di Simone Berno
Nota di introduzione: questo primo testo andrà a comporre un saggio più ampio, la cui prosecuzione verrà pubblicata in seguito presso questo sito, dove sarà anche resa disponibile in formato pdf.
L'occasione di una lettura girardiana del film The Witch, di Robert Eggers, mi offre la possibilità di tentare una lettura che unisca i concetti propri del paradigma girardiano a quelli del paradigma foucaultiano, con particolare riferimento alle analisi offerte a partire da L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, e L'ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, ma con uno sguardo anche a parte della produzione successiva.
Di più: vorrei spingermi nel tentativo di una lettura foucaultiana dello stesso paradigma mimetico e sacrificale, della sua rivelazione, che comprende l'esegesi costituita dagli stessi strumenti girardiani.
La possibilità di questo tentativo mi si è mostrata durante la lettura della prefazione di Carlo Ginzburg al suo stesso testo Storia notturna. Una decifrazione del sabba (1). Una delle questioni centrali affrontate dall'autore riguarda appunto l'origine dell'immaginario del sabba. Mentre per il presente testo non risulta apparentemente rilevante, per quanto affascinante, la questione di una probabile origine comune di alcuni elementi di questo immaginario da una ipotetica antica cultura, le cui uniche tracce sarebbero appunto la dispersione di elementi analoghi in aree geografiche distanti (questione che per l'autore è occasione di una ancor più interessante interrogativo sulla possibile complementarietà tra un metodo di analisi storica di tipo sincronico, sulla scia delle impostazioni strutturaliste, e uno di tipo diacronico, sulla scia di una impostazione come quella di W. Burkert tesa a rilevare le continuità psicologiche nel tempo), mi si è posta subito come centrale la prima questione suscitata dall'autore: determinare quanto dell'immaginario del sabba sia stato apporto proprio di tradizioni culturali popolari, che attribuivano però valore, relazioni e dinamiche differenti ai propri elementi, e quanto sia stato invece apporto dell'Istituzione dell'Inquisizione (2), che, con le sue pratiche processuali, avrebbe insieme sintetizzato e codificato il paradigma immaginario del sabba, ma anche piegato gli elementi che andava raccogliendo durante i processi, al fine di confermare la codificazione da essa prodotta.
Se parlo di Inquisizione come di una Istituzione, lo faccio con il preciso intento di sottolineare come essa fosse espressione di quell'intreccio di sapere-potere(3), quell'intreccio che da un lato consiste in un sistema di formazione (4), o episteme (5), come condizione di emergenza degli oggetti (6) e delle posizioni dei soggetti (7), dall'altro come insieme di pratiche relazionali che articolano rapporti di potere come prese sui corpi – come sugli oggetti – e loro disposizione e articolazione (8). È importante chiarire come Foucault parli di episteme come «fascio di relazioni» (9), «insieme di rapporti tra scienze, figure epistemologiche, positività e pratiche discorsive» (10), prescrittivo appunto di pratiche, che ritagliano forme e posizioni precipue per i soggetti parlanti e gli oggetti di cui si parla, e performano dei sistemi di visibilità (come chiarirà poi in Sorvegliare e punire (11) ), sistemi che rendono visibili soggetti e oggetti, ritagliandone e assegnando loro determinate posizioni nel campo di ciò che può essere visto e praticato.
Ma è proprio riflettendo sulla questione dell'origine degli elementi dell'immaginario del sabba, che mi si è offerta l'intuizione di quanto anche la prima questione offra una proficua fertilità genealogica – nel senso foucaultiano (12), debitore di Nietzsche –. La contrapposizione tra un'analisi sincronica strutturalista e una diacronica può benissimo essere letta non solo come la contrapposizione tra due episteme, ma la contrapposizione tra un episteme che può tentare di ridursi all'ipostatizzazione di una formazione discorsiva, e uno che rintraccia, entro la lotta tra episteme differenti, le diverse durate di ciascuna pur nel loro sovrapporsi, o il cristallizzarsi di nuove formazioni discorsive, di nuovi sistemi di formazione, entro o sovrapposti ad altri che i primi possono racchiudere, inglobare o appropriarsi.
Entro questa lotta tra ordini del discorso, è possibile rintracciare come la modellazione delle forme di soggettualità, nella transizione da quelle proprie di un episteme (quello folklorico) a quelle proprie di un altro (quello cui appartiene l'Inquisizione), possa trovarsi sotto la pressione di una pratica discorsiva che, date le sue precipue visibilità, relazioni tra soggetti e oggetti e, al contempo, tra i soggetti stessi, definisce l'organizzazione dei tempi e degli spazi, dà corpo alla pratica del sacrificio, una pratica non solo discorsiva, anch'essa presa di volta in volta entro altri differenti episteme.
Nella mimetica competizione tra un sistema di formazione e l'altro, che competono mediante gli atti e i discorsi tra i soggetti portatori di questi, attraverso il conflitto che tra essi intercorre, scandalizzati dal desiderio reciproco di porsi come unici rappresentanti del vero paradigma di verità, le singolarità subiscono la pressione conformante del nuovo sistema di formazione, che può giungere fino alla loro espulsione qualora sia impossibile la loro integrazione. L'espulsione stabilisce così la nuova differenza, il nuovo episteme differenziante che riporta ordine (13).
Ed è possibile, a parere di chi scrive, cogliere la possibilità di leggere il sistema sacrificale basato sul mimetismo come un episteme proprio seguendo la descrizione che Girard stesso fa, commentando nell'episodio del rinnegamento di Pietro l'eccessiva importanza attribuita al dettaglio del gallo, della non piena comprensione che gli Evangelisti, pur intuendo la presenza di un insegnamento rivoluzionario, ebbero della rivelazione della razionalità mimetica e della sua relazione con il sacrificio espiatorio (14). Altrettanto, è possibile leggere come un episteme lo stesso discorso della rivelazione dello scandalo mimetico: la sua mancanza di piena visibilità alla prima generazione di discepoli (15) – testimoniata dalla non sistematizzazione del concetto entro i testi – che si limitano a riportare in maniera tanto più fedele quanto più mimetica le parole tramandate di Cristo (16), sarebbe elemento che mostrerebbe come, adattando quanto Foucault dice di Mendel (17), Gesù dicesse il vero ma non fosse nel vero a cui appartenevano i suoi discepoli. Ed è proprio questa differenza tra enunciati, tra episteme, a rendere invisibile (18), per chi è immerso in quello sacrificale, il portato dell'insegnamento di Cristo, che viene a mostrare il funzionamento del primo. Funzionamento che ostacola ed espelle qualsiasi discorso venga a mostrarne la genealogia, opponendovi la ripetizione di pratiche, discorsive e non, che oppongano una soglia della visibilità al nuovo discorso, relegandolo nell'invisibilità.
L'insegnamento di Cristo giunge quindi a operare in maniera molto simile a ciò che Foucault indica con la descrizione dell'archivio (19): «E tuttavia questa descrizione dell'archivio come si potrebbe giustificare, come si potrebbe chiarire ciò che la rende possibile, rintracciare il luogo da cui parla, […] saggiare i suoi concetti […] se si ostinasse a non descrivere mai altro che gli orizzonti più lontani? […] L'analisi dell'archivio comporta dunque una regione privilegiata, che è al tempo stesso vicina a noi, ma differente dalla nostra attualità ed è il bordo del tempo che circonda il nostro presente, che lo sovrasta e lo indica nella sua alterità […]. In questo senso vale come nostra diagnosi. Non perché ci permetta di fare il quadro dei nostri tratti distintivi e di tracciare in anticipo la figura che avremo in futuro. Ma ci distacca dalla nostre continuità; dissipa quella identità temporale in cui amiamo contemplarci per scongiurare le fratture della storia» (20).
Ma direi che è ora opportuno interrompere questa introduzione foucaultiana, che verrà ripresa in seguito, per intrecciarne i fili con l'analisi girardiana.
Per facilitare l'orientamento nella successiva lettura che qui si vuole tentare, ritengo utile chiarire subito che la principale protagonista della pellicola, essendo quella maggiormente caratterizzata, si trova attraversata da molteplici relazioni mimetiche, e ci viene presentata tanto quanto discepolo quanto come modello, ma anche spesso come scandalo e infine come vittima; recando nei suoi comportamenti e nel suo aspetto caratteristici segni vittimari. Essa non si ritiene pertanto che venga caratterizzata come una figura esclusivamente negativa, centro filmico malevolo di mediazioni interne, né come vittima innocente dello scandalo altrui.
La possibilità di una lettura girardiana del film è, in realtà, piuttosto evidente, venendo inoltre presentate tanto relazioni di mediazione interna quanto di mediazione esterna. Per tentare di restituirne la dinamica generale che conduce all'escalation finale, si tenta qui di presentare una disamina delle relazioni mimetiche rispettandone l'ordine di comparsa nella pellicola, ma aprendo di volta in volta prospettive sugli sviluppi seguenti, per restituire di ciascuna il senso prospettico.
La prima che ci viene mostrata è la mediazione interna che serpeggia nella comunità, in cui l'uno media l'altro nel desiderio di porsi quale modello di rigore nella missione apostolica, quella missione che coincide con la funzione del potere pastorale descritta da Foucault (21); per questo il padre di famiglia, William, viene espulso dalla colonia: scandalizza tanto la comunità, richiamando a una più ferrea aderenza ai loro propositi originari, quanto la stessa commissione degli anziani giudici della comunità, giudicandone i loro atteggiamento e il loro operato di pastori, rivaleggiando con la loro autorità morale e la loro capacità di guida; reciprocamente, egli stesso è però scandalizzato dal modello apostolico della comunità stessa e da quello pastorale degli anziani, della cui vocazione alla missione e al rigore morale la retorica e la severità delle sue parole ne indicano l'imitazione: abitato dal desiderio di arrogare a sé il posto del modello, ponendosi lui come figura del buon pastore in grado di giudicare e guidare il gregge per il bene di questi seguendo i dettami della propria coscienza, questa crisi di indifferenziazione deve essere immediatamente arginata con l'espulsione sua e di tutta la famiglia.
Questa espulsione, avendo fatto del polo espulso – la famiglia – una nuova comunità, lascia emergere le relazioni mimetiche che la abitano, prima dissolte nella polarizzazione aggregante del nucleo familiare rispetto alla collettività: divengono ora dinamiche, che polarizzano all'interno del nucleo i vari componenti, producendo quella crisi mimetica scatenante la drammatica catena di eventi.
Sono presentati già al momento del processo, che condurrà all'espulsione, i segni delle mediazioni che attraversano al famiglia.
Per cominciare, la mediazione esterna del padre nei confronti della figlia primogenita, Thomasin. Inquadrata guardare la commissione tanto con timore quanto con durezza, testimoniata anche dal respiro profondo, come attesta il confronto con il primo piano alternato del fratello, impaurito e dal respiro tremante, e dei gemellini, distaccati e inconsapevoli; i tratti del volto dell'attrice accentuano ulteriormente i grandi occhi spalancati, nei quali sembra potersi leggere la tempesta interiore, quasi le parole del padre vivessero e animassero in lei un trasporto e una immedesimazione con questi, un'amplificazione dettata dall'essere spettatore e, per imitazione e immedesimazione, agente dell'escalation mimetica tra il padre e la commissione, al punto che, alle parole di espulsione, si volta immantinente verso il padre: non ne vediamo lo sguardo, ma la fissità della postura e il successivo primo piano mentre guarda nuovamente la commissione, impietrita, lasciano supporre tanto la paura per l'incognita che gli si spalanca innanzi – l'ulteriore allontanamento dalle immagini della vita in Inghilterra, che lei rievocherà scandalizzando il fratello, come la madre scandalizzando il marito – quanto lo sconvolgimento per il gesto di un mediatore esterno inarrivabile.
Nella scelta registica, l'immagine sullo schermo inanella i profili dei personaggi: il padre occupa posizione avanzata, punto di fuga tra i profili dei protagonisti, che accentua il ruolo di mediatore esterno nei confronti di Thomasin e del fratello Caleb, e, oltre William, la luce che penetra, accecante ma gelida, dall'angusta finestra, indica il mediatore esterno ultimo quale modello pastorale; ma, prima che ci venga mostrata nuovamente Thomasin guardare la commissione, un'altra inquadratura del padre, a lui più ravvicinata, evidenzia come, sulla linea dello sguardo a lui rivolto da Thomasin, si trovi, prima di questi, la madre: questa composizione registica ci rivela in una sola inquadratura le relazioni mimetiche che porteranno alla spirale del disconoscimento e della violenza.
Thomasin ha nel padre un mediatore esterno, ma nella madre un mediatore interno, di cui imita la dedizione al marito e ai bisogni della famiglia stessa; la madre, come testimoniato da quel ravvicinamento dell'inquadratura, che elimina chiunque altro fuorché loro due dall'immagine e dalla linea che prima inanellava i personaggi, si volta a guardare il marito – stabilendo una continuità di sguardo e postura con quelle assunte da Thomasin, che la imita anticipandola nel gesto – del quale imita l'intransigenza morale; lo scandalo che intercorre tra i coniugi ci viene testimoniato anche successivamente nella scena della preghiera presso il terreno sul limitare dei boschi, cui sono giunti, e in cui è stato deciso di stabilire la loro dimora: lo sguardo che in questa seconda scena vediamo piantare la moglie negli occhi del marito, invocando questa volta la restituzione dell'imitazione da parte di questi, che gliela ingiunse alla pronuncia della sentenza, ci offre il segno di come per lei questa relazione si configuri come una mediazione interna.
Nella scena del processo, infatti, mentre mai una volta il padre si era rivolto verso i figli, dopo le parole di giudizio con cui commenta la condanna ricevuta era stato questi a rivolgersi alla moglie, a piantarle addosso uno sguardo che invocava imitazione: per quanto poi il padre si mostrerà nel resto del film per lo più scandalizzato dal modello apostolico e dalla funzione pastorale, e ostenterà quasi fino all'ultimo la sua capacità di porsi al di sopra delle emozioni che tormentano soprattutto la moglie, abbiamo già da subito la traccia di questa sua mediazione interna nei rapporti con la moglie, tanto più indirettamente testimoniata appunto dal suo successivo continuo richiamarsi alla saldezza della fede, e al ritenersi, lui solo, estraneo ai sentimenti e alle emozioni cui indulgono colpevolmente gli altri membri della famiglia (22): tra i due intercorre un rapporto in cui l'uno compete con l'altro nel corrispondere al modello morale e religioso, nel tentativo di primeggiare sull'altro, in realtà proprio per dimostrare di esser degni del proprio partner, costituendo questi infatti al contempo il modello di cui si desidera la pienezza ontologica. E sarà così fino alla fine, fino a quando la moglie, ricevuta prova di superiorità nei confronti del marito, confesserà con frasi ambigue la propria mancanza di amore per questi, e di fede in Gesù, l'una cosa immagine dell'altra, e reciprocamente causa, perdendo così con queste la propria identità, vinte e deterritorializzate le relazioni di mediazione (esterna con Gesù e interna con il marito, William) attorno a cui quella trovava fondazione, trovando poi rifugio nel delirio allucinatorio e nell'autolesionismo come prova della propria esistenza (come suggerisce il fatto che l'autolesionismo venga praticato sul seno).
Un'ultima figura compariva, minore per statura ed età, nell'inquadratura che inanellava i profili della catena mimetica: Caleb, il fratello minore di Thomasin. La sua presenza qui testimonia la sua partecipazione al mimetismo, in particolare il suo scandalo nei confronti del padre, mediatore esterno anche di questi, subito confermato dal vederlo imitarne il tono deciso, saldo ma affettatamente amorevole, e il gesto con cui, mentre il primo si è rivolto alla moglie richiamandola a seguirlo, Caleb si rivolge alla sorella. È l'imitazione del padre che chiama in lui il desiderio precoce di essere uomo, quel desiderio che lo porterà al suo personale inferno.
Breve e apparentemente meno caratterizzata, la scena successiva a quella del processo ci ripresenta l'imitazione di Thomasin nei confronti della madre, e quindi la mediazione di questa: la famiglia si allontana dalla colonia, recando tutta la propria vita a bordo di un carro, verso l'oscurità della terra boschiva, che l'algida fotografia accentua, regolata sulle ultime luci di un cielo morente, luci che abbandonano la terra a tale oscurità e alla durezza – non solo di una avara agricoltura, ma anche a quella stessa del mimetismo: mentre il carro si dirige verso i confini del mondo, la madre intona un canto, cui si unisce per imitazione la stessa Thomasin.
La famiglia si abbandona così alla propria discesa verso un inferno privato di mediazione, testimoniato dalla successiva breve ma grandiosa scena, in cui la famiglia è appena distinguibile, per il fuoco accesso in mezzo al bosco, dall'oscurità e dalla natura selvaggia che la circonda, che incombe minacciosa con la sua forza dissolutrice, che promette di riassorbire nell'indistinzione. Al sorgere del sole, il taglio sequenza introducendo la nuova scena, il giorno si presenta come un campo lunghissimo, in cui un'esigua porzione di orizzonte terrestre presenta una natura boschiva e totalmente deantropizzata, indistinta, appunto, e questa riduzione dello spazio occupato dalla terra nell'inquadratura schiaccia lo spettatore, quasi portandolo a coincidere con essa, proprio in quel riassorbimento nell'indistinzione e nella deumanizzazione cui conduce la spirale mimetica: la successiva scena ci presenta infatti il primo piano del padre con il volto premuto nella terra, che solo dopo qualche secondo si rivela essere chino in preghiera: una preghiera rivolta però in ringraziamento verso le soglie di un bosco tra i cui rami sembra smarrirsi qualsiasi luce e sembrano abitare solo le tenebre, come testimoniato dallo sfumare di una melodia strumentale, tutto sommato conciliante, in un coro tagliente e infernale.
È opportuno qui richiamare come l'archetipo del bosco (23) costituisca ciò che all'epoca dei primi cristiani costituiva il deserto, e successivamente hanno costituito il mare e l'oceano (24): l'archetipo proprio dell'indistinzione, del venir meno delle forme (che in particolare nel bosco vedono dissolversi la propria definizione a causa dell'impenetrabilità della luce solare); luogo quindi della prova, ma in questo anche di rifugio, laddove la prova sia superata, o sia già stata superata, e si sia costituita una nuova soggettività in grado di stare presso le fiere senza esserne lacerata e disumanizzata, ma, anzi, trovando in esse compagni all'altezza della propria magnanimità; luogo inoltre, dall'epoca medievale, di esclusiva proprietà del sovrano – unico autorizzato a cacciarvi – in quanto colui che aveva dato prova di potervisi addentrare e uscirne trionfante, uscirne cioè costituito nella propria sovranità, sul regno e su se stesso, in quanto signore sulle forze disgreganti che portano indistinzione; il re è colui che «di tanto in tanto, per via della caccia o dei suoi rapporti con gli eremiti, va ad attingervi sacralità e legittimità» (25). Uscire dal bosco, come uscire dal deserto o emergere come un'isola dal mare (26), è uscire nella propria sovranità affermata, quindi nella propria soggettività e identità definite, dissolte e domate tutte le forze disgreganti e indifferenzianti.
E sarà proprio nell'indistinzione del bosco che scompare Samuel, bimbo ancora non battezzato e preso nelle trame mimetiche della famiglia; nell'indinstinzione del bosco che prima William, seguito da Caleb, poi questi in solitaria imitazione del padre, si inoltreranno alla ricerca della prova della loro pienezza ontologica; nell'indistinzione del bosco che Thomasin lascerà perdersi la propria singolarità sfatta dai drammatici eventi e dalla polarizzazione espiatoria che l'ha vista vittima, agglutinandosi nel delirio immaginario a partire dalla forma soggettuale dell'anormale, dell'esclusa, cui le azioni e le parole della famiglia l'hanno spinta e relegata: quella della strega. È nell'indistinzione del bosco che abita la strega: figura del desiderio che colliqua ogni differenza e ogni ruolo sociale, ogni dovere e ogni identità associata. È nell'indistinzione del bosco che ciascun protagonista proietta i suoi desideri e i suoi fantasmi di soggettualità deliranti.
Nonostante la brevità di queste scene nel loro intervallarsi, il loro simbolismo è eloquente, e ripresentano la seconda relazione mimetica, quella tra Thomasin e sua madre, subito riproposta sia nella scena della confessione, sia al principio della scena successiva: nella prima la fanciulla confessa anche allo spettatore – controcampo dell'inquadratura – il proprio animo tormentato e desiderante, in contrasto con l'immagine angelicata e di dedizione con cui è stata presentata fino ad ora; nella seconda, nelle scene di vita quotidiana cui assistiamo, mentre la sua voce fuori campo recita la confessione, Thomasin si adopera nella cura tanto dei lavori domestici quanto dei bisogni del resto della famiglia, in imitazione di una figura materna che i tratti duri del volto presentano come figura dell'abnegazione e del rigore morale ai limiti dell'anaffettività. Imitazione richiesta dalla madre stessa nel modo duro con cui le porge il figlio neonato da curare: non vi è una richiesta verbalmente precisa, che rechi riconoscimento e richiesta di un dono di cura, ma solo viene proferito il nome della figlia, associato al gesto con cui le porge il figlio, quasi a stabilire, mediante questa stretta immediata relazione tra il nome e il gesto, la definizione stessa della persona di Thomasin, della sua identità, riassorbita cioè nell'imitazione invocata e suscitata della madre.
Ed ecco in seguito la scena del delitto che mette in moto l'infernale escalation: Thomasin si porta sul confine del bosco, quasi a dirci il suo portarsi presso le soglie dell'umanità, e gioca a far sparire il fratellino. Il fratellino sparisce davvero. Qui vediamo già una di quelle scelte registiche che possono essere addotte a sostegno di una determinata tesi interpretativa della pellicola, cui già si è accennato: la parte iniziale di questa scena si compone di alternate inquadrature campo e controcampo di Thomasin e di Sam; mentre vediamo un paio di volte, alternata al fratellino ridente, la giovane portarsi le mani sul volto per giocare a nascondere Samuel, sentiamo sempre nel contempo le risate di questi; nel momento in cui Thomasin è inquadrata farlo per la terza volta prima di liberare il suo sguardo e constatarne la sparizione, già a partire dal taglio registico che stacca da Sam per inquadrare lei, non sono più udibili le risate del fratellino. Il fratellino è già stato rimosso, e con lui la consapevolezza delle proprie azioni. Questa è una delle scelte registiche che motiva la possibilità di sostenere – è forse opportuno chiarirlo subito – che la strega che abita nei boschi non sia, nel film, una presenza reale, ma la proiezione, offerta all'immaginario dello spettatore, dell'immaginario dei poli mimetici, l'attraente minaccia che tormenta e abita i loro desideri, e, infine, la forma stessa di soggettività sancita quale anormale, che una singolarità espulsa girardianamente da un foucaultiano sistema di sapere-potere acquisisce, la forma in cui si agglutina, la forma in cui si territorializza nel delirio allucinatorio in cui realtà e follia, realtà e sogno, si confondono.
Thomasin entra nel campo visivo da sinistra, corre verso il bosco, alle cui soglie si ferma. Poi è l'interno del bosco ad essere inquadrato, e l'ombra indistinta recante il bambino è vista correre tra gli alberi, anch'essa da sinistra a destra, e addentrarsi nell'oscurità. L'ombra, la proiezione, completa la corsa di Thomasin, offrendosi visivamente come la realizzazione di un moto che Thomasin è mostrata trattenere. Questa continuità formale dei movimenti e della composizione delle immagini sullo schermo offre lo spazio per sostenere la tesi della natura proiettiva della strega, del suo essere figura simbolica, che una singolarità, costretta entro le forme di un episteme, indossa o attribuisce di fronte all'eversione del desiderio deterritorializzante le forme consentite dall'intreccio sapere-potere.
Ed ecco ora le prime scene in cui vediamo le ritualità della strega, di cui non è mai qui mostrato il volto ma di cui vediamo i segni di una corruzione corporea altamente simbolica, compiute nella stessa liminalità morfologica, nella stessa indistinzione ritagliata da un fuoco nell'oscurità, la stessa in cui abbiamo visto la famiglia subito dopo averne seguito l'allontanamento dalla colonia. La vediamo ricoprire se stessa e un qualche oggetto che si presume caratterizzarla, richiedendo pertanto la stessa abluzione che lei riserva al suo corpo, del sangue della vittima, del sangue che il delirio mimetico ha invocato per dare vita a una nuova differenziazione: benché la si veda di spalle, dal profilo sembra infatti apparentemente ringiovanita, e la vediamo camminare nella notte verso una Luna piena: sorta in cielo come lei sorge dal sacrificio, entrambe inaugurano un ciclo di esistenza contrapposto alla luce solare, come la Luna astronomicamente al Sole si contrappone rispetto alla Terra durante il plenilunio, costituendo così il polo astronomico opposto.
La scena successiva ci mostra l'interno dell'abitazione: Caleb, fratello minore di Thomasin, è il primo a svegliarsi nella desolazione di una famiglia sulla quale si è abbattuta la tragedia della scomparsa del neonato, a sommarsi alla miseria della vita da espulsi anche dalla generosità agricola della terra. Vediamo qui un'altra relazione di scandalo: Caleb, ragazzino in età puberale che l'imitazione del padre spinge ad una precoce età adulta, imita degli adulti anche i desideri a sfondo sessuale: il primo piano ci rivela come sia attratto dalla sorella, come testimonia il primo piano in controcampo e soggettiva del suo sguardo sul petto ansimante di Thomasin, il cui tormento notturno sembra accentuare il suo desiderio: ed è forse per zittire questo impulso interiore che lui la sveglia, per poi dirle di dormire tranquilla, dopo averle però lasciato il tempo di udire i pianti della madre e aver così provato la stessa angoscia che lui avverte: è questa angoscia la prova di fronte alla quale egli vuole mostrare di essere un uomo come il padre, con la stessa capacità di far fronte alle disgrazie, rimanendo comunque padrone della situazione, e meritandosi pertanto il possesso sessuale e la dedizione della propria partner, che, in una condizione di isolamento e assenza di prospettive relazionali ulteriori, per contiguità anagrafica, trova nella sorella.
Il successivo dialogo con il padre fornisce una prova di questa imitazione, invocata dal padre stesso: quando Caleb risponde con stupore e perplessità di fronte all'invito del padre ad accompagnarlo a caccia, violando così l'interdizione del bosco posta dai loro genitori, il padre invoca l'imitazione con una domanda retorica, intrisa della pedagogia del senso di colpa, sulla sua volontà di aiutarlo. Questo «non vuoi aiutare tuo padre?» suona come «non vuoi essere alla mia altezza? Non vuoi imitarmi?»; di più: «non vuoi offrirmi, con la tua imitazione, la conferma del mio valore, del mio essere nel giusto, del mio adempiere e realizzare il modello di padre di famiglia, apostolo della fede e buon pastore?». Questa domanda rivela l'angoscia esistenziale sotto cui è crollato William: il raccolto marcio, dai non escludibili successivi effetti lisergici, la perdita di un figlio e il dolore della moglie che ne muta probabilmente la relazione mimetica fino ad allora intercorsa, l'assenza di una immediata prospettiva da offrire alla famiglia e il venir meno della conferma che gli proveniva dalla sua relazione mimetica con il resto della colonia e in particolare con i suoi pastori, spalancano per lui quel silenzio, che riempirà chiudendosi dapprima nell'ostinazione e nella convinzione dell'inarrivabile differenza del proprio io, autentico ed unico testimone di fede. In seguito svelandosi discepolo succube della moglie, di cui implorerà una manifestazione di desiderio che attribuisca però a lui ancor ala facoltà di realizzarlo. E, infine, abbandonandosi al sistema sacrificale del capro espiatorio, come ultima risorsa che stabilisca un senso alla drammatica serie di eventi infausti, e ultima possibilità di ritrovare una forma soggettuale definita per sé: ed è in questo tentativo che, a fronte della dissoluzione delle trame del reale nel delirio mimetico e nell'avversità degli eventi, William cederà, ricorrendo agli enunciati che caratterizzano il sistema sapere-potere cui appartiene l'Inquisizione, per restituire una visibilità agli eventi e alle singolarità che ha innanzi, compresa la sua: ritrovare quelle forme per soggetti e oggetti, anche spingendosi in quella zone del diagramma (27), che producono una realtà terrificante ma ad ogni modo morfologicamente definita, quindi delineando delle precise dinamiche di potere che possono essere così intercettate e seguite per restituire un qualche ordine al caos e una qualche possibilità di visibilità, intellezione e azione a sé.
Lo sviluppo secondo questo movimento, che unisce insieme il tentativo di territorializazione delle soggettività deterritorializzate dalla drammaticità degli eventi, alla territorializzazione come strumento coercitivo di assoggettamento della caoticità che sorge come legione entro sé, e viene spinta sacrificalmente nel corpo della vittima, cui si chiede di aderire nelle parole e nelle pratiche alla formazione della soggettività delineata dall'intreccio sapere-potere, vede nella prosecuzione del film rappresentazione emblematica, che verrà trattata in una seconda parte, a completamento di questa.
Note:
(1) Cfr. C. Ginzburg, Storia Notturna. Una decifrazione del sabba (1989), Edizione CDE, su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano 1991, pp. XIII-XLV.
(2) Ivi, pp. XXV.
(3) Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. di A. Tarchetti, Giulio Einaudi editore, Torino 2020, p. 31.
(4) Cfr. M. Foucault, L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), tr. it. di G. Bogliolo, RCS Rizzoli Libri, Milano 1999, pp. 98-99.
(5) Ivi, p. 250.
(6) Ivi, pp. 60-61: «Questi rapporti [costituiti da pratiche discorsive e relazionali, tanto private quanto pubbliche e istituzionali. ndr] [...] hanno permesso la formazione di tutto un insieme di oggetti diversi. […]. Le condizioni perché compaia un oggetto di discorso, le condizioni storiche perché se ne possa 'dire qualcosa', le condizioni perché più persone possano dirne cose differenti, le condizioni perché esso si inscriva in un ambito di parentela con altri oggetti, perché possa stabilire con essi rapporti di somiglianza, di vicinanza, di lontananza, di differenze, di trasformazione, sono, come si vede, numerose e pesanti. Il che significa che non si può in qualunque epoca parlare di qualunque cosa; non è facile dire qualcosa di nuovo; non basta aprire gli occhi, fare attenzione, o prendere coscienza, perché immediatamente nuovi oggetti si illuminino […]. Ma questa difficoltà non è soltanto negativa; non bisogna collegarla a qualche ostacolo […]; l'oggetto non aspetta nel limbo l'ordine che lo libererà e gli permetterà di incarnarsi in una visibile e loquace oggettività; non preesiste a se stesso […]. Esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di rapporti».
(7) Ivi, p. 70: «Le posizioni del soggetto vengono ugualmente dalla situazione che può occupare in rapporto ai diversi campi o gruppi di oggetti». Cfr. anche pp. 73-74.
(8) Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit., p. 29: «Ma il corpo è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l'investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l'obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. […]. Questo assoggettamento non è ottenuto con i soli strumenti sia della violenza che dell'ideologia; […]. Ciò vuol dire che può esserci e un 'sapere' del corpo che non è esattamente la scienza del suo funzionamento e una signoria sulle sue forze che è più forte della capacità di vincerle: questo sapere e questa signoria costituiscono quello che potremmo chiamare la tecnologia politica del corpo» (virgolette dell'autore).
(9) Cfr. M. Foucault, L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, cit., p. 98.
(10) Ivi, p. 251.
(11) Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit., p. 212: «In effetti il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L'individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione».
(12) Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la geneaologia, la storia (1971), in Microfisica del potere (1977), Giulio Einaudi editore, Torino, pp. 29-54, consultato presso il sito https://gabriellagiudici.it/michel-foucault-nietzsche-la-genealogia-la-storia/ .
(13) Cfr. C. Ginzburg, Storia Notturna. Una decifrazione del sabba , cit., pp. XXV-XXVII: «Ma nello stereotipo del sabba emerso attorno alla metà del '300 nelle Alpi occidentali affiorano elementi folklorici estranei all'immagine inquisitoriale, diffusi in un'area molto più vasta. […] In una società traversata da conflitti (ossia, presumibilmente, qualunque società) ciò che è male per un individuo può essere considerato un bene dal suo nemico: chi decide che cosa è 'male'? Chi decideva, allorché in Europa si dava la caccia alle streghe, che determinanti individui erano 'streghe' o 'stregoni'? La loro identificazione era sempre il risultato di un rapporto di forza, tanto più efficace quanto più i suoi risultati si diffondevano in maniera capillare. Attraverso l'introiezione (parziale o totale, lenta o immediata, violenta o apparentemente spontanea) dello stereotipo ostile proposto dai persecutori, le vittime finivano col perdere la propria identità culturale» (corsivo e virgolette dell'autore).
(14) Cfr. R. Girard, Il capro espiatorio (1982), tr. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi Edizioni, Milano 1987, pp. 250-256.
(15) Ivi, p. 252.
(16) Ibidem, in particolare pp. 253-254.
(17) Cfr. M. Foucault, L'ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola (1970), tr. it. di A. Fontana, Giulio Einaudi editore, Torino 1977, pp. 27-28.
(18) Cfr. M. Foucault, L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, cit., p 146-149.
(19) Ivi, p. 174.
(20) Ivi, p. 175.
(21) Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) (2004), tr. it. di P. Napoli, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2020, pp. 100-103: «il potere del pastore non si esercita su un territorio, ma per definizione su un gregge e, più precisamente, sul gregge che si sposta da un luogo all'altro. […] il potere pastorale è fondamentalmente un potere che fa del bene […] la sua ragion d'essere si esaurisce in questa funzione, perché l'obbiettivo essenziale del potere pastorale è la salvezza del gregge. […] Il potere pastorale è un potere che cura […]. Il potere del pastore si manifesta pertanto in un dovere […]. Il potere pastorale si manifesta inizialmente attraverso lo zelo, la devozione, l'infinita sollecitudine. […] Infine, un'ultima caratteristica […]: l'idea del potere pastorale come potere individualizzante. È vero che il pastore dirige tutto il gregge, ma può farlo solo a condizione che nessuna pecora sfugga al suo controllo. Tutto ciò che fa è rivolto alla totalità del suo gregge, ma anche a ogni singola pecora. Qui ci imbattiamo nel famoso paradosso del pastore […]. Il paradosso emerge in maniera ancora più chiara nel tema del sacrificio del pastore per il suo gregge: sacrificio di se stesso per la totalità del gregge, e sacrificio della totalità del gregge per la singola pecora. […] D'altro canto, il pastore si troverà nella situazione di trascurare la totalità del gregge per salvare una singola pecora».
(22) Cfr. R. Girard, Il capro espiatorio, cit., pp. 247-249.
(23) Cfr. J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale (1983), tr. it. di M. Sampaolo, Editori Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 25-44.
(24) Cfr. G. Tardiola, Atlante fantastico del medioevo (1990), De Rubeis Editore, Anzio 1990., in particolare le pp. 129-142.
(25) Cfr. J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale, cit., p. 44.
(26) Cfr. E. Neuman, La grande Madre. Fenmenologia delle configurazioni femminili dell'inconscio (1955), Astrolabio Ubaldini, Roma 1981, p. 241, citato in G. Tardiola, Atlante fantastico del medioevo, cit., p. 130: «L'Oceano primordiale, di cui abbiamo già riconosciuto il carattere originario notturno, fa nascere il colle primordiale, che dal punto di vista cosmologico significa la terra, e dal punto di vista psicologico, la coscienza, emergente dall'inconscio, fondamento dell'Io diurno. Per tale motivo il colle primordiale, al pari della coscienza nell'inconscio, costituisce un''isola' nel mare» (virgolettato dell'autore).
(27) Cfr. G. Deleuze, Foucault (1986), tr. it. di F. Domenicali, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2020, pp. 48-51.
The witch
Innanzi tutto credo di dovermi complimentare per il saggio nel suo complesso che riesce a mettere insieme studiosi controversi che per quanto io sappia al momento non si citano mai nelle rispettive opere - avverto che per nessuno dei tre Girard Foucault Ginzburg ho raggiunto la lettura dell’opera omnia - ritengo che le riflessioni sul meccanismo sacrificale come episteme siano eccellenti ed affascinanti
Nel personaggio di Thomasin bisogna considerare l’ingarbugliarsi di alcuni fattori - l’adolescente intuisce precocemente di essere la vittima sacrificale designata prima dal gruppo esteso poi dalla propria famiglia - quindi la prima complicazione è rappresentata da una giovane donna, un’adolescente, che cerca di salvarsi la vita: la salvezza, in qualche modo, è diventare una “streg…