L'insegnamento di don Milani | 'Al prete ignoto' di Giuseppe Fornari
- Gruppo Studi Girard
- 19 lug
- Tempo di lettura: 6 min
Confesso che prima di leggere Al prete ignoto. L’ecclesiologia implicita di don Lorenzo Milani, scritto da Giuseppe Fornari ed edito per Studium Edizioni, non mi ero mai avvicinato alla figura di don Milani. Ho probabilmente incontrato qualche resistenza dovuta a quell’immagine da santino progressista – che Fornari smonta a più riprese –, e più ancora all’effettiva parabola di vita di don Milani. Il membro di una famiglia borghese che, beffando ogni aspettativa, dedica la sua vita a Dio e ai poveri, rappresenta un severo indice puntato contro chi decide di seguire la “vocazione” dell’insegnamento della filosofia, una strada che prova a tenere legati sia la ricerca dell’astratto e del trascendente (la filosofia), sia il concreto incontro con l’altro (l’insegnamento). Il testo in questione non delude l’aspettativa, raccontando di un cammino che risulta difficile sia da imitare sia da conciliare con compromessi di sorta.

In apertura, affrontando di petto il problema del rapporto tra vita e scrittura biografica, Fornari mostra con maestria come letteratura e vita possano illuminarsi a vicenda. L’evento cruciale della vita di don Milani, la sua conversione, è introdotto dalle pagine manzoniane sulla conversione dell’Innominato, “cuore e chiave di volta de I promessi sposi” (p. 19). L’autore, confrontandosi con altre ipotesi che tentano di spiegare la scelta di Lorenzo Milani di farsi prete, argomenta in maniera convincente come quel “Io prenderò il suo posto” (p. 21 e seguenti), che Lorenzo avrebbe detto davanti a un giovane prete morto, è capace di rivelare l’esperienza cristiana fondamentale.
Il testo, proseguendo la lettura, si rivela certamente più godibile per chi ha qualche dimestichezza con autori quali Bataille, Girard e Vygotskij, anche se possiamo dire che merita l’attenzione in generale di insegnanti, educatori e preti. Io ho letto il libro proprio durante le settimane di frequenza del nuovo percorso di abilitazione per insegnanti previsto dal Ministero. Ad appassionarmi e interrogarmi particolarmente sono stati quindi quei passaggi del testo in cui emerge il don Milani docente, con la sua concezione della cultura, della scuola e del rapporto con i giovani.
A tal proposito è facile notare come la pedagogia contemporanea, la cui frequentazione e “conoscenza” diventa oggi sempre più una conditio sine qua non per l’esercizio della professione docente, si scontra clamorosamente con diversi punti irrinunciabili della pedagogia milaniana. E se questo può sembrare bizzarro, visto che alla pedagogia italiana hanno contribuito in larga misura studiosi e docenti cattolici, Fornari spiega come la teologia e l’ecclesiologia di Milani siano in forte contrapposizione con quel Concilio Vaticano II che ha segnato la storia recente della Chiesa cattolica.
Uno dei mantra più ricorrenti nella formazione pedagogica odierna è la necessità di mettere lo studente al centro, da qui lo shift dalla didattica all’apprendimento. Notiamo di passaggio che, per coloro che hanno ruminato a lungo sulla teoria mimetica di Girard – come Fornari e chi scrive su questo blog – ,“l’essere al centro” non è necessariamente una condizione favorevole ed auspicabile (anzi): se sei al centro vuol dire che sei accerchiato. Può inoltre venire il sospetto che dietro quelle didattiche innovative che tendono alla marginalizzazione del ruolo del docente si nasconda in realtà una rinuncia – almeno come effetto collaterale, se non proprio come progetto – a una relazione che qualcuno su questo blog ha denominato di maestria.

Anche il cosiddetto passaggio dalle conoscenze alle competenze può esser meglio compreso a partire dal testo di Fornari. Per don Milani “l’apprendimento è efficace e ha valore realmente educativo […], allorché ha significato e interesse in se stesso, e non perché subordinato a scopi estranei come il guadagno, il prestigio, la visibilità, la carriera” (p. 99). Mi è capitato, partecipando ad alcuni consigli di classe, di notare che una premessa su cui oggi concordano docenti, alunni, genitori, dirigenti – quasi fosse una sorta di totem con cui stancamente si tenta di rifondare un’armonia tra le parti – sia la natura strumentale dell’istruzione e della scuola. La scuola serve per, prepara a. Questa tesi, in combinato disposto con la natura mondana delle finalità che di volta in volta vengono indicate, annulla necessariamente la dimensione della trascendenza su cui don Milani e Fornari insistono a più riprese. Secondo loro – e chi scrive non può che concordare – il sapere è importante per sé. Negare ciò significa abbandonarsi a un relativismo a priori, che finisce per soffocare pensiero e intelletto.
Altro punto che mi sembra sfugga completamente alla pedagogia odierna è la dimensione erotico/amorosa che quasi fatalmente, anche se in forme imprevedibili, si instaura nell’insegnamento. “Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani molto più che la Chiesa e il Papa?”, sbotta don Milani in una lettera a un amico giornalista. “Eccoti dunque il mio pensiero: la scuola non può esser che aconfessionale e non può esser fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo stato)” (p. 79).
Amore che non ha però, ça va sans dire, quale fine ultimo il conchiudersi in una realizzazione diretta, terrena e immediata. L’amore del docente, dell’educatore, apre a una serie di mediazioni (di triangoli) che attendono solo di esser messe in moto. Tra lo studente e il docente ci sono quindi di mezzo i benedetti contenuti: c’è la poesia di Leopardi, il teorema di Euclide, la storia, l’arte, etc. Data la natura imitativa del desiderio umano, l’introduzione di un terzo (le materie di studio, ma anche i grandi del passato: letterati, scienziati e personaggi storici), funge da catalizzatore capace di aumentare esponenzialmente la forza e il numero di forme possibili del desiderio degli studenti. E non importa stabilire fin dall’inizio cosa ci sia alla fine della catena (spoiler: per Milani e Fornari l’ultimo gradino è la mediazione d’amore di Gesù Cristo). È quindi attraverso il “contenuto didattico” che docente e studente possono entrare in relazione. Mi sembra invece che lo slogan “lo studente al centro” rischi di ridursi alla desolante immagine di uno studente abbandonato di fronte a uno specchio; e dovremmo ricordarci quanto possa essere scomodo guardarsi allo specchio durante l’adolescenza. Va del resto notato che il vertice più alto del triangolo relazionale, rappresentato appunto dai contenuti (la letteratura, le scienze, etc.), può comunque poi ribaltarsi, dato che la configurazione geometrica dei desideri non è affatto statica e anzi modifica lo spazio in cui prendono forma queste relazioni.

La quarta parte del testo, intitolata La Rivoluzione cristiana, è infine dedicata al don Milani più politico. Nonostante queste pagine contengano lucidi affreschi sulla storia d’Italia, ho trovato qui alcuni passaggi meno convincenti. La possibilità di “rimettere insieme i due fattori giusti della fede e della rivoluzione” (p. 153) appare sempre più lontana. I giovani contadini di Barbiana non rappresentano l’utenza media delle istituzioni scolastiche. Certo, non la rappresentavano neanche negli anni ’60, ma non possiamo ignorare significativi cambiamenti intercorsi da allora: l’insegnante non è più, o è sempre meno, un membro della borghesia; l’immigrazione ha modificato il comune sostrato culturale di studenti e famiglie; scuola e politica sono ora nettamente più distanti. L’autore ne è certo consapevole, ma mi pare che il suo tentativo di “tenere assieme” cristianesimo e politica presenti alcune pecche. La formula del servire gli ultimi sembra, a prima vista, poter conciliare una politica sociale progressista con la confessione cattolica, ma il risultato è concretamente perdente in un momento in cui l’astuzia della ragione politica dovrebbe suggerire di rivolgersi invece a penultimi e terzultimi. È chiaro che venire incontro a penultimi e terzultimi non deve tradursi e ridursi in un flagellamento, retorico e non solo, a danno degli ultimi; che è spesso il modus operandi di certa destra, in Italia e non solo. Le cosiddette “strette sulla sicurezza” affiancate dai tagli alle misure di tutela dei più fragili (si pensi alla fine del reddito di cittadinanza), offrono al più e ai più un effetto placebo. Al contrario, perseguire attivamente gli interessi del ceto medio potrebbe essere il modo migliore per rilanciare il sistema Paese nel suo complesso.
Questa astuzia della ragion politica si addice a un prete? Probabilmente no, ma un altro discorso dovrebbe valere per intellettuali e politici. Di certo don Milani non rievoca le fattezze della volpe machiavelliana. E per fortuna. Grazie a lui e grazie al testo qui in esame, abbiamo infatti la possibilità di fare i conti, almeno noi insegnanti ed educatori, con questa scomoda figura che ci ricorda che, per quanto difficile, è davvero possibile volare alto. E a proposito del volo, arriviamo alla chiusura del testo, in cui l’Autore, con tocco geniale, sceglie di lasciarci con delle righe su un prete che, nell’immaginario collettivo, pare la cosa più lontana possibile da don Milani: il don Abbondio di Manzoni, il pulcino stretto negli artigli del falco. Insomma, possiamo, come don Milani, aspettarci tanto da noi, ma sempre ricordandoci di voler bene al don Abbondio che alberga in chi ci sta vicino e, soprattutto, in noi stessi.
Comentarios