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De imitatione Christi | Un paradosso espiatorio

di Ludovico Cantisani


Ai margini di una lettura di Vedo Satana cadere come la folgore



Che Gesù avesse una certa tendenza alle frasi ad effetto è fuori dubbio; e che anche René Girard amasse dare alle sue opere titoli di non minore impatto è facile riscontrarlo già solo sfogliando la raccolta dei suoi saggi pubblicati dall’Adelphi. Non è un caso allora se il più evangelico dei testi girardiani si intitoli Vedo Satana cadere come la folgore. In questo saggio, pubblicato da Grasset & Fasquelle nel 1999 e arrivato in Italia nel 2001 grazie a Roberto Calasso, René Girard tenta e certo sfiora una spiegazione del Cristianesimo – e del rapporto/conflitto tra l’elemento giudaico-cristiano e l’elemento pagano nella storia della cultura occidentale – come dispiegamento mimetico, del Cristianesimo come di una struttura che in un certo senso (prevalente) abolisce e in un certo senso (minore ma più profondo) stimola la mimesi.


È facile applicare al Cristianesimo il concetto di mimesis: basta traslarlo nella sua traduzione italiana più ricorrente, imitazione, e subito si risale al titolo del più letto trattato teologico del Medioevo, l’Imitazione di Cristo attribuita, forse misattribuita, a Tommaso di Kempis. L’Imitazione di Cristo, De imitatione Christi: un testo di rigoroso e disarmante ascetismo, amato da Santa Teresa di Lisieux tanto quanto da Voltaire. Se poi da imitatio si passa al concetto latino, di difficile traduzione, di sequela, non tarda a tornare alla mente la cosiddetta sequela Christi: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”. Vangelo secondo Matteo, capitolo 10, versetti 37-39: parola del Signore, rendiamo grazie a Cristo.


Il Cristo si propone al suo seguace come modello assoluto di vita e di fede: fin qui, il fondatore del Cristianesimo non è dissimile da nessun santone. Ma se Cristo va imitato, va imitato fino alla croce e oltre, nella resurrezione, percorso che Gesù stesso ha – avrebbe – percorso per primo: questo è meno scontato. L’”imitazione” – la mimesi – di Cristo è il contrario e il parossismo del capro espiatorio come monadicità sacrificale che assume su di sé tutti i peccati a.k.a. tutte le tensioni sociali di una comunità: imitando il Cristo, percorrendo la sua sequela, ci si fa tutti espianti, espiatori ed espiati, in un’indifferenziazione non più del desiderio bensì del sacrificio. La religione come livellamento, per citare un’altra parola con cui, nel cap. I.2 (Il ciclo della violenza mimetica) di Vedo Satana, Girard parafrasa alcuni concetti del Deuteroisaia – e chi conosce l’immaginario girardiano sa quanto il livellamento e l’indifferenziazione possano essere pericolosi nel suscitare l’emergere di una figura espiatoria.


Dove le altre religioni risolvevano il contrasto con una violenza sacrificale ai danni di un singolo capro espiatorio, il Cristianesimo però inscena un altro gioco mimetico. La stessa imitatio Christi non è altro che una imitatio Dei (p.33) – se vogliamo, una meta-imitazione. Compimento, capovolgimento e in senso alto parodia di ogni mimesi grettamente umana, destinata a sfociare nella violenza sacrificale che il mito copre e giustifica. Se Dio o meglio suo Figlio, incarnato o se vogliamo “gettato” nel mondo, finisce per essere appeso sulla Croce a mo’ di capro espiatorio in un momento di particolari tensioni sociali e religiose tra ebrei e romani, questa è la prova inconfutabile – per chi crede, ma non solo – della sostanziale iniquità del dispositivo espiatorio-sacrificale: la grande differenza tra la mitologia nel suo complesso e il Vangelo nella sua specificità, dice Girard in quella che è una delle intuizioni più folgoranti e semplici del suo opus, è che nel mito la vittima del rito è sempre colpevole e impura, nel Cristianesimo la si rivela come innocente e arbitrariamente se non capziosamente scelta, per caso o peggio ancora per invidia. Questa è un’apocalisse sacrale, se si coglie il gioco di parole etimologico.



La mimesi nel Cristianesimo però non riguarda solo il singolo fedele che si dà alla sequela Christi, né il rapporto tra Gesù e Dio Padre – mimesi come particolarissima, unigenita filiazione. Elementi di mimesi, nella religiosità cristiano-giudaica, si ritrovano anche in ciò che pertiene i rapporti etici, umani, sociali, sotto gli occhi in ogni caso giudicanti del Dio del Decalogo. Il Decalogo stesso, e soprattutto la sua seconda tavola, è riletto da Girard alla luce di un duplice mimetismo: da un lato c’è un mimetismo rivalitario, concorrenziale, quello che in ultimo può condurre all’arbitrario sacrificio espiatorio, dall’altro c’è un mimetismo che resta sempre un rapporto tra modello e seguace, di emulazione, potremmo dire. Non per nulla l’ultimo dei dieci comandamenti – quello che nella scansione tradizionale cattolica è stato suddiviso in due, il nono e il decimo, il “non desiderare la donna d’altri” e il “non desiderare la roba d’altri” – sembra premurarsi in modo specifico e particolare di andare a sanzionare il mimetismo ab origine, nel desiderio interiore, nel potenziale rischio di invidia.


Se il Decalogo, con la sua attenzione schematizzata al livellamento e all’assenza di conflittualità, rappresentava l’antica cultura ebraica al colmo della sua chiarezza, il Nuovo Testamento farà un ulteriore passo in avanti. “La maniera migliore di prevenire la violenza non è proibire gli oggetti o lo stesso desiderio rivalitario, come fa il decimo comandamento, bensì fornire agli uomini il modello che, anziché trascinarli nelle rivalità mimetiche, li protegga da esse” (pag. 34). Dalle pagine di Girard il Nuovo Testamento emerge come decisa positività, in senso etico-morale prima ancora che legale, laddove nell’Antico Testamento emergeva prevalentemente - ma non del tutto - la negatività, almeno nella secondata tavola del Decalogo. Questi stessi “comandamenti sociali”, che vanno dal “non uccidere” al “non desiderare la moglie del tuo prossimo… né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” passando per il famigerato “non commettere atti impuri”, erano a ben vedere il rovescio negativo - il negativo fotografico, se vogliamo - del principio kantiano dell’”agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”. E ciò non vale solo per l’Antico Testamento: anche la testimonianza a tratti agghiacciante dell’”orrendo miracolo” di Apollonio di Tiana, tramandataci da Filostrato, fa esplicito riferimento ai vantaggi etico-morali di una “sana emulazione”. Ogni azione, per essere buona, etica, deve risultare al tempo stesso come sommamente imitabile e del tutto scevra da ogni forma di mimetismo invidioso, rivalitario. Una doppia mimesi insomma, la consapevolezza della quale traspariva già dall’Antico Testamento e che il Nuovo saprà condensare in un’unica figura risolutamente sacrificale: Gesù, la cui grandezza religiosa sta proprio, secondo la lettura girardiana, nel fatto di aver “smascherato” il meccanismo sacrificale in un modo tanto definitivo e risonante da far crollare, apparentemente per sempre, ogni ideologia mitica circa la colpevolezza della vittima appena immolata.


Per avere una nuova visione dell’etica, del comandamento – il passaggio dalla proibizione ai due “comandamenti dell’amore” – servirà il Nuovo Testamento: eppure neanche il Nuovo Testamento è una risoluzione definitiva. Seppur smascherato, il mito espiatorio continuerà a riproporsi, sia pure in forma smorzata; e – in questo Girard è lucidissimo - proprio là dove meno lo si sarebbe aspettato, nel seno delle gerarchie del Cristianesimo istituzionalizzato. L’imitazione di Cristo che diventa imitazione di Caifa, una regressione espiatoria: “ci sarà, nel corso di tutta la storia cristiana, la tendenza da parte degli stessi cristiani a fare di Gesù uno scandalo di ricambio, la tendenza a perdersi e confondersi nella folla dei suoi persecutori”. In modo particolare è la caccia alle streghe ad apparire, agli occhi di Girard, come esempio di un mito ormai svelato ma ciononostante destinato a ripetersi e a contraddirsi nel prosieguo della persecuzione mimetica. In una visione che parte dall’antropologia ma che non lesina di sfiorare l’escatologia, Girard in alcuni passaggi sembra lasciar intendere che solo l’apocalisse, quella vera, il Giorno dei Giudizi con i suoi eschaton e le sue ricompense per i buoni e punizioni per i malvagi, potrà davvero spazzare via, con una travolgente forza rivelatoria, le ultime metamorfosi postume dell’archetipo del singolo capro espiante, arbitrariamente scelto da sacrificare per la salvezza della comunità.


Lasciamo momentaneamente Girard qui dove è arrivato, ai margini della fede, e voltiamoci un’ultima volta indietro a ripercorrere il percorso che l’antropologo ha percorso nel suo Vedo Satana. Più che le tappe le implicazioni, di questo percorso – che non sono poche. A ben vedere, se Dio è il Totalmente altro, Dio è l’impossibilità di ogni mimesi, e la sequela Christi una provocazione regolativa, resa possibile dalla posizione mediana e mediatrice del Cristo “a metà” – ci sarà perdonata questa rozzezza teologica – tra Dio Padre e gli uomini. Il sacrificio espiatorio è in partenza arbitrario, ma non tarda a prediligere il divergente, lo “strano”, il dissonante – sia esso lo zoppo, il folle, l’ipoteticamente incestuoso. Allora tanto più sarà liminare, divergente e follemente impuro chi è al tempo stesso “Figlio eterno e santo, uomo come noi”, come dice il Symbolum 77: ed ecco, al di qua di ogni speranza o illusione di resurrezione, una visione laica del Cristo evangelico, che veramente si merita quella definizione di “testata d’angolo” che, sulla falsariga del Salmo, gli davano i Vangeli – uno spiritus contradictionis, nel vero senso della parola, che comprensibilmente non tarda a polarizzare su di sé l’attenzione, l’invidia e in ultimo tutte le tensioni sociali.



Ma forse il ruolo della Passione di Gesù, nello smascherare il meccanismo espiatorio-sacrificale, non è così tanto positivo come René Girard crede. Positivo in senso assoluto, ecco: la lettura girardiana della Passione di Cristo attribuisce a questo evento, meno storico che religioso, non un eccessivo peso, ma un’eccessiva purezza. Non sa contaminarlo. In fondo, il morire del cristologico è un emergere teofanico del divino: in questo c’è qualcosa di maestoso nel vero senso della parola, ma anche qualcosa di terribile. La Passione di Cristo, nell’immaginario cristiano, non si limita a smascherare e a far concludere il dispositivo sacrificale: essa fonda, con il sangue, il Regno di Dio sulla terra. Nella sua tetra violenza, nell’obbedienza assoluta che il Figlio dimostra al Padre con il suo “nelle tue mani affido il mio spirito”, vi è la più totalizzante e la più contraddittoria delle teofanie, anche se cancellassimo la distinzione, fin troppo cara a Girard, tra il “mito” (pagano) e la “religione” (cristiana o tutt’al più giudaico-cristiana). “A meno che Dio non voglia dire morte”, chiosava Jacques Derrida commentando Levinas nel suo Violenza e metafisica. Che ci piaccia o no, è a Dio che molti dei sacrifici si rivolgevano e tuttora si rivolgono, e spesso ai danni dell’impuro divergente: sacrifici per Dio che dopo la crocifissione di Gesù diventano anche sacrifici di Dio…


Portando Girard all’estremo, non c’è solo Satana che scaccia Satana per mezzo di sé stesso, con l’obiettivo segreto di riaffiorare nei contrasti mimetici: c’è anche Dio che scaccia Dio, in un “atto mancato” di kenosis che non separa mai davvero Dio e il mondo – come potrebbe farlo? – ma che anzi chiede e impone all’umano quest’incomprensibile, altissima e impossibile mimesi del divino e del cristologico che è la fede. Ma Dio è e resta la Totalità – e forse un filosofo altrettanto religioso ma meno credente di Girard non avrebbe esitato a tracciare un parallelo tra la Totalità sociale indifferenziatamente polarizzata su un unico capro espiatorio negli attimi prima del sacrificio e questa Totalità divina ineluttabilmente protesa verso il singolo uomo. L’individuo al cospetto dell’Assoluto sa – crede – che quest’assoluto invisibile voglia il suo bene, così come la stessa vittima di un sacrificio può arrivare a ritenersi colpevole o quantomeno salvifica per il bene superiore della comunità: ma l’arbitrarietà con cui si esplicano e la volontà di Dio e la furia sacrificale della comunità non mancano di impensierire ogni uomo e ogni vittima. Con il Cristianesimo, la frenesia mimetica degli uomini e il dispositivo sacrificale nel suo complesso vengono smascherati e condannati, nel loro infantilismo culturale: ma l’Assoluto è sempre assolto. Un politeismo come quello greco-romano mostrava una contaminazione maggiore nella rappresentazione di uno sfaccettato e polimorfo divino, rispetto al granitico monoteismo giudaico e ancor di più cristiano: al di là di ogni antropomorfismo e sacrificio collettivo, al di qua di una sacralità del Verbo e di ogni sacrificio personale, nel mistero di un’incarnazione del divino sulla Terra in un qui e ora che dopo duemila anni è diventato un lì e allora e che ancora chiede e forse pretende una mimesi, il Cristianesimo ha il suo paradosso più problematico e più fertile. Girard apre le porte a questo paradosso ma non lo esplora, forse perché apoditticamente paradossale sin dalla sua messa a parole: in che modo l’uomo può imitare Dio?


Il fatto è che, nel bene come nel male, Vedo Satana come la folgore mostra un René Girard al pieno della sua elaborazione antropologica, del suo impeto filosofico – e teologico. Sulla soglia degli ottant’anni, Girard sembra mettere da parte le ultime preoccupazioni di etichetta accademica, realizzando una delle sue opere più personali, più estremistiche se vogliamo. Sulla globalizzazione assume delle posizioni indubbiamente parziali – “solo in via secondaria è un fenomeno economico”, “la sua vera forza motrice è la fine delle chiusure sacrificali, è la forza che, dopo aver distrutto le società arcaiche, sta ormai smantellando quei loro surrogati che sono le nazioni moderne” - ma maledettamente epifaniche. Leggendo Vedo Satana cadere come la folgore si sfiora il vertiginoso dubbio che forse la democrazia susciti non meno dell’istituto della monarchia sacra l’insorgere di crisi mimetiche e sacrificali – una radicalità ermeneutica di quelle benvenute, in questo tempo senza indagine – e si ritrova l’intuizione, altissima e disarmante, che alla fine la vittima predestinata del ciclo mimetico sia proprio chi, poiché diverso, rifugge la mimesi (pag. 48). Verso la fine della trattazione Girard poi fa dei brevi cenni al concetto di vittimismo, di vittimismo come stato mentale, condizione di non-apertura verso il resto del mondo, che ti fanno rimpiangere di non essere più lunghe: e la sua condanna della “vittimologia”, datata ’99 e connessa addirittura con l’Anticristo, era quantomai in anticipo sui tempi. Spunti per ulteriori riflessioni li troviamo anche nel penultimo capitolo, La preoccupazione moderna per le vittime, quando dimostra la “superiorità dell’Occidente”, con un tono forse anch’esso rivalitario, ma su un assunto teorico di fondo – quella occidentale è l’unica civiltà ad aver prodotto il concetto di etnocentrismo, indi ammesso che sia etnocentrica è comunque meno etnocentrica delle altre - certamente difendibile.



Il vero problema del testo di Girard, particolarmente presente in Vedo Satana cadere come la folgore ma che si riverbera in fondo in tutta la sua produzione, sta allora nelle implicazioni ultime dei suoi testi, nel suo sconfinare saltuariamente nell’escatologia, nel suo sovrapporre, nell’esposizione, fede e religione cristiana come se fossero una cosa sola. Perché esiste una differenza, tra la fede e la religione: René Girard, in questo come e più che in precedenti testi, dimostra in un modo se non oggettivo quantomeno convincente la superiorità della religione cristiana sulle altre fedi; ma la sua intenzione ultima, come esplicitamente rimarcato già nell’introduzione, è di fare “ciò che fino a poco tempo fa si chiamava un’apologia del cristianesimo”, ovvero di dimostrare la superiorità della fede cristiana, la sua veridicità. È su questo punto che Girard si smaschera da solo, e nello scarto che divide la fede dalla religione viene meno anche lo scarto che separa l’antropologia dalla teologia: il suo monismo interpretativo si mostra potenzialmente e pericolosamente parziale, e si è tentati di rileggere le sue pagine in chiave critica, come se fossero le parole di uno dei tanti conservatori cristiani che popolano la Chiesa e il web. Eppure, eppure – al cospetto delle folgoranti intuizioni che puntellano questo come gli altri saggi di Girard, la radicalità di una visione tanto monistica del mondo e della civiltà nella sua parzialità assume la più viva forza, e, ancorché parziale, l’idea di una (unica) struttura mimetico-espiatoria posta dialetticamente alla base della nascita e dello sviluppo della civiltà umana assume un indiscutibile portato ermeneutico e non religioso ma senz’altro ontologico. Il credente allora è colto nell’imitazione di un’imitazione, alla sequela Christi: chi non crede rinnega la fede, ma non può esimersi dal cogliere la mimesi.

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