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Zerocalcare, sì, ma... | Una critica a 'Strappare lungo i bordi'

Aggiornamento: 20 giu 2022



Inizialmente non volevo vederla. Dopotutto, se ne parlano tutti, significa che non va vista, giusto? Alla fine, però, ho visto Strappare lungo i bordi di Zerocalcare. E mi è piaciuta. Ho riso un sacco e mi sono commosso alla fine. Ovviamente, a questo godimento ha contribuito un’identificazione piuttosto forte con il protagonista e, più tangenzialmente, con la sua generazione (con qualche differenza: primo, io ai tempi ero ancora più sfigato; secondo, per me non sarebbe stato un problema ordinare e mangiare entrambe le pizze).


Quindi , mi è piaciuta. Ma, subito dopo averla vista, devo aver iniziato a pensare, inconsciamente: “Cioè, ‘sto Zerocalcare ha avuto molto più successo di me nella vita (ad oggi), e ora viene pure a farmi la morale e ad insegnarmi come si vive… eh no, cor cazzo!”. Iniziava dunque a montare un verde risentimento, e con esso (prima o dopo?) alcuni forti dubbi sulla serie e sul suo sottotesto. È bastato poi un rapido confronto con i fidati colleghi Mattia Carbone e Matteo Bisoni per farmi forte del loro consenso. E alla fine eccomi qui, a fare la contromorale.



Cerco di arrivare subito al punto, anche se non è facile, perché su certi argomenti possono mancare le parole e perché la serie di Zerocalcare è ben congegnata. Partiamo dal significato banalotto, esplicito e commerciale della serie, che possiamo evincere già dal titolo. Si tratta, in fin dei conti, del solito slogan che lampeggia nelle canzoni dei Måneskin – tiro a indovinare, eh! – e, ironia della sorte, nei terribili post dei boomer su Facebook: non farti dire da nessuno come devi essere. Il che, se si vuole prendere un po’ sul serio il messaggio, equivale a dire: non avere modelli, persone da imitare, sii te stess*.


Strappare lungo i bordi significa curarsi ossessivamente di aderire a un’immagine preimpostata. Preimpostata da chi? I genitori, la società, gli influencer, il Super-Io, tizi random, non importa. Il protagonista della serie ha così paura di strappare, di errare nella sua crescita, nel suo processo di adesione a un qualcosa di nuovo, di altro, che finisce per tenersi in mano, per anni, un foglietto che va deteriorandosi. La forma del foglietto sarebbe insomma il nostro io ideale, che vorremmo il più simile possibile a un nostro modello.


Il sugo della storia è allora un invito a fregarsene della forma[1], dei modelli, dell’ossessione per le aspettative altrui. I tre personaggi, nell'ultimo episodio, buttano i loro foglietti nel fuoco e si scaldano. Si scaldano, forse, perché rincuorati dall’aver saputo rinunciare a un pezzo di carta umidiccio, si scaldano, forse, anche perché riconoscono al proprio fianco la presenza di altri "falliti" che non ce l’hanno fatta a strappare bene lungo il bordo. Insomma, tutti ‘sti foglietti bruciati scaldano, e questo qualche volta basta (o ce lo si fa bastare), e qualche volta no (come nel caso di Alice). Altre volte ancora – immaginiamo – il fuoco non si riesce nemmeno ad accenderlo.


Ora, abbiamo detto che “strappare lungo i bordi” significa sforzarsi di far aderire sé stessi a un modello. Buttare il foglietto sagomato nel fuoco avrà allora un significato abbastanza eloquente. Ma in tutto ciò non si perde qualcosa? Il punto della mia critica è precisamente il seguente: dove sono le relazioni in questa serie? Ci sono relazioni tra i personaggi? In qualche senso , ovvio. Ma, forse, in un altro senso no. Quello che non mi sta bene della serie è proprio questo: tra le righe troviamo – ancora una maledetta volta – la solita vecchia lode dell’individuo romantico (romantico in senso girardiano, ovviamente). La lotta ai modelli e ai bordi tratteggiati diventa, sotto sotto, a ben vedere, lotta alla relazione, all’incontro.


Si tratta di un romanticismo decadentista, certo, ma in fondo sempre di romanticismo si tratta. Il sottotesto è un’esaltazione, poco esaltante, di un individualismo venato di nichilismo. Un nichilismo, anche qui, criptato e strisciante. Diceva Bisoni che questo nichilismo andrebbe anche bene, potrebbe essere anche abbracciato e apprezzato, a patto però che non lo si camuffi e non lo si mascheri come viene fatto in questa serie.



Sarò più chiaro considerando due esempi. Iniziamo dalla relazione Secco/Zero. Ebbene, riflettendoci un attimo, riassaporando le varie scene della serie, una volta scemate ed esaurite le risate, potremmo sentire un retrogusto amaro. Non vi colpisce la superficialità assoluta delle interazioni tra i due? E ma – direte – ci sarà un qualche legame profondo. Ma dove esattamente? Cos’è che viene rappresentato? Perché effettivamente il rapporto Secco/Zero sembra funzionare, in qualche strano modo; è in grado di perdurare: i due continuano a vedersi e a frequentarsi negli anni. Ma in che modo funziona? Ecco, credo che dalla narrazione si possa evincere una sorta di attrazione che spinge il protagonista verso Secco. Paradossalmente, nella sua ripugnanza abissale – perché Secco è oggettivamente ripugnante –, Secco è campione mondiale di snobismo, di indifferenza, disciplina in cui vediamo il protagonista esercitarsi duramente per anni. Cos’è la “guerra di trincea” con Alice se non questo? Cos’è se non ostentazione di indipendenza, di alterità, di autosufficienza del proprio desiderio? Tutto ciò viene denunciato, in maniera chiara e brillante, nella relazione con Alice, ma passa sotto silenzio nel rapporto con Secco. Zero è attratto da Secco perché gli offre un esempio di narcisismo e di chiusura su di sé. Ahi, che dolori: il modello, buttato fuori dalla porta, è rientrato nottetempo dalla finestra. Ma è questa amicizia? È questa relazione? O non è piuttosto una forma di negazione della relazione?


Passiamo ora ad Alice e, in particolare, al momento clou della serie: il suicidio di lei e le reazioni che innesca nel protagonista. Abbiamo tutti trovato condivisibile il discorso dei genitori: la nostra Alice non è una suicida depressa, non vi permettete di ritagliare la sua forma per lei, non impilate la sua vita sotto una delle vostre etichette. Ci sta. Il discorso che farebbe da contraltare, immaginiamo, sarebbe quello bigotto e moralista che demonizza il suicidio e che vede a tutti i costi nel suicida un debole e un anormale che aveva bisogno di aiuto. Anche il protagonista sembra condividere le parole dei genitori, ma è, ciononostante (altrettanto comprensibilmente), assalito dai sensi di colpa: dov’ero io? Perché l’ha fatto? Avrei potuto aiutarla? Avessi agito così sarebbe andata diversamente?


Eppure, anche qui, la leggerezza e la superficialità di questi sensi di colpa, il loro tratto paranoide ed “egoista”, sono rapidamente svelati. L’intervento della "saggia" Sarah non cancella certo la tristezza e il dolore, ma apre la strada alla comprensione, alla cicatrizzazione. Zero – ripete Sarah –, accetta di essere un filo d’erba in un prato. Alice ha fatto la sua scelta, così complessa e insondabile, che c’è, e c’era, poco da fare. Qui però dovremmo chiederci: che cos’è che sta accettando esattamente il protagonista? Non si tratta forse dell’assoluta indipendenza dell’altro e dall’altro (ossia Alice)? Non si sta forse accettando l’impossibilità della relazione come orizzonte generale dell’esistenza?


Iniziano a mancarmi le parole, damn it, lo intuite dal filosofichese. Per fortuna, però, mi viene in soccorso un recente capolavoro dell’animazione giapponese: La forma della voce. Guardatelo su Netflix. I temi e le situazioni sono simili a quelli di Strappare lungo i bordi: amori giovanili, incomunicabilità, suicidio, sensi di colpa. Ma lì troverete altro, o mi auguro che lo troviate. Lì non c’è l’appiattimento sulla negazione della relazione, che, certo, può risultare in qualche modo tranquillizzante (o narcotizzante?). Lì c’è alternativa. C’è la possibilità di salvarsi, di salvare e di essere salvati. E non è violenza, non è moralismo, non è idealismo, non è invasività, non è arroganza, è salvezza. Ed è incontro.




In Strappare lungo i bordi questo manca. Ma non è tanto questo che mi “infastidisce”, e che forse mi addolora. Mi infastidisce la soluzione mezza consolatoria con cui la serie sembra lasciarci. Alice è andata, e lasciala andare (ma si può lasciare andare via senza relazione?). Brucia il foglietto, rinuncia ai modelli, ai dolori della mediazione (sacrificando anche la relazione) e scaldati. Ma, ma… Cazzo, anche una scorreggia sotto le coperte può scaldare. Anche del piscio tiepido potrebbe dissetare e può far crescere un filo d’erba. Ma noi di cosa abbiamo veramente sete?


Parafrasando un narratore dostoevskiano, potremmo dire che l’inferno è credere di essere soli e che gli altri sono tutti. Nella serie di Zerocalcare viene criticata e decostruita la seconda parte, ‘gli altri sono tutti’, ma si abbraccia – ed è un abbraccio stretto e sigillato – la prima parte della menzogna, ‘io sono solo’. Aggiungendo una pizzico di consapevolezza al motto del sottosuolo[2], potremmo allora dire che il vero inferno è essere all’inferno credendo però di essere altrove.


Se non si riconosce l’inferno nel deserto relazionale di Strappare lungo i bordi, vuol dire che siamo all’inferno. E questa non è colpa di Calcare. Voglio spezzare una lancia in suo favore: la serie è comunque timida e delicata. Forse non ci sta dicendo davvero che scaldarsi davanti a un bidone è il paradiso. A esser problematico è tutto il cicaleccio mimetico e l’entusiasmo troppo entusiasta che ha avvolto la serie. Capolavoro, fantastica! Tutto ciò è emblematico del grande vuoto culturale, e assieme “esistenziale”, che domina nella nostra società. Zerocalcare, forse, non ha colpe (solo benefici, economici).


Ma un fondo di dolore, forse, nella serie permane. Rimescolando la tiepida minestra, forse, qualche pezzetto di dolore vero lo si può intravedere. Si pensi alla voce metallica di Alice, che fa male e che continua a far male. Sarà quel dolore che ci chiama a una salvezza? Ma allora "lasciar andare", accettare l’irriducibile individualità dell’altro, suona come una scusa per rinchiudersi meglio in sé stessi. Vai a riprendere Alice, Zero. Come ha fatto Dante con Beatrice, come ha fatto Leonte con Ermione ne Il racconto d’inverno, o come almeno ha cercato di fare - e Zerocalcare lo dovrebbe sapere, visto che lo cita - Dale Cooper con Laura Palmer. Non restare all’inferno.


“È inutile che vivi fuori se muori dentro”. È la scritta sul muro che apre il primo episodio. Ma cosa vuol dire 'vivere dentro'? Qui, se vi interessa il tema, trovate la risposta di William Shakespeare, Akira Kurosawa (Calcare, con simpatia, spostate un poco) e dei Vangeli.


*****


[1] L’Eidos di antica memoria.

[2] R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, p. 224.

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