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"Ping Pong - The animation" | Desiderio e crescita nella relazione di maestria

Aggiornamento: 28 apr 2020



"Ping pong – The animation" è una serie animata del 2011 tratta dall'opera omonima del mangaka Taiyo Matsumoto. La sua analisi, nelle nostre intenzioni, permetterà di delucidare la sostanza del nostro discorso sulla maestria come forma positiva di mediazione ed insieme di illustrare alcuni dispositivi sociali di rappresentazione del desiderio tipici del giapponese. Desiderio inteso in duplice senso: come triangolarità mimetica, in senso classicamente girardiano, e come tensione e dirittura verso l'Altro, secondo una prospettiva propriamente levinassiana; discorso che costituisce il filo rosso di tutta l'analisi della narrativa animata giapponese che ci proponiamo di svolgere. Questa prospettiva, che propone una differenza ontologica tra i due tipi di desiderio, implica però un'anfibologia lessicale, nel senso che una medesima terminologia sarà utilizzata ora secondo l'una, ora secondo l'altra prospettiva, segnalando un movimento di uscita da una modalità di desiderio verso l'altra. L'orizzonte entro cui si realizza questo movimento in Ping pong è la relazione di maestria: mediazione che compie pacificamente la richiesta di riconoscimento, che è sempre in questione nel desiderio, senza cadere nella trappola scandalica della mediazione interna. I personaggi di Ping pong portano a compimento questo discorso secondo una varietà di esiti e sfumature che giova alla completezza della nostra analisi. In sintesi: il personaggio di Sakuma nel campo da gioco ricerca un'affermazione di sé che si realizza come superamento dell'altro, e non riesce a strutturare un'efficace relazione di maestria; Kazama, il campione del liceo Kaio, manca totalmente la possibilità della maestria perché il suo approccio al gioco squalifica anticipatamente l'altro nella sua possibilità di rivelazione e maestria; la vicenda di Smile e Peco, invece, compie la relazione di maestria (e quindi la mediazione del desiderio) attraverso il reciproco riconoscimento e la progressiva responsabilizzazione dell'altro.


Il tavolo da ping pong è il campo di manifestazione del desiderio. Il gioco che vi si svolge mette necessariamente i giocatori l'uno di fronte all'altro, con i loro portati di mediazione, che possono deformare, compiere o annientare le relazioni. Nel faccia a faccia del gioco è in gioco la radicale alternativa tra l'assimilazione dell'altro in una soggettività totalitaria che si afferma in quanto desiderio e il riconoscimento dell'altro in quanto limite della mia soggettività e istanza desiderante autonoma, che analogamente a me si pone, nel campo da gioco, come attore o termine di questa stessa alternativa tra totalità e infinito, tra caduta nella circolarità infernale del desiderio mediato ed epifania di una possibilità di desiderio rettilineo che ha come conseguenza un riposizionamento della soggettività di entrambi. La possibilità di assicurare la relazione di maestria contro il rischio della mediazione interna è realizzata in prima istanza, nel giapponese, con il concorso di una rigida strutturazione gerarchica delle relazioni sociali, che potremmo esemplificare nel dualismo senpai/kohai. Come testimonia Chie Nakane nel suo La società giapponese, l'ordine gerarchico in Giappone si stabilisce sulla base dei due criteri dell'anzianità e della precedenza nell'esercizio di una qualsiasi attività. Nel caso di Ping Pong lo spettatore può apprezzare entrambe le varianti implicate nel concetto di maestria. Da una parte Peco è maestro per Smile in quanto lo inizia al gioco del ping pong, si prende cura dei suoi primi passi e non lo squalifica per la sua fragilità di principiante (helplessness). Dall'altro, Butterfly Joe, in qualità di rappresentante di una generazione precedente, rivendica su Smile un diritto alla maestria che questi inizialmente rifiuta per poi accettare. Se la maestria di Butterfly Joe muove dall'esigenza di rispetto per rinforzare la soggettività di Smile, e solo successivamente arriva alla cura e all'affetto, quella di Peco compie il movimento speculare: muove dalla domanda di affetto di Smile per riconfermarsi nella distanza attraverso un percorso fitto di ostacoli e sfide che costringerà entrambi a costituire un'autonoma autocoscienza. In entrambi i casi, caratteristica essenziale della relazione di maestria è l'articolazione in due fasi. Inizialmente la maestria per Smile si configura, sia in relazione a Peco sia a Butterfly Joe, come presa in carico, guida e stimolo dell'esercizio dell'allievo, quasi a costo di annullarne l'autonomia decisionale, con il preciso fine di rendere consapevole l'allievo del proprio talento; successivamente, il maestro lascia essere l'allievo nella sua libertà, anche a costo di assisterne al fallimento o al tradimento. Si può parlare a tutti gli effetti di un atto di fede. Il maestro scommette sull'allievo, disattivando la propria tutela, rinunciando alla sua presa in carico totale. È quel che potremmo definire responsabilizzazione.


Per completare e rinforzare il discorso sin qui prodotto sarà necessario affrontare la questione dell'amae, parola-chiave dell'analisi socio-psicologica di Takeo Doi. La nozione di amae dimostra parentele proficue con il desiderio mimetico, soprattutto se riletto alla luce della relazione di maestria. Amae è la tendenza a dipendere dal flusso di legame che dall'altro viene a me, dal'investimento dell'altro su di me in forma di cura, attenzione, affetto, mimesi – concetto che sorge a coscienza nella società giapponese a merito della codificazione linguistica, e che Doi ha avuto il merito di evidenziare, ma che fa riferimento a una gamma di fenomeni del desiderio di portata universale. Amae è fenomeno pervasivo nella vita di un individuo, pertanto fenomenologicamente costitutivo dell'identità. Doi fa riferimento al concetto di amae parlando della richiesta di attenzioni e affetto che il bambino poco più che consapevole rivolge alla madre, quindi estende la nozione a tutta la vita relazionale dell'individuo, dall'infanzia all'età adulta. Desiderio mimetico e amae convergono sulla questione del riconoscimento, nella misura in cui entrambi i concetti implicano una dipendenza dal desiderio dell'altro. Come la mediazione interna può condurre a esiti patologici quali derealizzazione, sdoppiamento, totalizzazione dell'altrui desiderio nel tentativo dell'affermazione di sé, fino a violenza e risentimento, così avviene anche nel caso di un amae frustrato: la costituzione di un'identità autonoma e salda è coessenziale alla percezione del desiderio dell'altro. L'amae è il collante iniziale della relazione di maestria. Costituendosi come richiesta di riconoscimento che garantisce l'identità relativa ai ruoli (tramite il flusso di desiderio che dall'uno scorre verso l'altro e viceversa), esso struttura la relazione in una reciprocità il cui fine è il proprio stesso esaurirsi. La relazione si nutre del calore dell'amae fintantoché non giunge il momento di recidere il cordone della dipendenza, che ha garantito la circolare reciprocità e la crescita embrionale dell'identità. La scommessa che si annuncia come responsabilizzazione si invera con la rottura della circolarità della relazione (il cui rischio è la perdita di sé nell'indifferenziazione mimetica), con la liberazione del discepolo dal vincolo di un desiderio che, se realizzatosi nel microscopico orizzonte della relazione maestro/discepolo, sfocerebbe in un desiderio autistico e totalizzante. La dirittura verso l'altro si annuncia allora come sfondamento di tale circolarità, come desiderio che nasce da una vera e sofferta consapevolezza di sé e dei propri limiti.


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