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Chi non sacrifica a capodanno non lo fa per tutto l'anno | Del giubilo sacrificale presso Ianuarius

Aggiornamento: 5 nov 2023



Ora che finalmente ce lo siamo messi alle spalle, non potevo sottrarmi a due considerazioni per omaggiare con vivo e commosso sentimento le mondane giubilanze che più ravvivano in me il desiderio di eremo.


Come ricordavo nel confettino natalizio su Lisa Simpson, le festività agghindano il mio immaginario anche di un corredo pop. Una delle pellicole cui sono più affezionato è sicuramente Parenti serpenti del maestro Monicelli, uscito nel 1992. Le sue ossimoriche cartoline natalizie sono insieme il dolore di un impossibile ritorno e la tragicità straziante della violenza che travolge senza fare prigionieri. Il regista ha composto con delicatezza e freddezza le immagini di un'Italia anni '80/'90 dai paesaggi fiabeschi e non ancora devastati dal radicarsi dell'anonimo commercio dell'Internazionale Capitalista, ma già pervasa dal dispositivo del consumo di un immaginario iperreale; le immagini dell'atmosfera di un Natale probabilmente più sognato e ricreato nei ricordi che effettivamente vissuto; della vanità e il solipsismo contagiosi che, da una generazione ormai consunta dal proprio consumo edonistico, tracimano nella successiva e ancora imberbe, ma già abitata dai fantasmi belligeranti del regno dell'immagine iperreale; dell'egoismo latente e furioso, e pronto a precipitare nella crisi di indifferenziazione non appena i mimetici desideri di consumo si approssimano tanto da vedere nell'altro solo il proprio ostacolo, soprattutto quando l'altro si presenta nell'anziano bisognoso il cui soccorso impone la considerazione dei doni ricevuti. Il tutto narrato dallo sguardo del più piccolo della famiglia, sulla soglia d'accesso al mondo terribile e mimetico degli adulti, di cui ne imita il distacco razionale nella composizione del tema scolastico – voce narrante della vicenda – ma che vela con il dubbio, e che ancora non gli impedisce l'empatia e la creazione di uno spirito natalizia nelle relazioni affettive con i propri nonni.

Ecco, in questo film è magistralmente ritratto – pur nel suo parossismo finzionale – il rito sacrificale sotteso al capodanno. Un parossismo sì finzionale ma pur sempre parresiastico, perché la licenza della finzione consente la rivelazione diretta e brutale; tanto diretta e brutale che – va detto – forse consente quella presa di distanza che lascia sì turbati, ma senza in fondo sentirsi direttamente presi in causa, e senza sollevare domande sulla comune ritualità che va in scena a ogni giro intorno al Sole.

Ma cosa late in questa mondanizzata ricorrenza? Cosa necessita questo giubilo sguaiato, vuoto e trito e tuttavia impellente? È una festa sacrificale; il capro è l'anno vecchio. E fin qui, si potrebbe anche dire che la cosa non sorprenda granché. Ma cosa motiva quel velo di frenesia inquieta nell'ansia da consumo, che anima questa baldoria alla soglia di questa porta e sembra rendere incapace, rispetto alle doti del dio (1), di guardare contemporaneamente al passato e al futuro?



Allo sguardo retrospettivo del soggetto consumatore, il soggetto allo scandalo del consumo altrui, il passato si stende come una catena di mancanze, di godimenti negati: un tetro carosello di mediatori ostacolanti. L'ansia consumistica ha decisamente sbilanciato il povero Giano; difficile dire se sia lo sguardo rivolto al passato a cedere sotto l'ansia proiettiva di conquistare la pienezza ontologica, o lo sguardo rivolto al futuro a divenire sempre più irrequieto sotto il peso di un passato quale catena di mediazioni e risentimento.


Allo sguardo retrospettivo, gli anni passati vengono riassorbiti in un vortice di scandali indifferenzianti, senza che sia possibile ricavare da questa giostra un principio di differenza che trattenga la propria vita dalla lacerazione operata dalla legione dei desideri. Dagli anni della vita trascorsa non emerge nessuna pienezza, nessuna differenza che resista allo sguardo verso la moltitudine dei mediatori, nessuna identità che non sia vissuta come trampolino di rilancio dei mimetici desideri, fulcro esploso in frammenti di specchio, su ognuno il volto di un desiderio altrui.

Allo sguardo retrospettivo dell'uomo del sottosuolo, il Tempo è una forza lacerante, una serpe a due teste che tira in direzioni opposte. E le serpi, come ci ha raccontato zio baffone, penzolano dalla bocca dei dormienti, addentandogli la lingua.



Gli anni passati vengono così riassorbiti in una vorticosa crisi di indifferenziazione che sospende sull'abisso la propria identità mimetica e risentita, vociando il conto alla rovescia per il sacrificio rituale, correndo tre, due, uno allo zero parossistico del conflitto che vede l'anno vecchio sacrificato all'anno nuovo, che a sua volta soggiace carico dell'aspettativa eternamente ritornante e che aveva dato forma all'identità dell'anno vecchio. In questo sacrificio autoimmolante, dalla morte del vecchio si attende la differenza del nuovo, che promette giungerà infine a quella pienezza ontologica dall'orizzonte sempre sfuggente, ma si ottiene invece, come nuova differenza, quella vecchia, ogni anno con il trucco più pesante per sembrare sempre giovane e promettente, nel rinnovamento di una eterna promessa escatologica, disattesa dai vizi della sua stessa formulazione.

Come nella tragica pellicola di Monicelli, nell'ansia del consumo l'eroe romantico è l'impossibilità di guardare al passato come all'omaggio per la vita vissuta e ricevuta in dono, e nello sguardo resta solo la frenesia espulsiva che brama far posto al nuovo e alle sue promesse.



A chiudere questa pillola, vorrei smorzare il tragico con il dramma farsesco del capodanno mitico del ragionier Fantozzi, dove la farsa smorza il dramma ma non la tragedia sottostante. Il ragionier Ugo è la maschera timida dell'uomo del sottosuolo dagli innumerevoli scandali: nel suo romantico drammatico mimetismo, il capodanno gli si presenta nell'immaginario come festa emblematica da cui gli si consenta carnevalescamente di ottenere un momentaneo rovesciamento della mediazione discepolo-modello, e ottenere infine un fuggevole contatto con la sua dama, la civetta rosso vestita signorina Silvani.

Nel turbinio dell'ansia da godimento serpeggiante nella grottesca compagnia di impiegati, l'episteme del consumo ingiunge al ragioniere, attraverso la folla della sua compagnia, l'ottimismo e il sorriso a fronte di ogni angheria e ogni sopruso del cameriere e del geometra Calboni, soprattutto alla rivelazione dei propri scandali. Il principe di questo culto del consumo è rappresentato dall'officiante il rito, il mistagogo e maestro di cerimonia Maestro Canello che, nella sua drammatica cinica brutalità, manomette l'orologio per anticipare il capodanno della misera compagnia: mediante il dispositivo del godimento, è così in grado di somministrare la narrazione sacrificale attesa dalla folla, e di soddisfare la voce che lo stesso dispositivo accende in lui, e che lo reclama destinato a un altro veglione, da sé ritenuto più consono allo standard che considera essergli proprio. «Ritmo, ritmo, che finiamo prima», e sono libero di godere.

A coronamento di questa rito-farsa, un grottesco ma reale coronamento sacrificale, e la misera vita di Fantozzi ne fa da capro: non pago di essere già stato gettato oltre una vetrata dalla sua dama dei desideri, vede la propria vita transustanziata nella sua macchina, distrutta dalla stufa a cucina gettata da un balcone qualsiasi, nell'ansia di rinnovamento del consumo di un individuo qualsiasi, celebrante il sacrificio dal davanzale della propria finestra come allo schermo dei propri televisori. «Buttate! Buttate! Anno nuovo roba nuova!». Le risparmio gli auguri, caro ragioniere.

Ovviamente, ci vediamo direttamente ai feriali di gennaio perché «grazie, non compro niente», «I would prefer not to», nemmeno quando sono venuti a bussarmi alla porta alle 23:50 del 31 dicembre a mille metri s.l.m. nell'ultimo paese della valle: Bartleby stava per coricarsi.



***

(1) Ricordiamo che il mese di gennaio prende il proprio nome da Giano (Ianus), cui era consacrato, dio italico bifronte che presiede agli inizi e alle soglie: il doppio volto gli consente contemporaneamente lo sguardo al passato e al futuro. Dal suo nome deriverebbe il termine latino per porta: ianua, che – sia detto en passant – sarebbe poi stato usato anche per indicare le persone che altrove vennero definite streghe.

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