Nei primi tempi della pandemia che ci riguarda, poco si è discusso, tra gli autori di questo blog, dei possibili capri espiatori che qualcuno avrebbe forse inventato per coagulare la malizia cieca e imperscrutabile del contagio in un càtarma impuro, da recidere ed espellere. Ne ha parlato per la verità Damiano Bondi in un recente articolo, tutto sommato tiepido come il clima di caccia alle streghe, che dopo qualche settimana è già stato soppiantato da altri sentimenti collettivi. Riprendendo il René Girard critico della contemporaneità: non sarà forse che a questa storia del capro, in fondo, non ci crede più nessuno? E non nel senso che non se ne parli più o che non se ne indichino di nuovi, ma piuttosto nel senso che dal linciaggio non fiorisce trascendenza, che i colpevoli esibiti non cementano la comunità, non provocano più alcuna catarsi. «È colpa del governo», «è colpa dei cinesi», sì, si sente ancora dire – Trump lo ribadisce appena può, vuol convincersene per primo. Qualcuno ci prova ancora a domandar la forca – ma si riconosce una stanchezza, nel latrato: una sorta di dimestichezza col grido che ricorda la quiete dei malati terminali.
La paura, il cordoglio e l’oppressione sembrano prevalere sulla fame di colpevoli, che passa quasi in secondo piano. Dove sono i capri espiatori in questa crisi? I runner che infettano la Martesana? Il paragone con la diceria degli untori manzoniani è automatico, ma lascia il tempo che trova. Anche perché l’untore era figura di tutt’altro spessore e produttività simbolica. Dopo la processione che diffonde il contagio per tutta Milano, nel capitolo XXXII dei Promessi, il popolo protesta a gran voce, con il balsamo del cordoglio razionalistico del Manzoni, che in quella gran ressa gli untori avevano potuto agire liberamente, infettando a destra e manca le vittime. Nessuno dei popolani si sogna di avanzare l’ipotesi più razionale, che cioè l’assembramento in sé, innocente quanto impersonale, producesse lo sciagurato incremento dei contagi. Per converso, nessuno dei nostri contemporanei flagellatori di runner avrebbe commesso un errore così grossolano. La microbiologia batte la mitologia anche nelle fasce meno illuminate dell’utenza, nel XXI secolo. La razionalità impersonale – o l’illuminazione girardiana, anch’essa figlia della Dea Ragione – che non vede più un colpevole umano, ma solo le forze cieche e impersonali della Malizia, del Morbo o di Dio, è un privilegio di noi moderni. Ogni tanto qualcuno, un solitario boomer malvissuto, si ricorda che un tempo si faceva così, un tempo si dava all’untore… e adesso? Boh: anche Conte, alla fine, sembra fare la sua figura – ed è pure un bell’uomo!
In un altro articolo, Marco Stucchi cerca di salvare la produttività simbolica del morbo in chiave girardiana e la risoluzione della crisi nella polarizzazione della massa, invocando un feticcio laico, la Costituzione e il Popolo sovrano, che fa onore all’estensore per l’ottimismo propositivo che dimostra, e che così tanto coraggio oggi domanda per professarsi, darsi in pasto alla pletora dei cinici. Nobile intenzione, appunto, ma intellettualistica e lontana dal calore della pestilenza, dove fermenta un’umanità più primordiale, e non forse nel significato più demoniaco della parola: come, alla fine dell’epidemia che sconvolge Orano, ne La peste di Albert Camus, il dottor Rieux riconosce che ci sono negli uomini «più cose da ammirare che cose da disprezzare».
L’unica “peste” all’altezza della modernità della sfida intellettuale che ci riguarda – comprendere la pandemia! – mi sembra essere appunto quella di Camus. Leggendo il romanzo dello scrittore francese, ci si sente stranamente a casa – e non per la somiglianza, comunque sorprendente, tra lo svolgimento della fase iniziale dell’epidemia e gli eventi di questi primi mesi del 2020, quanto per la strana storditezza di oppressi che caratterizza gli appestati, e che è pure la nostra medesima. Nessuno, a Orano, grida al capro espiatorio; il governo criminale è querelato velocemente e poi dimenticato, nessuno assalta la casa del vicario di provvisione (Promessi sposi, capp. XII-XIII). Di untori ipotetici o reali non si fa nemmeno menzione. Nessuno, insomma, è ideologicamente o mitologicamente attivo nei confronti del morbo, ben diversamente dai milanesi del ‘600 manzoniano. D’altro canto, nessuno accoglie passivamente la peste, anzi ci si dà da fare per combatterla, ma tutto accade nel segno di un’adeguazione performativa e funzionale, nel silenzio stordito di passacarte, volontari e vittime che muoiono, lottano e rendicontano la dura battaglia senza sapere perché. La burocrazia dei bollettini e delle statistiche, la Tecnica co-protagonista del romanzo, è presentata quasi con malinconica partecipazione, come se non fosse, questa, altro che un’ennesima forma deteriore, ma sempre cara, dell’immagine umana schiacciata dal timbro del XX secolo. Si capisce: Camus scrive della sua peste nel 1947, pochi anni dopo il flagello della Shoah e della guerra, grandi assenti del romanzo che vi rientrano sub specie pestis, in un travestimento che spinge l’epidemia oltre la dimensione allegorica, e ne fa quasi un sintomo fantascientifico del male impersonale, furioso e feroce, che si mostra nella sua grande nudità materica solo nel XX secolo – i cadaveri di Auschwitz, le fosse comuni di Orano, e con un salto nel presente recente, i camion militari in processione a Bergamo. Proprio a questa impersonalità della nozione moderna del male vorrei rivolgere l’attenzione del lettore.
Per il dottor Rieux, narratore a sua volta impersonale delle vicende, la peste è definita innanzitutto come “astrazione” – ovvero l’anti-umano per eccellenza, fintantoché si accetta di considerare l’umano anzitutto come incarnazione. L’astrazione abolisce la concretezza dei corpi vivi, nega la creaturalità – così fa anche la pestilenza, che quando non uccide condanna gli abitanti di Orano ad un esilio dagli affetti e dal contatto umano che ricorda la situazione odierna di molti italiani. Le morti, astrattamente calcolate e concretamente assistite dai medici e dal personale sanitario, si ripetono con inesorabile vece e non si distinguono più l’una dall’altra, in un pantano matriciale. Il dottor Rieux è sopra ogni cosa stanco di recitare ogni giorno la parte del medico al capezzale del moribondo. Il kapò disumanato dalla spogliazione dei suoi fratelli ebrei davanti alla camera a gas (nella prima foto che accompagna l’articolo, dal film Figlio di Saul) ha lo stesso volto inespressivo di Rieux che incide il bubbone del prossimo appestato. «Come l’astrazione, la peste era monotona» – come anche il male, nella sua forma più squisita, è banale. Proprio perché affronta quotidianamente quanto di più triste e banale esista, Rieux rifiuta l’appellativo di “eroe”, analogamente a molti medici italiani di oggi; e forse non per snobismo, ma perché in fondo, umano anch’egli e sopra tutti, sa che all’eroismo spetta solo un posto secondario, nella gerarchia dei valori umani: «appena dopo, e mai prima, l’urgenza generosa della felicità».
C’è un personaggio che, intellettualmente, elabora un’immagine della pestilenza di stampo prettamente girardiano: è Tarrou, l’amico forte e generoso di Rieux, che al morbo soccombe soltanto a pestilenza conclusa, mentre la città festeggia la liberazione. Per Tarrou, la peste è qualcosa di più squisito del bacillo, ha una veste metaforica che si decifra felicemente e facilmente con il fenomeno della violenza legittima, mimetica e collettiva (1). Con approssimazione appena rispettosa del monologo più importante del personaggio, potremmo definirla sinteticamente come “complicità nella violenza”. Rieux, ripensando in un secondo momento alle parole dell’amico, ne fraintende la portata euristica: quello che ha capito del lungo monologo di Tarrou è che egli non vuol essere «carnefice in un mondo di carnefici», ma così concepito il discorso perde tutta la sua potenza e si riduce alla semplice presa di posizione di un singolo nell’eterna lotta fratricida degli uomini contro gli uomini, dei buoni contro i cattivi. Tarrou non dice questo. Dice: «sulla terra ci sono flagelli e vittime e, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello». Non dei carnefici: del flagello. Non gli uomini invasi dalla sacra furia del male, ma il flagello, che degli uomini si serve per la propria opera malvagia. Non gli untori, non i responsabili, non i cattivi: invece il flagello, il male disincarnato dal suo esecutore creaturale. L’immagine dell’orco è sparita dall’orizzonte di Tarrou: non esistono più cattivi. E non per un generico relativismo, di cui pure Camus paga pegno al disincanto che il XX secolo riceve, se diamo retta a Girard, proprio dall’opera della Rivelazione cristiana laicizzata nel discorso liberale – ma perché sono invece gli altri, le vittime, che esistono davvero come creature e incarnano la più pura forma umana: quella dell’oppresso. Tutto il resto – il potere, la violenza, i principati – non è l’umano: è il flagello. Il padre magistrato di Tarrou, Hermann Kafka, Hitler a Berchtesgaden – costoro saranno nuovamente umani soltanto come e quando vittime.
La peste, come la violenza, è contagiosa – e «l’uomo giusto, quello che non infetta quasi nessuno, è quello che si distrae il meno possibile». Così Tarrou muore, alla fine della pestilenza, con il volto contratto non per il dolore, ma per la concentrazione – perché «non poteva più distrarsi», per morire nell’interezza umana che per tutta la vita aveva cercato. L’interezza, si intende, della vittima totale, santa di pura oppressione (2). L’umanità incarnata da Tarrou e da Rieux è di fattura perpendicolare a quella dei cacciatori di untori, è la risoluzione ultima del pensiero sacrificale: la scoperta dell’inesistenza del male – se è vero che solo gli uomini e-sistono, mentre il male semplicemente-è (3). Se l’uomo è tale solo nell’oppressione, come vittima, allora i carnefici non esistono some sostanze, ma solo come accidenti, come si vede bene alla fine di tutti i film di Hayao Miyazaki. Da questa prospettiva, quello di Camus è uno dei romanzi più profondamente cristiani che abbia letto.
La peste di Camus, molto più di quella di Manzoni, è innanzitutto un fatto spirituale, condensato in alcune parole chiave: “astrazione”, come si diceva all’inizio; poi “flagello”, nella lezione di Tarrou; e quindi, verso il finale, “esilio”, con particolare riferimento all’isolamento che il contenimento dell’epidemia esige, e che gli italiani di oggi ben conoscono. Cos’è però la “patria” perduta, rispetto a questo esilio? Rieux pensa che sia il «desiderio di ricongiungimento»: l’amore e gli abbracci, niente di più banale. Verso la fine del romanzo, mentre la pestilenza procede verso il proprio apogeo, Rieux vive continuamente episodi di sintonia emotiva e spirituale con gli altri personaggi, momenti nei quali la risonanza dei cuori intonati a una comune disgrazia abbatte le differenze tra l’io e il tu – le mura dell’animo (AT-field) che in Evangelion cadono solo al cospetto del sommo dolore. Tarrou, alla domanda di Rieux se abbia idea di come raggiungere la pace dei “veri medici”, misteriosa categoria umana cui si fa cenno con altissima aspettativa, ha una risposta semplice: «la compassione». Soffrire insieme, ma non al modo della responsabilità soverchia che schiaccia il dottore incapace di sconfiggere il morbo, e che è un semplice fatto d’orgoglio. È la vita del flagello, cioè del potere (ad esempio quello del medico che esercita la propria tecnica), che non consente a sé stesso, in un compromesso paradossale, e passa invece dalla parte della vittima – riconoscendo il volto del mortale che si spegne per il suo proprio, svestito della propria potenza demoniaca. Che è flagello: il potere.
Soverchiato dallo strazio, Rieux soccombe – muore come individuo – alla condivisione assoluta e involontaria della sofferenza (sympatheia) che è vuoto di potenza, impotenza del medico che non può salvare nessuno – nemmeno Tarrou, l’amico che ce l’aveva quasi fatta. Si fa quindi narratore impersonale, disorientato quanto al luogo e alla persistenza di sé come individuo: parla di sé in terza persona, e il lettore scopre solo alla fine il suo statuto di narratore. La crosta del suo io è dissolta prima nella macchinazione che gli impongono la tecnica e la burocrazia; poi, all’apice dell’abiezione, come “funzione esecutiva” dell’officina della salute, la morte dell’io stritolato dalla macchina si rovescia in resurrezione cristiana: l’io si è dissolto non per far posto alle potenze diaboliche, ma alla sostituzione con l’altro, con il sofferente, con la vittima. Si compie l’apocatastasi, la restituzione della figura umana integra, anteriore alla cacciata dall’Eden, permeabile all’alterità e anzi tutt’uno con essa. Apocatastasi è anche la buona indifferenza che auspicava l’ultimo Girard: la sostituzione dell’io e del tu di cui la peste, morte indifferenziata, non è che il contraltare infero, immagine rovesciata la cui ombra significa che si è a un passo dalla trasfigurazione di Babilonia nella Gerusalemme celeste – là dove cresce il rischio, diceva un altro grande salvato, cresce anche la salvezza. Il Regno di Dio è sceso nel petto di Rieux senza che questi se ne accorgesse, senza che se lo meritasse, senza che se ne vedessero le avvisaglie: passando dalla porticina del dolore.
L’identità con l’altro passa dalla condivisione – involontaria, perché altrimenti sarebbe flagello e potenza – del dolore (4). È così che, teologicamente, apocalisse (nel senso di catastrofe, collasso delle potenze e rivelazione) e apocatastasi (nel senso di restituzione dello stato edenico, crollo dell’AT-field, dissoluzione delle mura dell’animo) coincidono. Il Regno giunge e si rivela nel dolore della morte sul Golgota, e coincide con il ritorno dell’unica legge veramente divina (come ben sapeva Antigone) che non ci si deve vergognare di chiamare col suo nome, banale come il male nazista, prendendo a prestito le parole di Tarrou: la compassione, che ha dentro di sé la sofferenza del pathein e la banalità della morte. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, resterà solo – ma se morrà, apporterà gran frutto». Il sacrificio di Tarrou parla a noi contemporanei con più carisma di quello del capro espiatorio.
All’apogeo della catastrofe, oggi veramente planetaria, e con la prospettiva di un collasso del sistema economico che metterà in discussione le basi stesse della società del piacere, è forse ingenuo pensare che l’ora più buia, che precede l’alba, sia anche quella della Rivelazione? Pia speranza: in ogni caso, non credo che seccare l’amaro calice del dolore con voluttà, o proclamare la necessità di un recupero attivo di trascendenza ed empatia (volontaria o volontaristica) servirà a qualcosa; se non ad accelerare l’opera furiosa del flagello, che si nutre di volontà frustrata. Rieux non fa un fioretto di bontà, ma patendo impara. Non si prescrive la redenzione come si fa coi farmaci. Il dolore farà il suo corso, se Dio vuole. Ad esempio io, potendo scegliere, stappo una bottiglia di vino e brindo alla salute dei “veri medici” come Rieux, tranquillo nel mio appartamento in paese, lontano dal dolore e dalla morte. Come ogni semplice uomo, mi è più cara l’«urgenza generosa» – non forse della felicità, ma insomma...
* * *
(1) Lascio a chi volesse il nobile compito di delineare nel dettaglio l’analogia tra la filosofia di Tarrou e quella di Girard. La consonanza è impressionante, se si considera, poi, che la premessa al discorso è l’episodio in cui, adolescente, Tarrou assiste alla condanna a morte di un uomo da parte del padre magistrato. Cito a caso: «Sentivo solo che volevano uccidere quell’uomo vivo e un istinto formidabile come un’onda mi portava accanto a lui con una sorta di cieca ostinazione»; e sulla natura metaforica della peste: «Ho capito che eravamo tutti in preda alla peste, e ho perso la pace», «Sono tutti in preda al furore omicida, e non possono fare altrimenti»; «Ho deciso di rifiutare tutto ciò che in qualunque modo, per buone o cattive ragioni, fa morire o giustifica che si faccia morire»; e sulla natura perfettamente mimetica della peste/violenza: «Ciascuno la porta in sé, la peste, perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che è necessario prestare la massima attenzione per non rischiare, in un attimo di distrazione, di respirare in faccia a un altro e passargli l’infezione». Ma l’avrà letto Camus, Girard, in quegli anni di apprendistato letterario?
(2) Ne approfitto per buttare giù qualche nozione di metapsichica, disciplina della quale sono un appassionato domenicale, e che la comunità scientifica internazionale sta lentamente redimendo dall’ignominiosa etichetta di “pseudoscienza” per restituirle dignità di scienza pionieristica. Alcuni ricercatori dell’IONS (Institute of Noetic Sciences) hanno avanzato recentemente l’ipotesi dell’esistenza di una global consciousness, una coscienza collettiva del genere umano che rivelerebbe la sua presenza in momenti di forte sintonia emotiva tra gli abitanti del Pianeta, come l’11 settembre 2001. Ne parla, tra gli altri, Dean Radin nel volume Entangled minds (Edizioni Mediterranee, Roma 2013), dove si avanzano anche interessanti ipotesi sulla possibilità di riconfigurare i fenomeni metapsichici come prodotto di interazioni quantistiche in sistemi macroscopici.
(3) Vogliamo leggere l’epigrafe altissima del romanzo di Camus? Da Daniel Defoe, cantore dell’individualità trionfante: «è altrettanto ragionevole rappresentare una specie di prigionia con un’altra quanto lo è rappresentare qualsiasi cosa che esiste realmente con qualcosa che non esiste», corsivo mio.
(4) Devo in parte questa riflessione, che ancora fatico a comprendere pienamente, al mio amico Matteo Bisoni.
Comments