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I dolori della gioventù | Dietro al mito adolescenziale

Aggiornamento: 2 ott 2019


Qualche mese fa camminavo per una strada di Roma. Era uno dei primi giorni di primavera e il sole si affacciava con maggior coraggio. Alcune ragazze e ragazzi delle superiori tornavano da scuola con gli zaini in spalla. Il quadretto ha sortito in me un’allegra leggerezza. Una ragazzina e un ragazzino sostavano vicini sul marciapiede, con il fare intimo tipico della coppietta. Che teneri, ho pensato. Proseguo così per la mia strada passandogli di fianco. Tutto a un tratto un particolare turba l’idillio che si era generato. Sto parlando del rumore umido delle loro bocche che si baciavano. Questa nota morbosa bastò a scolorire immediatamente le tinte dolci dei miei pensieri. Ah, il mio inguaribile animo pascoliano.


L’episodio mi interrogò. Mi ritrovai a riflettere su uno dei più celebri ritornelli del senso comune vigente, quello riguardo la problematicità dell’adolescenza. Gli anni dell’adolescenza sono anni complicati, tormentati. Questo ed altri slogan affiliati non tornano solo nel parlare quotidiano, nella chiacchera comune, capita spesso che essi trovino un’elaborazione più raffinata e seriosa nella letteratura pedagogica e psicologica, in rappresentazioni artistiche e in altre espressioni concettuali elevate. L’adolescente viene ritenuto un soggetto problematico per una serie di motivi: il suo incipiente contrasto con i genitori, lo sbocciare di specifiche pulsioni sessuali, il passaggio dall’essere un bambino all’essere un adulto, la sua necessità di trovare una propria collocazione nella comunità, etc. Quello che voglio far notare è che questi temi – a cui spesso vengono affiancati, a mò di conferma, alcuni “fatti fisiologici” dell’adolescenza – sono sempre posti a partire da una prospettiva privilegiata, la quale sottende un presupposto che raramente viene discusso. La prospettiva di cui parlo, quella adottata tanto dal parlare comune quanto dalle elaborazioni concettuale elevate, è quella che rende il giovane, l’adolescente, il solo ed unico protagonista dei problemi che insidiano la sua età. Insomma, i problemi appena citati vengono ritenuti co-essenziali all’adolescenza in quanto tale. Semplicemente noi prendiamo atto che in quel periodo della vita sorgono delle problematicità a causa di motivi che riteniamo intrinseci all’adolescenza stessa.



Siamo così indotti a compiere una naturalizzazione dell’adolescenza. Questa fase della vita, caratterizzata da una serie di instabilità e difficoltà, viene ritenuta naturalmente data. Io credo tuttavia che se menzioniamo rapidamente alcuni fattori culturali e sociali da cui prende forma il concetto di adolescenza, possiamo iniziare ad impostare una critica a questa prospettiva. L’antropologia culturale ha osservato in un gran numero di società i cosiddetti riti di iniziazione. Per farla breve il rito di iniziazione si impone a ciascun membro di un gruppo in un dato momento della sua vita e determina la sua entrata a pieno titolo nella comunità, con tutti i “diritti” e i “doveri” (termini certamente inappropriati ma che vanno bene per intenderci) conseguenti. Dopo il rito di iniziazione si entra a far parte del proprio gruppo di guerrieri, oppure si può prendere marito/moglie, oppure a volte viene addirittura assegnato un nuovo nome all’individuo. Ne La Violenza e il Sacro René Girard mette in luce due aspetti dei riti di iniziazione fondamentali per il nostro tema. Per prima cosa Girard nota che un rituale di iniziazione coinvolge tendenzialmente tutta la comunità, anche e soprattutto gli adulti. In secondo luogo – così si osserva in molta etnografia raccolta negli anni – i rituali di iniziazione prevedono una certa componente di pericolosità, di dolorosità e addirittura di umiliazione ai danni dell’iniziato.


Sì ma cosa c’entra questo con l’episodio della coppietta da cui sei partito? Procediamo con calma. Da una parte è vero: di riti di iniziazione veri e propri noi non ne vediamo più, e di sicuro non sono previste prove mortali al momento dei diciotto anni. Vero. Del resto sappiamo che un conto è l’acquisizione formale della maggiore età, altra faccenda è l’essere adulti in un senso più sostanziale. Quando nella nostra società si diventa adulti? Qualunque sia la risposta sappiamo che l’adolescenza non è altro che una lunga anticamera che termina alle soglie della nostra età adulta. Se i riti più appariscenti hanno perso efficacia forse sarà il caso di considerare un sistema variegato di micro-rituali, spesso attivi in forma implicita, che compongono il lungo passaggio all’età adulta.


Voglio tuttavia concentrarmi qui sul secondo aspetto sollevato da Girard, quello della componente violenta. Ritengo che una buona operazione metodologica in ambito sociologico sia la seguente: distinguere le caratteristiche che rendono una struttura sociale efficace, e quindi altamente replicabile, dai motivi che spingono il singolo individuo ad accettare e a rinnovare le prassi che tale struttura sociale richiede per il proprio sostentamento. Per chiarire questa precisazione metodologica prendiamo il nostro caso, quello del rituale di iniziazione. Immaginiamo un rituale in cui una comunità assiste a una serie di prove dolorose inflitte a un giovane iniziato. Possiamo considerare la situazione da un piano prettamente sociologico. In questo caso l’oggetto dell’interesse dovrebbe essere il fatto sociale della polarizzazione violenta comunità/singolo, fatto preso come un oggetto di per sé. In questo senso si rendono disponibili all’indagine le funzioni che assolve questo fatto rispetto all’intero corpo sociale, le caratteristiche particolari con cui esso si presenta e le forme storiche da cui esso deriva. Dall’altra parte, come dicevo, possiamo interpellare il versante psicologico ed analizzare quindi le cause mentali che spingono i singoli individui a compiere quei comportamenti di cui si compone il rituale.



Tenendo a mente questa distinzione di piani, che dire della società in cui viviamo? Dove e come si realizza la dinamica oppositiva ed esclusiva contro “l’iniziato”, contro l’adolescente? Ritengo che oggi tra i principali dispositivi che attuano questa dinamica sociale vi sia il discorso (dotto, “scientifico” o del senso comune) sull’adolescenza. L’adolescente – abbiamo visto prima – viene astratto dal suo contesto sociale e viene considerato come elemento per sua stessa natura problematico e conflittuale. Il discorso sull’adolescenza, in quanto forma di sapere, esprime e rinvigorisce una forma di potere occultata. Sto parlando del potere che gli adulti della nostra società esercitano e mantengono sui giovani. La stabilità sociale che questa architettura del potere consente viene sempre rinnovata dalle nostre conversazioni sulla problematicità dell’adolescente, dai servizi che sentiamo al TG, oppure da alcuni manuali di pedagogia (alcuni dei quali non così dotti, anzi indegni anche di fungere da carta igienica).


Che dire invece riguardo al secondo piano di analisi, quello psicologico? Perché l’adulto dovrebbe accettare queste pratiche esclusive e di sottomissione? Credo che gli adulti abbiano una lunga serie di motivi, tutti per lo più inconfessabili, per odiare i più giovani. Il più inconfessabile di tutti è certamente l’invidia. Sostengo che il più grande problema degli adolescenti sia la nostra invidia. Gli invidiamo le possibilità e i successi che per noi sono solo ricordi trasfigurati, perduti per sempre nel passato. Gli invidiamo quell’alone di autenticità (figlio bastardo delle nostre menzogne) che sembra avvolgere le loro esperienze e il loro muoversi nel mondo. Li invidiamo perché possono competere per femmine (o per maschi) molto più giovani di quelle per cui possiamo competere noi. Per tutto questo li invidiamo, forse latentemente ma di certo visceralmente. Ecco le nostre motivazioni soggettive per assecondare le strutture sociali che impongono la condizione problematica dell’adolescenza. I problemi dell’adolescenza sono un nostro problema, in nessun senso paternalistico e altruistico del termine ‘nostro’. Sono gli adulti i maggiori responsabili delle difficoltà dell’adolescenza. Gli adolescenti soffrono il nostro risentimento non così represso.


Ecco il ribaltamento di prospettiva che, nel solco della riflessione girardiana, suggerisco di compiere sulla questione dell’adolescenza. L’obiettivo di tale ribaltamento è mettere in luce il ruolo attivo dell’adulto e della comunità nelle problematicità dell’adolescenza; far emergere gli aspetti relazionali e culturali, riducendo ampiamente la portata della prospettiva che vuole naturalizzare ed ipostatizzare l’adolescenza, compiacendo la pigrizia intellettuale e morale dell’adulto.


Ma scusa Marco, perché ti consideri come uno degli adulti? Semplicemente la distinzione adulto/adolescente è, come ho scritto poc’anzi, di natura prospettica e relazionale. Il cinquantenne che mi sta leggendo mi pensa come un giovane ragazzo. Io, invece, quando sono passato di fianco a quella coppia di adolescenti romani, mi sono percepito come adulto. IT, il romanzo pedagogico di Stephen King, è un buonissimo spunto per decostruire la prospettiva adultocentrica che ho cercato di criticare in queste righe. Dedicherò a questo capolavoro del re dell’horror almeno un articolo nei prossimi mesi.

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