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L’attualità del mito | Non Cristo contro Dioniso, ma Tolkien già oltre Girard

Aggiornamento: 29 set 2021


Perché ancora oggi, nel XXI secolo, essere appassionati del mito? Quale valore attribuirgli? È da deplorare l’interesse che ancora esercita?

Da un lato gli studiosi di miti tendono a trattare il loro oggetto di studio come qualcosa di evidentemente antiquato: li “traducono” in antiche cosmologie, antiche visioni del mondo, antichi pensieri. Dall’altro c’è un fatto sorprendente: ancora oggi molta arte (soprattutto letteratura e ultimamente cinema) si nutre avidamente di essi, riconoscendogli una straordinaria capacità di sondare la drammaticità della natura umana.

Nell’ultimo articolo abbiamo mostrato l’origine di questo divario di sguardo, partendo da Platone, che di quella drammaticità rimase spaventato, essendo invece lui alla ricerca di rassicuranti discorsi morali. Da lui in avanti si è imposto un approccio “espulsivo”, che ha cercato di esorcizzare i miti, traducendoli in innocui sistemi di idee. Ma una volta resi innocui diventano anche del tutto insipidi: non stupisce che nessuno studio di miti sia minimamente in grado di rendere conto del perché l’arte riconosca ancora oggi un valore ad essi.

Naturalmente qualcuno potrebbe restare perplesso di fronte all’ipotesi che l’arte la sappia più lunga degli studiosi di professione. Forse si resta meno perplessi se si ricorda che i miti non sono trattati ma narrazioni, non parlano di idee ma di personaggi, raccontano una serie di eventi e non si limitano a dire che il mondo ne è il risultato: solo dall’arte ciò è stato preservato e nel preservare una comprensione più profonda è facilitata.

Se nella Poetica di Aristotele questo legame privilegiato tra mito e poesia, guarda caso quella tragica in particolare, è sottolineato, solo con l’antropologo René Girard si è arrivati a riconoscere il merito dei tragediografi Eschilo, Sofocle ed Euripide di aver profondamente compreso ciò che invece Platone e tutto il sapere dopo di lui ha frainteso. E ciò è avvenuto recuperando il più rigoroso metodo degli studiosi, quello comparativo, anzi portandolo per così dire all’estremo, utilizzandolo anche laddove Dumézil e Lévi-Strauss non avevano platonicamente osato. Non solo i concetti, anche i personaggi possono essere comparati, anche le loro azioni, persino le più scabrose. In questo modo le stesse opere letterarie non sono più le grandi escluse, le grandi “espulse”, ma rientrano a pieno diritto nel campo d’indagine in cui far agire la comparazione.



Eppure anche Girard è ricaduto nel platonismo censore. Ha riconosciuto che nei miti c’è qualcosa di profondamente reale, essendo loro gli unici che osano sondare ciò che nient’altro documenta, laddove la guerra è forse il meno tragico dei drammi al confronto delle lotte tra congiunti e i massacri, gli incesti e gli stupri, le vendette e gli inganni di cui sono protagonisti uomini e dèi. Ma riducendo i racconti solo a reperti storici, non ha accolto appieno, pur essendo grande estimatore, l’insegnamento del teatro greco, valorizzando solo la capacità di indagare l’origine, ma non di problematizzare nel suo eterno riproporsi il dramma dell’essere umano, dalla natura meravigliosa e terribile.

Egli ha visto nella figura di Cristo colui che pone fine ai miti, proprio Girard che ha mostrato quanto la comprensione di questa figura passi dalla comprensione di essi (e questo resta vero tanto per chi aderisce all’interpretazione girardiana anti-sacrificale del Cristianesimo, quanto per chi invece opta per quella sacrificale). In opposizione al Romanticismo tedesco e a Nietzsche, che usava Dioniso contro Cristo, ha voluto (mimeticamente) usare Cristo contro Dioniso, convinto che Gesù abbia portato la spada per abbatterlo, benché non si capisca allora perché Gesù passi tutto il suo tempo a parlare la stessa lingua. Sforzandosi a tutti i costi di contrapporre i due linguaggi, l’antropologo arriva a contraddirsi grossolanamente in Portando Clausewitz all’estremo, quando afferma che a differenza dei Vangeli «i miti tendono sempre a passare [la violenza] sotto silenzio» (ed. Adelphi, p. 183): forse solo quelli inventati da Platone possono meritarsi una simile accusa.



Di fatto ai miti non è stata posta alcuna fine: i supereroi dei fumetti americani non sono forse, di nuovo, la trasposizione nella forma più attuale degli antichi drammi che solo questi racconti “popolari” si sono presi cura di tramandare? Anche quando non è scandagliato l’umano fino a raggiungere i meccanismi che ultimamente lo muovono, è innegabile la straordinaria capacità, tipica proprio del mondo mitico, di ingigantire ogni effetto della natura umana, come se fosse posta sotto una lente d’ingrandimento. Non dobbiamo infatti farci traviare dall’etichetta “supereroi”: rischia di essere riduttiva quanto quella di “eroi” appiccicata ai personaggi omerici (cfr. i commenti sul primo, secondo e terzo film della trilogia di Nolan su Batman).

Al posto di sperare da positivisti di poter un giorno espellere definitivamente Dioniso, visto che non vogliamo l’ultima e la più astuta delle soluzioni sacrificali, possiamo interrogarci se sia possibile salvarlo. Da ciò dipende la salvezza dell’essere umano, di cui Dioniso rappresenta legittimamente la parte più oscura. Il mito ha custodito la verità di quanto è terribile ma strabiliante la violenza: non è forse il portavoce migliore di possibili strade che conducano verso una liberazione da essa?

Approdiamo quindi all’autore con cui l’antropologo francese non si è mai confrontato (troppo occupato con i tedeschi), benché padre della mitologia moderna (così come Andersen è il padre della fiaba moderna), ovvero J. R. R. Tolkien. Nonostante in vita lo abbia preceduto (d’altra parte tutto il lavoro dei tre grandi tragediografi è antecedente a Platone), qui vogliamo proporre l’ipotesi che lo scrittore inglese non solo avesse già compreso l’essenziale dei miti, ma fosse già andato oltre grazie alla sua assidua ricerca di un’“Evasione” dalla gabbia dei meccanismi, che condannano l’essere umano e sembrano determinare tutta la “Vita Reale”. Sembrano, è davvero così?

Tanti spunti sono stati proposti, niente è stato ancora dovutamente argomentato. Abbiamo solo delineato il percorso futuro. Vogliamo concludere con due frasi lapidarie tratte da On Fairy Stories di Tolkien, giusto per cominciare a offrire indizi a proposito del fatto che lui la sapesse lunga su Cristo e Dioniso, ma ritenesse che possano essere compagni di viaggio:


«The Gospels contain a fairy-story, or a story of a larger kind which embraces all the essence of fairy-stories. […] The Evangelium has not abrogated legends; it has hallowed them»

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