’osservazione armata, perché, in fondo, è solo una questione di equilibrio tra i vertici dello “strano triedro”.

«Resta dunque solo a chiedersi, se, nei piani di guerra, il punto di vista politico debba cedere, cioè essere subordinato a quello puramente militare, oppure se debba conservare la propria supremazia, ponendo alle proprie dipendenze i piani militari. Si potrebbe concepire la scomparsa dal punto di vista politico coll’iniziarsi della guerra, soltanto se le guerre non fossero che lotte implacabili, mortali, generate dal solo concetto di ostilità. Ma, nel loro attuale concetto, esse non sono che manifestazioni della politica stessa (…) Sarebbe assurdo subordinare le vedute politiche al punto di vista militare, poiché la politica ha generato la guerra: essa è l’intelligenza, mentre la guerra non è che lo strumento; l’inverso urterebbe il buon senso. Non resta, dunque, che subordinare il punto di vista militare a quello politico»(22). Da tali questioni deriva tutto il problema dell’autonomia dello Stato maggiore durante le operazioni militari e la eventuale separazione tra Stato maggiore e vertice politico dello Stato, anche se, per Clausewitz, il tema pare veramente privo di increspature(23). L’essenza strumentale della guerra «confirm without leaving any doubt that historical circumstances and the ends of the belligerents determine the magnitude of effort or, as we might say today, the coefficient of mobilization and the relentlessness of the struggle. Still, the conditioning of of hostilities by the military instrument does not exclude a margin of freedom, evidenced by a Gustavus Adolphus or a Frederick»(24). Se ancora nel quinto capitolo del Libro VIII, la scelta dell’obiettivo limitato, che si oppone al naturale obiettivo della sottomissione dell’avversario, è spiegato da due circostanze, una oggettiva (la mancanza delle forze necessarie per tentare l’annichilimento dello Stato nemico) e una soggettiva (la mancanza di coraggio, quindi una mancanza di forze morali tanto del comandante quanto dell’esercito), con il settimo capitolo si torna a ribadire nel dettaglio le strutturali difficoltà dell’offensiva alla luce della rinnovata centralità dello scopo politico. Questo significa che il principio della distruzione delle forze armate nemiche come obiettivo primario smette per Clausewitz di essere predominante? No di certo. Ma cosa rimane delle conseguenze generali dedotte dal concetto e da cui prende piede la natura algebrica e astratta della guerra rispetto all’azione della politica che fissa obiettivi reali e decide in ultima istanza? Insomma, è come se, silenziosamente, emergesse una fondamentale divergenza, un’incompatibilità strutturale tra principio strategico dell’annichilimento del nemico e supremazia della politica(25).

Non è una cieca fede nel volontarismo politico quella di Clausewitz: piuttosto, la forma finale della sua teoria valorizza la consistenza della possibilità e della libertà di decisione come tratto essenziale della contingenza. Ma tale ribaltamento di prospettiva, in una modalità ormai ineludibile, obbliga la soggettività politico-storica all’ascolto, all’accoglienza, al riconoscimento della sua infinita responsabilità e il “politico” può così riacquistare quel significato relazionale da cui dipende, pur nell’eterna possibilità dello scontro, la realtà del convivere: «Se la guerra fa parte della politica, essa ne assumerà, naturalmente, il carattere. Ma appena questa politica diviene grandiosa e vigorosa, lo diviene anche la guerra, per assurgere fors’anche fino all’altezza in cui la guerra giunge alla sua forma assoluto»(26).




***


(1) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 66.

(2) Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. p. 38.

(3) «Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare, e la guerra sembra allontanarsi tanto più dalla politica, quanto maggiore è il suo carattere puramente bellico.

       Per converso, quanto più deboli sono i motivi e le tensioni, tanto meno la tendenza naturale dell’elemento guerra, e cioè la violenza, collimerà con la linea fondamentale indicata dalla politica: la guerra dovrà deviare dalla propria direzione naturale, lo scopo politico si allontanerà dall’obbiettivo di una guerra ideale, ed il carattere della guerra tenderà a divenire puramente politico.

Ad evitare errate concezioni, osserveremo, però, che quanto abbiamo chiamato tendenza naturale della guerra non lo è che dal punto di vista filosofico, o meglio logico, e non si riferisce affatto alla tendenza delle forze impegnate realmente in un conflitto, intese, ad esempio, come somma delle passioni ed emozioni dei combattenti. È vero che in certi casi questi potrebbero essere eccitate a tal punto da poterle a stento contenere nei limiti tracciati dal disegno politico: ma generalmente questo contrasto non si verifica, perché l’esistenza di tendenze così poderose implica anche quella di un piano grandioso, collimante con esse. Quando il piano non mira a grandi scopi, anche le tendenze delle forze spirituali delle masse saranno così deboli da richiedere che nelle masse si infonda un maggior impulso, anziché imporre loro un freno.», Ivi, cit. pp. 38-39.

(4) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 69.

(5) Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. pp. 40-41.

(6) La realtà della guerra diverge dal suo concetto fondamentale, tanto che potremmo mettere in dubbio l’utilità pratica della formalizzazione del suo concetto; ma Clausewitz è testimone di una nuova forma di scatenamento della violenza che, in qualche modo, impone l’urgenza di pensare una teoria che comprendesse anche la presenza del caso estremo: «Dopo un breve preludio, incarnantesi nella Rivoluzione francese, l’impetuoso Bonaparte l’ha prontamente elevata a quell’altezza. Sotto di lui la guerra ha sempre proseguito senza tregua fino all’abbattimento dell’avversario, e le reazioni hanno segnato anch’esse la medesima continuità. Non è forse naturale e indispensabile che questi fenomeni ci riconducano al concetto originario della guerra ed a tutte le sue rigorose conseguenze?

       Dobbiamo ora arrestarci a quest’idea, giudicare secondo essa tutte le guerre, qualunque sia la loro divergenza dal carattere assoluto, e dedurne tutte le conclusioni della teoria?

       È il momento di decidere su questo punto, poiché nulla possiamo dire, che abbia fondamento sul piano di guerra, prima di esserci messi d’accordo con noi stessi sulla questione di sapere se tale debba essere come sempre la guerra, o se possa anche essere differente.

       Se ci decidiamo nel primo senso, la nostra teoria si avvicinerà maggiormente in tutte le sue parti alla logica necessità: sarà pure chiara e nettamente definita. Ma che dire allora di tutte le guerre che, ad eccezione di quelle di Alessandro e di qualche campagna dei Romani, si sono combattute fino a Bonaparte?

Dovremmo respingerle in blocco come assurde; e, tuttavia, non potremmo farlo senza arrossire per la nostra presunzione. Ma v’ha di peggio: dovremmo dirci che fra una decina d’anni vi sarà forse nuovamente una guerra del genere, nonostante la nostra teoria, e che questa teoria, nonostante la sua forza logica, resta impotente di fronte alla potenza delle circostanze.», Ivi, cit. pp. 775-776.

(7) «Sono le ultime guerre che hanno reso possibile alla teoria di adempiere a questo compito in modo efficace. Senza questi esempi ammonitori della potenza distruttrice dell’elemento scatenato, la teoria griderebbe invano nel deserto (…) Si sarebbe arrischiata la Prussia, nel 1793, a penetrare in Francia con 70.000 uomini, se avesse potuto prevedere che, in caso d’insuccesso, la reazione sarebbe stata così forte da sconvolgere il vecchio equilibrio europeo? Avrebbe essa iniziato nel 1806 la guerra contro la Francia con 100.000 uomini, se avesse compreso che il primo colpo di pistola avrebbe comunicato alla mina la scintilla fatale destinata a farla esplodere?», Ivi, cit. p. 777.

(8) «Dobbiamo dunque, per esporre la guerra quale è, cercare di costruirla non già a mezzo di corollari desunti dalla sua definizione, ma lasciando un posto a tutti gli elementi estranei che in essa interferiscono, a tutti i pesi e gli attriti, a tutte le inconseguenze, le incertezze, le esitazioni proprie dello spirito umano. Dovremo orientarci nel senso di vedere nella guerra e nelle forme che essa riveste un prodotto che porta l’impronta delle idee, dei sentimenti e dei rapporti dominanti al momento della sua nascita. E anzi, se vogliamo essere del tutto nel vero, dobbiamo confessare che è stato così anche quando essa ha assunto, con Bonaparte, la sua forma assoluta.

Ammesso dunque che l’esistenza e la forma della guerra derivino non già da una perequazione finale degli innumerevoli rapporti da cui essa dipende, bensì da taluni fra questi che momentaneamente predominano, ne consegue ovviamente che la guerra si basa sopra un gioco di probabilità (…) in cui il rigore logico della deduzione viene spesso a perdersi e rappresenta solo uno strumento goffo ed incomodo dell’intelligenza. Se ne deduce anche che la guerra può essere più o meno “guerra”, che cioè essa ammette vari gradi di intensità.», Ivi, cit. pp. 776-777.

(9) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 69.

(10) «When reduced to the defensive, however, he operated quite differently from Napoleon who, in 1814, never ceased to join battle», Ivi, cit. p. 73.

(11) Clausewitz, nonostante abbia trattato del manovrare nel Libro VI dedicato alla difensiva, dice che la manovra strategica attiene primariamente all’offensiva. Il tema è svolto nel capitolo 13 del Libro VII: «2- Il manovrare non è in contrapposto con l’attuazione dell’attacco a viva forza mediante grandi combattimenti; ma, piuttosto, con ogni attuazione dell’attacco che derivi direttamente dai mezzi di cui il medesimo dispone, foss’anche un’azione contro le linee di comunicazione nemiche, contro la ritirata, una diversione ecc.

       3- Se ci atteniamo al linguaggio in uso, nel concetto del “manovrare” vi è un’efficacia che in certo qual modo scaturisce dal nulla e cioè dall’equilibrio solo per effetto degli errori ai quali si alletta il nemico. Sono movimenti iniziali di una partita a scacchi;

       (…) 4- Gli interessi che debbono essere considerati in tale gioco, in parte come scopo in parte come capisaldi della condotta dell’azione, sono principalmente: a. il vettovagliamento, che si cerca di impedire, o di limitare, all’avversario; b. la congiunzione con altri corpi; c. la minaccia contro altre comunicazione con l’interno del paese o con altri eserciti o corpi; d. la minaccia per la ritirata; e. l’attacco di singoli punti con forze superiori; (…) f. il risultato di una manovra ben impostata è in tal caso per l’attaccante, o per meglio dire, per la parte attiva (che può anche essere colui che si difende) un piccolo tratto di terreno, un magazzino ecc.; g. nella manovra strategica risultano due antitesi che hanno l’aspetto di diversa manovra e sono altresì state impiegate per indurre a falsi criteri e norme (…) La prima antitesi è fra l’avvolgere e l’agire per linee interne, la seconda è fra il tener riunite le forze e l’estendersi frazionandosi in molti piccoli gruppi (posti); h. circa la prima antitesi (…) l’avvolgimento è omogeneo con l’attacco, il mantenersi sulle linee interne è omogeneo con la difesa, e quindi perlopiù converrà maggiormente all’attaccante, il secondo al difensore (…); i. i termini della seconda antitesi non sono neppur essi subordinabili l’uno all’altro. Al più forte è consentito di estendersi su più posti; con ciò egli si procurerà, sotto parecchi punti di vista, una posizione ed un’azione strategica comode e risparmierà le energie delle sue truppe. Il più debole deve tenersi maggiormente concentrato e cercar di impedire, mediante il movimento, i danni che altrimenti gliene deriverebbero (…); l. (…) dobbiamo anche ammonire dall’attribuire ad altre condizioni generali (ad esempio la base, il terreno ecc.) un’importanza ed un’influenza decisiva che in realtà non possiedono.

(…) Siamo convinti che per manovrare non esiste alcuna specie di regola; che nessuna norma generale può determinare il modo di agire; che invece l’attività ponderata, la precisione, l’ordine, l’obbedienza, l’impavidità nelle circostanze più specifiche e più minute, possono trovare i mezzi per procurarsi sensibili vantaggi: e che, perciò, la vittoria in questa gara dipenderà soprattutto dai fattori or ora elencati.», Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. pp. 724-725-726.

(12) Lo ribadisce espressamente Clausewitz parlando dell’intima struttura della guerra nel terzo capitolo del Libro VIII: «La prima concezione attinge la propria verità dall’ordine naturale delle cose: ma la storia dimostra che anche la seconda è vera. Vi sono casi innumerevoli in cui si è raggiunto qualche vantaggio moderato senza che si fosse urtato in condizioni ostacolanti. Quanto più mitigata è la violenza originaria dell’atto di guerra, tanto più frequenti sono questi casi; ma se è vero che la prima concezione non si realizza mai integralmente in guerra, è anche vero che non esiste guerra in cui la seconda sarebbe esclusivamente applicabile astraendo dalla prima.

Se ci atteniamo al primo concetto, ne dedurremo la logica necessità che la guerra venga concepita soprattutto nel suo insieme, fin da principio, e che, già nel fare il primo passo in avanti, il condottiero abbia di mira lo scopo verso il quale convergono tutte le linee fondamentali. Se invece mettiamo anche il secondo, ci sarà consentito di conseguire qualche vantaggio per amor del suo valore intrinseco, e di abbandonare il resto alle eventualità avvenire», Ivi, cit. p. 779.

(13) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 77.

(14) Sempre ricordando che «pur essendo in pieno possesso del paese, la lotta può riaccendersi all’interno, oppure per il soccorso di alleati. È vero che altrettanto può avvenire anche dopo la pace; ma ciò prova solo che non tutte le guerre comportano una soluzione ed una liquidazione completa. Anche però in questo caso la conclusione della pace spegne sempre un gran numero di faville (…) e calma le tensioni, perché tutti i partigiani della pace, numerosi in ogni nazione ed in ogni circostanza, si discostano, in conseguenza, completamente dal concetto di resistere», Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. p. 43.

(15) Ivi, cit. pp. 43-44.

(16) «La guerra non ha dunque bisogno di essere perseguita fino all’atterramento dell’avversario; si può anzi concepire che, nei casi in cui moventi e tensione sono molto deboli, anche una leggera probabilità appena delineatesi in favore di una delle parti basti per decidere l’altra a cedere. Se la prima ha l’esatta percezione di ciò, è naturale che cerchi semplicemente di produrre la probabilità in questione, senza percorrere tutto il cammino necessario al completo atterramento della potenza nemica», Ivi, cit. p. 44.

(17) Ivi, cit. p. 45.

(18) Ivi, cit. p. 825. L’atteggiamento tattico del difensore è dirimente per concretizzare il vantaggio della difensiva strategica: «Quando il difensore non è assolutamente troppo debole, egli può, senza deviare dal suo sistema di difesa, farvi entrare piccole imprese offensive non miranti ad un possesso definitivo, ma ad ottenere vantaggi provvisori, che fanno guadagnare margine per ulteriori perdite che preveda: incursioni, diversioni, imprese contro piazzeforti.

Ma (…) quando uno scopo positivo è già insito nella difesa, essa assume un carattere maggiormente positivo; e tanto maggiormente positivo, quanto più le circostanze permettono una reazione più potente. (…) quanto più la difensiva è stata liberamente scelta per meglio assicurare i primi colpi, tanto più essa può tendere audaci imboscate all’attaccante.

Il mezzo più audace, ed in pari tempo più efficace, quando riesce, è la ritirata nell’interno del paese.», Ivi, cit. p. 826.

(19) «My defence and explanation of Delbrück, who was condemned by all german critics who prided themselves on their philosophy, is intended quite simply to show that Delbrück discovered, by historical study, ideas which Clausewitz reached at the end of his life, probably also by reflecting on history. Furthermore, they analysed the same historical cases, the one to elaborate the concept of the strategy of attrition and the other to elaborate the notion of the second type of war. Even if Frederick II, as a war leader, assumes the role of precursor of Napoleon in Clausewitz’s eyes, the latter brings out the details of the wars of the second type by taking as an example the conflicts of the eighteenth century. It is not surprising, then, that the two men, as historians, lead in different languages to neighbouring conclusions.», Raymond Aron, Op. cit., cit. p. 79.

(20) Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. p. 780. Didascalicamente, Clausewitz ribadisce: «La teoria esige dunque che il carattere e i contorni generali di ogni guerra siano afferrati preventivamente, secondo le probabilità che corrispondono alle grandezze ed ai rapporti politici. Quanto maggiormente queste probabilità ravvicinano la guerra al carattere assoluto, tanto più i contorni tendono a comprendere l’intera massa degli Stati belligeranti per attrarla nel turbine, e tanto più intima diviene la connessione fra gli avvenimenti: ma tanto più anche diverrà necessario non fare il primo passo senza pensare all’ultimo», Ivi, cit. p. 781.

(21) «La politica, servendosi della guerra, evita tutte le conclusioni rigorose che l’essenza di questa comporterebbe. Essa si preoccupa poco delle eventualità finali, e si attiene soltanto alle probabilità immediate», Ivi cit. p. 812.

(22) Ivi, p. 814.

(23) «(…) è una distinzione inammissibile ed anche nociva il volere che un grande avvenimento militare, o il progetto di una grande operazione, siano sottoposti ad una valutazione puramente militare. Anzi, è procedimento contrastante col buon senso il chiamare a consiglio capi militari nel concretar piani di guerra affinché essi esprimano un apprezzamento puramente militare su ciò che i governi debbono fare», Ivi, cit. p. 815.

(24) Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. pp. 81-82.

(25) «The supremacy of policy also teaches us not to indulge in logical reveries, not to confuse the abstract necessity of a rise to extremes with an imperative for action. (…) Does not the survival of the system of european states prove the possibility of this accord? The war which ends without either of the belligerents being overthrown, the most frequent in history, finally appears normal only on condition that the adversaries know each other and know approximately what they have to fear and hope for each other. Did Clausewitz, at the end of his life, also fear errors due to excess?», Raymond Aron, Clausewitz, philosopher of war, cit. p. 84.

(26) Karl Von Clausewitz, Op. cit., cit. pp. 812-813.



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