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Il mondo magico di Harry Potter | Menzogna romantica o verità romanzesca?



Non pochi appassionati della saga di Harry Potter la difendono gelosamente dalle grinfie degli approcci ammessi solo nell’ambito accademico, entro cui i libri sul maghetto inglese non rientrano, perché sono e devono restare solo piacevoli letture. Non pochi accademici concordano, ma per il motivo opposto, per poter altezzosamente snobbare un fenomeno troppo massivo, troppo poco di nicchia, inadatto per essere a esclusiva fruizione e consumo di chi con i suoi studi è stato iniziato alla vera arte.

A fronte di tutto ciò è lecito far notare innanzitutto che fin dal primo libro della saga questa, sebbene a prima vista sembri effettivamente proporre nulla più di una piacevole avventura, manda ai suoi lettori messaggi del tutto espliciti e degni di essere discussi. Su di essi già molti si sono lanciati in disquisizioni più o meno interessanti e varrebbe forse la pena valutare di quali strumenti concettuali e di analisi hanno fatto uso.

C’è però un altro aspetto, forse più sottovalutato, ma più problematico, quindi stimolante da approfondire: al cospetto di libri scritti dal punto di vista di un adolescente e per gli adolescenti piuttosto che concludere che allora non bisogna pretendere di riscontrare uno sguardo “adulto” (ammesso e non concesso che si debba distinguere da quello degli adolescenti), è opportuno interrogarsi su quale immagine della loro realtà venga offerta ai lettori. Si può tranquillamente procedere con una simile analisi, senza poi sbilanciarsi in giudizi morali o d’altro tipo nei confronti della scrittrice.

A questa colleghiamo un’altra considerazione, che giustifica la scelta degli strumenti di critica letteraria, ovvero nei confronti di René Girard. È noto che questo critico si è occupato di affinare la sua terminologia, leggendo romanzieri del calibro di Cervantes, Proust e Dostoevskij e drammaturghi del calibro di Sofocle, Euripide e Shakespeare e fin qui tanto il fan geloso tanto l’altezzoso accademico sono già a storcere il naso. Ma da buon allievo di Lévi-Strauss (uno dei più grandi antropologi del Novecento, sostenitore dell’assenza di alcuna “differenza ontologica” tra il più “nobile” racconto mitico e la più “grezza” delle favolette della tribù indigena più sperduta nel mondo), Girard quegli stessi strumenti li ha applicati, non senza successo, proprio alle narrazioni più popolari che l’esplorazione etnografica potesse proporre.

E non senza motivo. La sua teoria mimetica, tutto il discorso sul desiderio triangolare e quello rettilineo, sulla “menzogna romantica” e la “verità romanzesca”, non ha il solito accademico quanto noioso motivo di una nuova, più efficace o più originale, celebrazione dei grandi della letteratura, quelli che gli accademici tengono gelosamente per sé e per le proprie elevate riflessioni. L’obiettivo è interrogare le immagini della realtà offerte per valutare quali aiutano ad approfondirla e quali no. Chiunque può offrire una buona lente per osservarla, non serve per forza esser passato per lunghi studi.



Torniamo, dunque, a Harry Potter. A prescindere dall’elevatezza della forma e dalla profondità dei messaggi, il punto è che ogni singola pagina di tutti i sette libri della saga è inevitabilmente intrisa, come qualsiasi testo, da una certa immagine della realtà ed è più che lecito interrogarla e analizzarla. Il successo quasi senza precedenti è certamente uno stimolo in più.

Naturalmente in così poco spazio non è possibile un’analisi dettagliata di una così lunga saga. Ci limitiamo a un abbozzo, per offrire più che altro degli spunti.

Partiamo da un elemento, che balza subito a colpo d’occhio avendo davanti i sette libri: tutto il mondo magico è strutturato da J. K. Rowling in insistite dicotomie, non solo tante differenze, ma molte nette opposizioni. Si dischiudono man mano sotto gli occhi del protagonista e i nostri, accentuando decisamente quelle che già conosciamo. Maghi e babbani, la vita di Harry con gli zii e quella a Hogwarts, Grifondoro e Serpeverde, chi sta con Silente e chi con Voldemort. Se alcune, come l’ultima, appaiono giustificarsi sul piano morale e altre, come la prima, da un semplice dato oggettivo, certe risultano abbastanza strane e immotivate. Dividere, alla tenera età di undici anni, gli studenti in quattro Case non sembra avere nessuno scopo educativo, mentre incoraggia palesemente pregiudizi e rivalità (tralasciamo una riflessione sul sospetto sadismo di Silente, colui i cui nomi sono così tanti che praticamente non può essere nominato).

J. K. Rowling pare giocare con l’ambiguità di queste dicotomie, ma senza metterle mai realmente in discussione. L’opposizione tra il professor Raptor vittima e il professor Piton persecutore si scopre falsa, ma quella che separa professori solidali e quelli carnefici no. L’opposizione tra l’innocente Peter Minus e il crudele Sirius Black si scopre essere una menzogna, ma quella che separa amici leali e traditori no. Le etichette restano, si inverte solo su chi devono essere appiccicate. Forse la dicotomia più stridente è quella tra le due sorelle, la bella e gentile Lily e la brutta e invidiosa Petunia, che ricorda fin troppo spudoratamente le fiabe dei fratelli Grimm. Anche il buon Harry è un innocente perseguitato dal suo babbano cugino, però lui non è razzista e non insulta con termini come “mezzosangue”.

Quest’ultima è, invece, un’opposizione cattiva, ma J. K. Rowling si guarda bene dal lasciare tracce sulle cause per cui tale ideologia è diffusa tra certi maghi, rendendola così grossolana che la stupidità risulta essere l’unica fonte possibile.



Arriviamo così alla questione più profonda. Tutte queste etichette, di cui il mondo magico è ricoperto, hanno come naturale contraltare personaggi, che dal punto di vista psicologico sono tutte monadi, che comunicano tra loro solo a distanza. Le contaminazioni tra soggetti sono solo esteriori e magiche, come il legame tra Harry e Voldemort, e non possono compensare questa carenza. Il caso forse più eclatante, considerata l’ambientazione, è quanto siano distanti i professori dagli studenti. Persino Silente ha più il ruolo di dispensatore di perle di saggezza, che di vero maestro e modello (cfr. sull’argomento “Ping Pong - The animation”. Desiderio e crescita nella relazione di maestria). Tutti conservano sempre la romantica “purezza” di ciò che sono e che scelgono di essere, ogni loro desiderio è spontaneo, nemmeno tra amici ci può essere una troppo invasiva influenza.

Se siano le dicotomie ad essere fondate sull'immagine romantica di soggetti autonomi e indipendenti o siano la base per proporla è difficile stabilirlo, quello che è palese è che sono funzionali le une all’altra e viceversa. Tutto ha la parvenza di essere predeterminato. Ma, c’è un grosso “ma”.

C’è un personaggio che per tutta la saga dei sette libri sembra esistere solo come pietra d’inciampo, scandalo per l’edificazione di questa struttura e per Harry (ricordiamo di nuovo che il punto di vista è sempre il suo). È un personaggio a cui nessuna etichetta riesce a restare appiccicata e persino la psicologia risulta sfuggente. Si può azzardare a dire che è il personaggio che salva il mondo magico, in tutti i sensi. È Severus Piton.

Non è un cattivo e non è neanche un buono. È il peggiore degli eroi immaginabili per una storia a lieto fine e per questo è forse il più vero. Senza peli sulla lingua detesta il beneamato Harry Potter e non ha smesso di detestare il padre James Potter solo perché è la vittima uccisa. Politicamente scorretto, ha fatto propria l’espressione “mezzosangue”, autoproclamandosi il principe. La sua personalità e la sua vita sono interamente dominati da un profondo risentimento. Appare la figura più chiusa e solitaria di tutte, ma quella ferita mai rimarginata, che l’amore incorrisposto per Lily gli ha aperto nel cuore, fa di lui l’unico personaggio veramente definito dal rapporto con l’alterità. Lui non è l’unico personaggio solo, lui è l’unico tormentato dalla solitudine.

Severus Piton ha salvato Harry Potter, in tutti i sensi. Lo fa senza essergli “amichetto”, ma offrendogli quella sua vita, che avrebbe voluto donare alla madre di quel suo fastidioso studente. È l’eroe romanzesco, il personaggio dei grandi romanzi.



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