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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Imitare le imitazioni | Rocchetto di Shakespeare e fenomeni come i meme



Commentando la figura di Rocchetto, personaggio shakespeariano di Sogno di una notte di mezza estate, Girard prende spunto dal suo desiderio di impersonare tutti i personaggi di Piramo e Tisbe, persino quelli aggiuntivi, gli animali e addirittura cose inanimate, per riflettere sul piacere che si prova a recitare.

È il piacere che si prova a imitare, afferma l’antropologo. Che recitare sia un’attività imitativa è stato teorizzato sin dagli albori della riflessione su di essa, cioè dai tempi di Platone e Aristotele, Girard però puntualizza un doppio legame. Il desiderio è imitativo e a sua volta l’imitazione è desiderabile.


«L’amore per la mimesi che sostiene l’impresa estetica è un tutt’uno con il desiderio mimetico» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi 2012, p. 114)


A ben guardare tutta la cultura è in qualche modo una conferma di questa ipotesi, nella misura in cui non è solo esibizione di mediatori e non è fondata solo sulla memoria (e su tutto ciò che la determina, come la scrittura), ma anche sul desiderio di cercarne in tutto ciò di cui si conserva il ricordo.



La propensione del bambino all’apprendimento non è data non solo dalla circostanza di essere circondato da modelli a lui particolarmente attenti, quali figure genitoriali, insegnanti, in generale adulti, ma anche dal suo amore per la mimesi, che si manifesta spesso e volentieri nei suoi giochi, in cui “interpreta” qualsiasi personaggio.

Passando ai comportamenti delle persone istruite, si pensi alla soddisfazione di una citazione ben riuscita, mentre si parla o si scrive. Non si può rinunciare all’occasione, quando, come si dice, “è servita su un piatto d’argento”. Si ripete con piacere una frase famosa o di un autore stimato, ritenuta efficace per esprimere ciò che si vuol dire.

Il popolare ricorso ai proverbi non è spiegabile solo con la tradizionalista convinzione di un’antica saggezza, ma bisogna riconoscere anche il desiderio di ricercare la saggezza, collocata nella dimensione del passato, e l’amore per la sua appropriazione, cioè imitazione.

Ciò che si evidenzia nel linguaggio, cioè in una delle forme forse più originarie della cultura, non è difficile supporre di riscontrarlo anche nelle altre.



Non approfondiremo tutti gli ambiti, ci limitiamo a un fenomeno, esploso di recente, estremamente esplicativo e paradigmatico: i meme.

Essi nella loro semplicità non sono altro che immagini capaci di rendere sempre pronte e disponibili scene celebri ed efficaci per esprimere qualcosa. Può essere una battuta, una faccia, un’azione, l’importante è che sia così largamente apprezzata, da indurre a volerla mimeticamente riproporre in tutte le occasioni possibili. E tante più sono, meglio è. Diventa la soddisfacente dimostrazione del potere espressivo della scena, che giustifica la diffusione spasmodica.

Ma non è solo contagio mimetico, che dirige il desiderio. Un amore per il meme è altrettanto decisivo per spiegare l’emergere del fenomeno. Il meme è una costruzione studiata, per quanto in maniera dilettantistica. Spesso, infatti, non si attende la situazione giusta, la si crea direttamente. Il meme racchiude già in sé tutto il botta e risposta fino all’agognata scena finale, la descrizione del contesto, che cambia di volta in volta. Viene esibito il desiderio di scovare tutte le situazioni, in cui la scena finale si presta.

Il risultato è certamente un oggetto-modello a disposizione di tutti (interessante connubio della natura da sempre iconica di ogni modello e il processo di mercificazione delle immagini), ma lo stimolo è l’offrirsi della possibilità di trasformarsi quasi “per davvero”, solo per l’istante che serve, in uno sportivo o in un artista, in un personaggio di un film o di un’animazione, persino mostrare il muso di un animale o il fisico di un personaggio di fantasia, secondo il proprio desiderio. Eventualmente passare dall’uno all’altro.

Chi può negarne il piacere? Il successo dei meme è palese. Siamo tutti come Rocchetto, ma senza doverci improvvisare attori professionisti né tradire patologiche pretese di possedere doti attoriali.


Siamo partiti da casi come i proverbi, perché balzasse all’occhio che per quanto il fenomeno dei meme sia un tratto della contemporaneità, strutturalmente di esso bisogna dire nihil sub sole novum.

Il doppio legame accennato da Girard si esplica in desiderio che attiva la mimesi e mimesi che accende il desiderio: tutta la cultura si edifica senza l’iniziativa volenterosa di alcuno grazie a questo circuito. Tornando alle forme d’arte come il teatro, bisogna evidenziare che esse sono imitative non solo perché imitano, ma anche perché a loro volta invitano all’imitazione di sé. L’arte è cultura, perché desidera diventare il linguaggio di chi ne usufruisce, lo invoglia ad appropriarsi delle sue espressioni. L’amore per la mimesi genera l’arte e l’arte a sua volta deve generare tramite contagio mimetico l’amore per quella mimesi che essa è. Per sopravvivere alla sua puntualità storico-temporale l’esibizione artistica deve necessariamente diventare in qualche modo un “meme”, benché ovviamente non per forza nel senso di qualcosa di ridicolo e mercificato. Di fatto non può accontentarsi di conservarsi nella memoria. Ciò è vero da sempre.

Infatti da sempre essa si nutre avidamente dei più antichi “meme”, sorti nel mondo antico contraddistinto dall’oralità. I miti e le fiabe furono tra i primi risultati del desiderio di imitare, di una quasi ossessiva, rituale ripetizione di narrazioni apprezzate da tutti, in cui tutti si identificavano, di cui si volevano riappropriare (sarebbe da indagare il rapporto tra l’apparentemente intrinseca ricchezza simbolica di alcune immagini e questi fenomeni mimetici).

Lo stretto legame tra mito e arte, a cui si è accennato in altri articoli (cfr. in particolare L’attualità del mito), non ha nulla di casuale: due fratelli figli dello stesso amore per la mimesi. E se ha ragione Girard a rimproverare chi «isola l’arte dall’impurità dei desideri mondani» (p. 115), bisognerebbe allora interrogare quali la spinse a fagocitare il più anziano mito. Di cosa si volle appropriare? Del suo potenziale simbolico attraverso il quale interloquire con l’ampio pubblico a cui quel linguaggio era famigliare? Del suo successo da strappare al “vecchio fratello” ormai inattuale? E cosa ottenne? Abbozzare risposte sarà il proposito del prossimo articolo.





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