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Del pacifismo relativo | La celebrità come dispositivo di governo

Aggiornamento: 5 nov 2023



Amici di famiglia mi hanno recentemente riferito di come l'insegnante di filosofia del proprio figlio liceale stia ora affrontando Freud, e in questa occasione abbia proposto per questo autore (non per Hegel, non per Nietzsche) un solerte approfondimento, somministrando niente meno che uno scambio epistolare tra questi e Albert Einsten, occasionato da quest'ultimo che era stato incaricato dalla Società delle Nazioni «di discutere in pubblico con altri intellettuali su temi a sua scelta», poiché «dal 1919 lo scienziato più noto del pianeta. Einstein avversa il nazionalismo in ogni sua forma, in primo luogo quello militarista. Si sente cittadino del pianeta, membro della "razza umana". E come cittadino del pianeta e membro della razza umana sviluppa i suoi ragionamenti intorno alla necessità della pace.» (cito il pdf fornito agli studenti). Sapendo dei miei interessi di studio, hanno proposto al proprio figlio di condurne la lettura e la riflessione con me, proposta che ho accettato di buon grado, premettendo di non avere approfondimenti alle spalle su alcuna delle due personalità coinvolte. Così, trovatici, abbiamo cominciato insieme la lettura partendo dalla lettera vergata da Einsten, prima missiva nello scambio tra i due: se non fosse che ho già scomodato precedentemente il signor Brando, anche questa volta esclamerei: “L'orrore!”.




Ma come?! L'uomo più intelligente della terra, questo vertice di moralità e sapienza, santino de iBuoni™ e iMigliori™ ha prodotto davvero una così straziante dimostrazione di pochezza intellettuale nelle sue riflessioni rivolte a Freud? Questo campione di saggezza, eletto dalla Società delle Nazioni ad araldo del pacifismo, dopo lungo travaglio ha rivolto a un'altra brillante mente del suo secolo questa lettera che è equiparabile a quei temi di saccenti liceali che fanno sfoggio di argomentazioni ripetute a imitazione dei loro modelli adulti, quei temi da quali il tentativo di occasionare faticosamente un dialogo che suggerisca maggior spirito critico risulta sempre un esercizio di funambolismo tra la speranza che anche loro un giorno si renderanno conto delle implicazioni di ciò che adducono come illuminate riflessioni, e la tentazione di mostrare subito e fermamente tali implicazioni, scongiurando almeno che alla legittima pochezza di ciò che affermano non si accompagnino l'arroganza e la supponenza?

E così ci siamo trovati davanti questa lettera, in cui l'illuminato fisico propone quella che – di fatto – è una teoria che si potrebbe definire di ammiocugginoquello grosso: «facciamo che creiamo un ammiocuggino bello grosso, così che quando due liticheno chiamiamo lui che je dà 'na capocciata a'ntrambi e così c'ha ragione lui?» (non è una citazione, ma un dialogo immaginato nella mente di tanti solerti epigoni, colorito da una delle più piacevolmente espressive flessioni regionali).


Possibile che questo campione del pacifismo non sia stato in grado di concepire altro che questa forma di pacifismo del più forte? Possibile che non si sia reso conto di come un siffatto pacifismo non faccia altro che rilanciare lo scandalo della potenza, lo scandalo di un potere assoluto avocabile a sé quale giudice e poliziotto insieme, lo scandalo di un disconoscimento della reciprocità della sovranità (che sia psicologica o statuale è irrilevante perché analoghe, ma lascio la disamina di questa questione a chi in questo blog è ben più competente di me), disconoscimento che, richiamando unilateralmente a una recessione (poiché alle spalle di chi invoca ci sarebbe la presenza di questo giudice-poliziotto pronto a essere sguinzagliato alla bisogna), chiama alla sottomissione unilaterale a un principio d'ordine e di ragione sempre pronto a ricorre all'espulsione e alla violenza (reale o simbolica)? Un pacifismo privo di alcun richiamo al superamento delle difficoltà e del travaglio dell'essere umani e, in quanto tali, essere abitati da tutte le forze laceranti che ci costituiscono, ma un pacifismo che si riduce soltanto a un tentativo di espulsione delle singolarità in favore del trionfo di un pacifismo del vincitore, un pacifismo del monopolio della forza?


«Diritto e forza sono imprescindibili» e fin qui, va bene, ma poi: «e le decisioni del diritto s'avvicinano alla giustizia […] solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di imporre il rispetto del proprio ideale legalitario»: un discorso che potrebbe anche essere ammirevole nel suo realismo politico, laddove volesse significare che non esiste pratica del diritto che non sia in sé uso della violenza, e che solo arbitrariamente e poiché dispone del monopolio della forza si autoleggitima nell'attribuire la definizione di giustizia alle proprie pratiche. Ma il timore è che qui stia proprio parlando della giustizia nel senso di virtù, e che venga intesa non come ideale tensivo ma come coincidenza con la legalità e come effetto della disponibilità di forza in grado di imporre la legalità alle condotte.



Beninteso: non sto qui sostenendo che, qualora ti sfondino la porta di casa e magari minaccino i tuoi cari, si debba necessariamente rispondere con «prego, fate pure! volete anche un caffè?». Mi sto solo interrogando sull'opportunità – e l'onestà – intellettuale di presentare un pensiero come quello espresso da Einstein in quella lettera come pensiero del pacifismo, un pensiero che in una delle prime frasi con cui avanza la propria soluzione presenta la traccia del suo scandalo romantico: la sua rivendicazione di immunità dai sentimenti nazionalistici già pone il suo punto di vista come quello di chi sembra sentirsi altro da ciò che tormenta l'umanità, e anzi si premura di stabilire una posizione da cui possa prevenire il proprio contagio. Le eventuali esternalità della propria posizione sono problema altrui, di chi si ostinerebbe a rimanere attaccato a vetuste urgenze esistenziali.


Questo modo di pensare al pacifismo non fa che riproporre il meccanismo della violenza come risoluzione: non è quindi un pacifismo ma una pacificazione per mezzo della violenza; non è una delegittimazione della violenza, ma è una sua legittimazione volta a una pacificazione attraverso un suo uso esclusivo, il che vuol dire che non si fa altro che proporre un meccanismo sacrificale ultimo che sostituisca tutti gli eventuali meccanismi sacrificali locali, e che li sostiuisca attraverso un'espulsione che è fondamentalmente l'espulsione della singolarità in ogni sua forma – non solo statuale ma anche psicologica. La singolarità è la vittima sacrificale della pace perpetua, capro affinché si affermi e trionfi una differenza unica e universalizzante, che si ponga quale paradigma unico. Fondamentalmente, una neutralizzazione di ogni singolarità.

È quindi di fatto una proposta non di superamento della violenza, di progresso in senso autentico dell'umanità: è bensì un proposta di schiacciamento dell'umanità nella stessa logica sacrificale e in maniera radicale, fino in fondo, fino a una soluzione ultima che, per la simmetria tra sovranità statale e sovranità come consistenza esistenziale e psicologica, è la revocazione del principio di sovranità e della differenza psicologica in funzione di questa omogeneizzazione in stile soluzione dell'umanità nell'LCL, da cui possa non provenire più il rischio di una crisi sacrificale. Peccato appunto per l'insignificante contraddizione che questo verrebbe ottenuto non negando la logica sacrificale, ma instaurando un sacrificio ultimo, che rasenta i toni zootecnici. Non una pensiero altro della sovranità, ma un suo uso latente come dispositivo di assolutizzazione ed omogeneizzazione finale.


È questo il pensiero pacifista con cui vogliamo si confrontino i giovani studenti? Può questo essere addotto come vertice del pensiero pacifista di una cultura che ha alle spalle almeno duemila anni di un pensiero del perdono, del non rilancio dello scandalo, della non espulsione del nemico?

Una riflessione del genere me l'aspetto da uno qualunque degli augusti luminari che affollano scorrazzanti i salotti televisivi, non certo dalle menti più brillanti di un secolo; a meno che, ovviamente, non sia lecito adombrare un sospetto malizioso e girare a questo punto, la domanda verso questa iniziativa della Società delle Nazioni come dispositivo: associare questa posizione a una delle personalità tra le più insigni del XX secolo non potrebbe essere proprio un dispositivo di governo? Chiedersi insomma se non potrebbe essere un modo per gettare nell'agone una posizione apparentemente propria di un ordine di incontestabile razionalità – in realtà piuttosto superficiale per un qualsiasi sguardo un minimo realista – proprio per aizzare gli schieramenti in un alterco voluto e funzionale alla distrazione dalla vera domanda, che è quella riguardo il paradigma sotteso e la sua volontà di continuare a sfruttare il conflitto delle opinioni per orientare il peso politico e internazionale a favore di chi ha i mezzi per porsi come fazione egemone, riuscendo cioè a far sì che anche chi vi è subordinato si riconosca però nelle loro rappresentazioni e nei loro desideri.


Ah, caro René, forse l'umanità avrebbe proprio bisogno di un pacifismo migliore.

Per questo, «grazie, non compro niente», «I would prefer not to»




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