La morte del sensei Kentaro Miura ha spinto molti neofiti ed appassionati a tornare sul capolavoro del maestro, che da più parti ormai si incensa come classico che trascende i generi e le culture – grazie anche alla sanzione d’eternità e compiutezza paradossale che alle opere deriva dalla morte dei loro autori. Sto parlando ovviamente di Berserk, la cui storia potremmo definire, in essenza, come il paradigma del bilico tra desiderio mimetico e maestria di cui si è spesso scritto su questo blog. Tornandovi io stesso e trovandovi più di quel che ricordavo, come sempre avviene in questi casi, mi permetto di scrivere questi appunti nella speranza che l’essenzialità della vicenda di Berserk possa davvero mostrarsi come paradigmatica per ciò che da più parti, su questo blog, si cerca di delineare.
Grifis è il capo dell’armata dei falchi, mercenari e avventurieri devoti al loro comandante, impareggiabile spadaccino e uomo di fascino straordinario. Gatsu è un mercenario di forza incredibile, che Grifis convince ad unirsi alla propria armata dopo averlo sconfitto in duello. Per tre anni i due combattono spalla a spalla, secondo una logica pacificamente gerarchica: Grifis è il capo, Gatsu il sottoposto, e così è giusto che sia per entrambi. Nel frattempo, Grifis istruisce Gatsu sulla natura dei sogni, intesi né in senso strettamente holliwoodiano né psicoanalitico, ma piuttosto immaginale-destinale: il sogno di un uomo – mi si perdonerà se non neutralizzo il genere per ragioni ideologiche, sulle quali non mi profonderò per sufficienza e noia – è la visione futura di sé, il comandamento destinale da realizzare ad ogni costo. Tale visione è appunto immaginale, cioè prende la forma di un oggetto del desiderio cui si ascrive un significato simbolico che riguarda il compimento del sé – la “pienezza d’essere” di cui parla Girard – che potremmo ulteriormente precisare come il “destino” di una persona, opportunamente virgolettato. Per Grifis, tale oggetto è un castello, connesso all’immagine della regalità – un oggetto la cui mediazione non gli è stata imposta da alcuno, ma che col passare del tempo sarà turbata e offuscata dall’ingombro crescente di un volto, che a quell’oggetto perduto si sovrappone.
Un giorno, Gatsu origlia una conversazione nella quale Grifis sostiene di considerare suo amico soltanto chi gli è alla pari, ovvero chi, come lui, sia incamminato verso la realizzazione del proprio sogno. Gatsu è profondamente colpito da queste parole: si rende conto che lui, a differenza del capitano, non ha un sogno, ovvero un’immagine daimonica di sè da inverare – il che equivale a non avere un’identità, un punto di fuga unificante verso cui indirizzare le forze libere del sé. Non è tanto la mancanza di un principium individuationis, tuttavia, a disturbare il buon Gatsu – la cui esistenza, per sua stessa ammissione, si sostanzia nella sua magistrale abilità con la spada – quanto la percezione della distanza che quelle parole hanno aperto tra lui e Grifis. Distanza che non si misura nel semplice scarto di valore così istituito tra i due – scarto che unicamente i nostri occhi decadenti riescono ad assolutizzare, scotomizzando tutto ciò che lo contorna – ma piuttosto manifesta la natura corrotta della loro relazione, di cui si appalesa l’ambiguità. Gatsu non vede il rapporto tra sé e Grifis nella stessa maniera in cui lo vede Grifis: la relazione è compromessa, e il mondo va in frantumi.
La scelta successiva di Gatsu di abbandonare l’armata dei falchi per trovare la propria strada e realizzare il proprio sogno – qualunque esso sia – non dipende però da un confuso desiderio di rendere pan per focaccia a Grifis, facendogli vedere chi è veramente e quanto vale – ma discende naturalmente dalla necessità di inverare le condizioni in base alle quali Grifis potrà finalmente considerarlo un amico, cioè un pari. La separazione desiderata da Gatsu è quindi finalizzata a un ricongiungimento che sarà segnato dall’inveramento della relazione tra lui e Grifis per come questa è stata sempre desiderata da Gatsu – un legame, ricordiamolo, di amicizia, il cui presupposto, secondo Grifis, è la condizione di parità derivante dalla presenza nei cuori di entrambi di un sogno individuale.
Il motore dell’azione per Gatsu, tuttavia, non è altro che la relazione. La maestria di Grifis si impone per desiderio mimetico a Gatsu solo in virtù dell’effetto positivo che questo desiderio mediato avrebbe sulla loro relazione, rendendolo degno della stima del maestro. Prova ne è il fatto che nessun desiderio mediato, nessuna invidia o recriminazione avevano animato Gatsu prima di origliare quel discorso di Grifis. Non sono quindi un complesso di inferiorità o una volontà di potenza autistica a spingere Gatsu a questa separazione violenta dal proprio mediatore, quanto la volontà di tornare al suo cospetto come pari e come amico – di restaurare la relazione nella sua integrità immaginale, come pacifico inveramento di quel sogno di cui Gatsu ha scoperto al tempo stesso la centralità e la fragilità per la propria vita. Il sogno di Gatsu, infatti, non è altro che l’inveramento del rapporto con Grifis – anche se Gatsu non lo sa ancora, mentre Grifis, per come è fatto, non può nemmeno arrivare a concepirne la sostanza.
Grifis non ha mai fatto esperienza dal basso della relazione di maestria, essendo sempre stato in posizione di mediatore assoluto. Il flashback immaginifico della salita al castello ne è la splendida rappresentazione. Avanti a sé, come mediatore e apripista del desiderio, Grifis vede solo sé stesso, solo più giovane. Gli altri non sono che cadaveri lastricati sul sentiero della sua affermazione.
Gatsu stesso, fino a quando non sceglie scandalosamente di abbandonare l’armata dei falchi, non è che una semplice pedina, al più uno spettatore illustre del sogno di Grifis. Sfidando Gatsu a duello una seconda volta, quando scopre del suo progetto di abbandonare l’armata, Grifis persegue il suo automatismo di controllo, incapace di accettare che uno degli attori del suo dramma solipsistico scelga di scrollarsi i panni di alfiere dalle spalle per farsi sovrano della propria storia – ma ancora, ricordiamolo, solo per tornare al cospetto di colui da cui egli ha tratto nascimento come soggettività libera.
Grifis, forse senza accorgersene, offre a Gatsu una splendida occasione per sancire simbolicamente la nascita del suo sogno – diventare degno di Grifis! – che Gatsu accoglie con magnifica solennità, accettando il duello e vincendolo. Quale orgoglio deve aver soffiato nel suo cuore in quel momento!, quando Grifis si inginocchia sconfitto – ma si badi ancora, perché le parole qui rischiano sempre di esser fraintese: non l’orgoglio che nasce dalla sopraffazione e dall’umiliazione dell’avversario, ma quello che coincide con la scoperta della propria dignità di persona. Anche questo, pensa Gatsu, non l’avrei mai capito senza Grifis! E così si allontana senza voltarsi, ma con il cuore colmo d’amore per l’avversario sconfitto.
Per Grifis, invece, quel duello perduto è l’inizio della fine. Lungi dall’intenderlo come rito di passaggio per l’ingresso di Gatsu nel suo sogno – quanto più nobile e splendida sarebbe stata quella sfida, se proposta con questo cuore! – per Grifis la sconfitta ha i connotati della Weltuntergangerlebnis, l’esperienza della fine del mondo. Il tracollo, cioè, della fragile soggettività idealistica e autistica che non affondava le proprie radici in alcuna relazione datrice di senso e direzione, ma cresceva sterilmente su sé stessa sottomettendo al proprio discorso l’alterità. Gatsu ha mani e cuore come me, e può uccidermi! Quanto fragile doveva essere quel sogno, Grifis, se bastò che Gatsu trovasse il suo – diventare tuo pari! – perché il tuo cadesse in frantumi.
Grifis, a seguito di vicende alterne che non sto a riassumere, è ridotto a uno spettro, all’ombra di sé stesso. Torturato e mutilato per un anno, dopo essere stato imprigionato, è un moncherino d’uomo incapace di reggersi in piedi. Gatsu però è tornato nell’armata dei falchi apposta per aiutarli a liberarlo, e ci riesce. Ma proprio quest’ultimo sviluppo determinerà il tracollo definitivo di Grifis, che non può accettare la fine del proprio sogno – non potrà mai più cavalcare né maneggiare una spada – né soprattutto il ritorno di Gatsu. Ora che il sogno dei falchi – che era quello di Grifis – è tramontato, ora che nessuna immagine destinale organizza più la compagine gloriosa dell’armata – e ora che il sogno della dignità umana di Gatsu non ha più senso, dato che la persona che con la propria maestria era riuscita a sollecitarne il desiderio non esiste più! – nient’altro resta da fare che deporre le armi e le grandi immagini di cui si era nutrita la brigata, e devotamente, nobilmente dedicare il tempo che rimane da vivere alla cura del capitano invalido. Anche Gatsu ne è convinto – perché tornando si è reso finalmente conto che l’armata dei falchi è il luogo a cui appartiene.
Grifis non può tollerarlo. Non può far propria l’immagine di sé che l’armata gli rimanda ora, la quale tuttavia lo conserverebbe nella sua funzione di elemento d’aggregazione, vero leader cristologico della comitiva. Non può accettare il ridicolo, straziante ribaltamento della sua figura gloriosa di condottiero in povero cristo invalido che ancora riesce a tenere insieme i falchi, ma soltanto in forza della pietà che la sua miserabile figura umana suscita! Un ribaltamento più mostruoso, demoniaco e al tempo stesso santo non si poteva immaginare. Santo perché, se Grifis l’accogliesse, vedrebbe la matrice umana della sua persona, la propria dignità di sovrano che trascende le gerarchie e le contingenze – vedrebbe i falchi ora e per sempre devoti a lui, vedrebbe la propria figura stagliarsi nei cieli come l’archetipo della regalità sacra e profana, imperatore e Cristo al tempo stesso, Grifis-Melchisedèc. Ma Grifis ha occhi offuscati dal pianto e dalle immagini di sé che lo tormentano con la loro inavvicinabile alterigia, e dalla visione di Gatsu acclamato dai falchi come nuovo comandante. I riquadri che Miura dedica al volto di Grifis nascosto dalla maschera a becco di falco, ai suoi occhi di bove massacrato che scruta dal profondo del suo pallido inferno l’inversione ironica delle parti tra sé e il suo demone – tu le puoi sentire urlare, immobili.
Ben poco ho saputo dire, fino a qui, di tutto quello che il manga di Berserk ha da offrire. Per ragioni di spazio, e per non togliere dignità alla grandezza del personaggio, ho dovuto omettere interamente il ruolo di Caska, l’unica donna dell’armata dei falchi, straordinaria guerriera e innamorata ora di Grifis, ora di Gatsu – con conseguenze che il lettore può provare a immaginare, ma rispetto alle quali la fantasia più vivace resterebbe indietro. Ancora una volta, vogliate prendere questo modesto contributo come un invito alla lettura e non come una degna analisi, di cui si sente comunque la necessità.
A suggello, voglio portare l’attenzione del lettore su una questione in particolare. L’evento della relazione, in quanto riposiziona le soggettività di coloro che ne sono invischiati, comporta responsabilità verso questa nuova figura del sé che ha perso la purezza della regalità autistica ed è ora intorbidata dall’altro. Tale responsabilità, però, non coincide affatto con il senso di colpa nei confronti dell’altro, con la coscienza infelice della propria miseria identica di mediatore e di mediato: prende invece la forma gloriosa della relazione di maestria, se accettata e iscritta nel sogno immaginale di entrambi. Tale è la responsabilità. Ma questa corre sempre sul bilico scivoloso che la separa dalla colpa, dalla mancanza sentita come peccato, e questo è ciò che rende così precaria – e però appunto gloriosa, in quanto piena di rischio – la relazione di maestria. Nessuno è immune da quel bilico, perché l’orgoglio appesantisce il sé ora dal lato dell’umiltà, ora da quello dell’arroganza, identicamente sbilanciando l’equilibrista della relazione e del desiderio. Anche Gatsu, che pure ha la forma più salda tra coloro che gravitano intorno a Grifis, vacilla su questo crinale, sentendosi talvolta in colpa per l’amico, come se si sentisse chiamato a rispondere del tracollo di Grifis in quanto suo artefice. La nozione di responsabilità, che letteralmente chiede una risposta personale a una determinata situazione rispetto alla quale si è chiamati in causa, si confonde qui con la colpevolezza e quindi con la necessità di espiare un dolore in cui si è coinvolti con un pari dolore, una riparazione pensata per eguagliare il male che grida vendetta, ma che non farà invece che aumentare il dolore di cui è intriso l’universo. Questa anfibolia della nozione di responsabilità è il luogo tremendo nel quale chi vive la relazione di maestria sulla propria pelle sconta il rischio di lasciarsi sfuggire quella gloria che è sempre a portata di mano, e che forse, tuttavia, non splenderà mai per entrambi.
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