“Tiger King” è una docuserie Netflix incentrata sulle bizzarre vicende di Joe Exotic, un redneck omosessuale poligamo proprietario di uno zoo illegale nell’Oklahoma che, dopo essersi candidato alle elezioni presidenziali del 2016 e a quelle per il governatorato del suo stato, commissiona l’omicidio di un’animalista sua rivale e proprietaria di zoo, Carole Baskin, e viene per questo incarcerato. Si direbbe la trama di un film dei fratelli Coen, ma è successo davvero. La notizia ci coglie forse senza troppa perplessità – ancora legittima ai tempi di Pirandello, che della povertà dell’invenzione a cospetto della realtà si lamentava con accenti che oggi diremmo retorici, fuori tempo massimo nel secolo che ha conosciuto il Tiger King. La Land of the Free è il paese che, nello stesso anno in cui Joe Exotic si candida alle presidenziali, consegna il potere nelle mani del più improbabile e fumettistico presidente della sua storia, pallido doppelganger dello stesso Tiger King. Che i vari Coen, David Lynch, Thomas Pynchon, David Foster Wallace – ma anche i Matt Groening, i Seth McFarlane, gli innumeri profeti “minori” del tardo Secolo americano – a furia di rappresentarci un’America improbabile, assurda, governata da inverosimili agenti del nonsenso, siano riusciti ad abolire la barriera che separa la messinscena apotropaica dalla profezia che si autoavvera?
Gli Stati Uniti di oggi sono un difforme e metastatico impero in decomposizione, nei cui ultimi figli si incarna la malattia dello spirito della nazione molto più chiaramente che in qualsiasi trattato di sociologia o storia contemporanea. Joe Exotic, in particolare, è per chi scrive il paradigma perfetto dell’ultimo yankee, la versione infera e pagliaccesca di quell’altro grande americano delle origini che fu invece Daniel Plainview, protagonista de “Il petroliere” di P.T. Anderson, per il quale rimando a un altro mio articolo. Il paragone “esotico”, se si consente, merita alcune precisazioni.
Joe Exotic è l’eroe antifrastico della grande epica imperiale americana, quasi una versione comica del Giulio Cesare che il Lucano del Bellum civile contrappose all’Enea virgiliano. Su che base? Si consideri innanzitutto l’identità spirituale dei due personaggi: Daniel Plainview e Joe Exotic sono due imprenditori, per così dire, ma soprattutto due accumulatori seriali. La celebre catchphrase di Plainview (“Perché questo non è mio?”) si applica tanto bene ai pozzi di petrolio quanto ai cuccioli di tigre, di cui Joe Exotic è un accanito collezionista – 176 esemplari, stando a Netflix. Le inquadrature della docuserie rendono giustizia a questa bulimia del “cucciolo” Joe, come mi viene da chiamarlo affettuosamente, per un’invincibile umana empatia che mi suscita. Tiger King si offre agli sguardi anonimi della collettività – ovunque esista un palcoscenico per la sua gloria – sempre attorniato dalle sue cose, dagli oggetti che lo rappresentano e lo risolvono, quasi, nella quiete estatica di un’icona ortodossa: Joe con le sue armi, Joe con i suoi cuccioli di tigre, Joe con i suoi mariti (poligamo a imitazione dell’impagabile Doc Antle, suo mentore e modello di vita). Quando un imprenditore televisivo gli propone un reality show sulla sua storia e realizza alcune riprese, Joe passa le notti a guardare in loop le scene che lo ritraggono assiso sopra un trono e vestito di un mantello rosso – eccolo lì, il Tiger King.
Daniel Plainview, protagonista del film di Anderson, non ha mai ceduto alla seduzione dell’immagine di sé per il semplice fatto che i mass media, a cavallo tra XIX e XX secolo, non avevano ancora compiuto il loro percorso destinale di armi sacre di quell’individualismo totalitario che è l’ingrediente principale del sogno americano. Plainview ha dei rivali, li annienta in campo aperto e sulle loro spoglie edifica la propria gloria – perché non ha altre strade per farlo. Nel 2020 sarebbe identicamente morto da solo nella sua villa, forse ancora facendo a pezzi il suo rivale – un Paul Dano youtuber e mental coach, o perché no, animalista della PETA – ma almeno avrebbe goduto il balsamo consolatorio della diretta Facebook – e non avrebbe detto, poco prima dei titoli di coda, “I’m finished”, non lo avrebbe detto finché fosse esistito un solo iscritto al suo canale di streaming.
Joe Exotic invece è un pasticcione, non capisce bene cosa gli stia succedendo, fa un errore dopo l’altro perché la realtà non è il campo in cui si gioca la sua partita. Tiger King è un eroe virtuale – il playable character di un videogioco picchiaduro, un cartoncino vivificato della scuderia di “South Park” – ma di quella virtualità che tracima nella realtà, e che sul lungo periodo tradurrà il proprio destino di capro espiatorio imperfetto, non ancora finished, in un gran finale da “re per una notte”, da idolo americano usa-e-getta, come già lascia supporre la recente dichiarazione di Donald Trump che, alla domanda di un giornalista, ha promesso di valutare se concedergli la grazia presidenziale (1). È successo davvero, signore e signori, questo non è il sogno di Joe Exotic… O forse lo è? Torna come monito inquietante la battuta di Gordon Cole / David Lynch negli ultimi episodi di Twin Peaks The Return: “Who is the dreamer?” – chi sogna cosa, in questa inverosimile fin de siècle in cui Donald Trump è il presidente degli Stati Uniti? Che ne è stato, chi ha trasformato l’american dream in questo sogno d’ubriaco, in questo Dottor Faust da teatro delle marionette?
Alla fine dell’esilarante epopea anche Joe finisce in gabbia, proprio come i suoi big cats, e per un crimine che non ha ancora commesso e forse nemmeno ha commissionato – come lascia supporre il caso dell’agente sotto copertura che, fingendosi disposto a uccidere Carole Baskin, lo induce quasi a tradirsi, a consegnare il denaro che avrebbe sancito la sua colpevolezza. Nessuna accusa è fondata, nulla esiste davvero, negli Stati Uniti, prima che un money transfer sia avvenuto.
La figura di Joe, sul cui cadavere incamminato fioriscono le narrazioni più fantasiose, è vittima sacrificale e capro espiatorio perfetto della risibile congrega di outcasts che dal suo tracollo guadagnano una nuova verginità penale e mediatica – purezza presto smontata dal geniale montaggio della serie. Atroce, in mezzo a quella frenesia sacrificale, il ruolo della giustizia americana – ma potevamo immaginarcela diversamente da un braccio meccanico della angry mob? – atroce la figura in tailleur e ciuffo biondo del procuratore d’accusa, con quel pronunciamento retorico sul delirio di onnipotenza del King – delirio che tutti riconoscono nell’altro e nessuno sembra disposto ad ammettere di sé. La funzione d’onda indecidibile delle responsabilità e delle accuse, la furiosa vece delle circostanze e la manipolabilità dei dati convergono improvvisamente sul King, per la cui condanna la giuria impiega meno di quattro ore su diciannove capi d’accusa. Ma se la vicenda frenetica dei capri, l’oscillazione indecidibile dei kydos che è all’origine del nostro relativismo di moderni farà come d’abitudine il suo corso, assisteremo presto alla rinascita della fenice, a un’antifrasi dell’antifrasi sotto le sembianze di Nicholas Cage, i fan possono stare tranquilli (2). Tiger King non morirà in prigione, tornerà sul suo trono come tutti noi spectators ci auguriamo: che il curtain call, se deve pur giungere, nell’Occidente risucchiato dal social, giunga però più tardi, e con dolcezza, sotto la luce di qualche riflettore, in un morir contento fraterno a quello vagheggiato dai suoi più degni profeti, che sognavano sopra ogni cosa di essere visti morire – “I’m (not) finished”.
Non serve quasi sottolineare l’identità di fondo e la vocazione mimetica e rivalitaria dei tre proprietari di zoo – Carole Baskin, Doc Antle e lo stesso Joe Exotic – i quali non fanno che lanciarsi accuse perfettamente speculari, di sfruttamento degli animali per lucro, di culto narcisistico della personalità, di violenza omicida. Carole, infatti, avrebbe ucciso suo marito e gettatolo in pasto alle tigri senza lasciare tracce, ed è l’accusa sulla quale Joe insiste sempre con più foga, quasi fosse ossessionato e anzi sedotto da quell’immagine ipotetica di violenza annichilente, sparagmòs perfetto che non lascia resto, ben più pulita e chirurgica dei suoi goffi occultamenti di tigri eutanizzate, resti incombusti che si trasformeranno nei principali capi di accusa del suo processo. Uccidere Carole Baskin, secondo una prospettiva condivisa da alcuni autori di questo blog, che parte sempre dalla considerazione dell’identità speculare dei rivali mimetici, corrisponderebbe a un tentativo di “suicidio” simbolico, a una liberazione dall’identificazione alienante, dalla pletora degli spettri che rimandano, nel volto odioso d’altri, l’immagine perfettamente vuota e nullificata del nulla-di-mio che è il nulla-di-me, nella società dello spettacolo (3).
Il personaggio dell’ultimo yankee, l’americano contemporaneo di cui Joe Exotic mi pare il perfetto paradigma, è emblematizzato nella figura del cucciolo di tigre, dei cui esemplari il nostro allevatore ama circondarsi. La tenerezza feroce di Joe – gay libertario, sedotto dalla liberalizzazione delle relazioni monogame, affettuoso come un cucciolo ma saldamente radicato nell’etica pistolera e machista degli ex stati confederati – l’inermità e anzi l’esposizione assoluta di Joe – self-made man che non possiede nessuna delle sue mille proprietà, le tigri vendute, i macchinari in affitto, lo zoo ipotecato, la sua vita, il suo amore ostaggio di uomini ingrati o stolti ai quali egli si rimette con perfetta idiozia – e il lato violento, velleitario e assassino di Joe – l’odio feroce per Carole Baskin, di cui ha certamente desiderato, se non commissionato, l’omicidio – rappresentano forse la forma definitiva che gli animal spirits keynesiani assumeranno all’ipogeo del Secolo americano. Le tigri di Joe, quelle di Carole Baskin e quelle di Doc Antle sono feroci “big cats”, gattoni cresciuti in gabbia, nutriti a chili di carne scaduta recuperata dalle forniture sempre eccessive dei walmart o da cadaveri di animali investiti. Si avventano su quarti di bestiame appena tagliati, cruenti e filanti, rimandando agli spettatori un’immagine “cruda” della loro stessa cultura alimentare, nonché della loro concezione darwiniana dei rapporti economici. A volte si azzannano tra loro, oppressi e isterizzati dall’urgenza della weberiana gabbia d’acciaio. Oscure figure di padri-aguzzini forniscono loro il cibo, sborsando migliaia di dollari – mangiano tanto, i cuccioli – ma le tigri americane, come i cani dell’apologo di Kafka, non alzano quasi mai la testa per accorgersi della mano che le nutre…
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(2) Alludiamo all’annuncio di una prossima serie Netflix con l’impagabile Nick Cage nei panni del Re delle Tigri – un ruolo che, se si crede all’esistenza del destino o all’ordine inverso della causalità, l’attore sembra essere venuto al mondo per impersonare (https://www.repubblica.it/serietv/2020/05/04/news/nicolas_cage_tiger_king-255684443/).
(3) Per un’analisi di stampo lacaniano del nesso tra narcisismo e aggressività, rinvio all’articolo di Matteo Bisoni su Joker e The king of comedy (https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/due-prospettive-sul-narcisismo-joker-e-the-king-of-comedy-specchio-immaginario-schermo)
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