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Milano, o della domanda assente | Dispositivi romantici di narrazione



Con il treno della ghiaia su cui è uso viaggiare il vostro Bartleby ma a mo' di Fantozzi scaricato dal Semenzara, mi sono imbattuto in questo testo, uscito la primavera del 2023.

Questo libro è di sicuro interesse per chi si trova a condividere lo spazio cittadino milanese, teso tra l'ipertrofia delle norme e l'indifferenza alla costruzione di uno sviluppo produttore di civiltà.

Per chi ci vive, per chi magari si trova o si è trovato a dover pensare di diventarci grandi (e a queste parole appare il sorriso sornione di Foucault, che pensa ai dispositivi del sapere-potere e al loro installarsi nelle menti e nei corpi producendone la vita, la verità e la normalizzazione), l'ostilità che trasudano tanto l'iperrealtà instagrammabile di questa città, tutta spot e videoclip trap, quanto il campo disseminato di burocratici gabelleschi feudali massi di Sisifo reali che si stende a perdita d'occhio, bene: questa ostilità è pane quotidiano, un boccone tanto più venefico quanto più viene servito dal coro dell'ottimismo contagioso del godimento. E poco consola aver visto nei nostri recenti approfondimenti che l'ottimismo del godimento è a tutti gli effetti un dispositivo di normalizzazione e che come tale veniva già svelato dall'arguzia critica di Paolo Villaggio nei panni di Fracchia e poi dalle strazianti pagine di Realismo capitalista di Mark Fisher. Questa nefasta distorsione prospettica, tanto più ostile quanto più dissimula sotto la patina dell'utile e del piacere il suo fondo autenticamente moralistico e conformista, è invece non solo sopravvissuta, ma è giunta a totalizzare cotidie la forma della comunicazione, accampata in ogni story-telling del self con cui i cittadini si rivestono e cercano di vendersi l'un l'altro rincorrendo romanticamente una propria differenza, con l'effetto comico ma anche un po' grottesco di risultare però tutti uguali, tra liste della spesa di esperienze e certificazioni, di mission e di expertise, di self-management e performance, e via di provinciali anglicismi.



Questo libro offre sicuramente una descrizione e un racconto di come si sia costituita questa ostilità in immagini, in comunicazione, e come poi si traduca in ostilità nella relazioni, nei rapporti di potere e nell'egemonia culturale di un'asfissiante narrazione in grado di fagocitare tutto, non risparmiando ovviamente – come il testo ben mostra– quei tentativi che, sicuramente maldestri o non meno ideologicamente connotati nonostante il loro presentarsi come innocenti afflati palingenetici, si vogliono testimonianza di un mondo altro, che tentano magari di attualizzare, cercando però complicità con chi invece li assorbe per neutralizzarlo.


In merito alla descrizione del processo di decadenza morale e sociale che ha riguardato la gestione politico-economica della città e all'esemplificazione dell'effetto di tale decadimento sulla qualità della vita e dei servizi, e sul senso del futuro per i cittadini, il libro offre un quadro abbastanza capillare, sicuramente efficace e impressionante, utile nell'offrire una panoramica che tiene insieme diversi punti.

La prospettiva sociologica, antropologia e filosofica in generale presente a sostegno dell'impianto critico e della sensibilità descrittiva, è quella del già citato Realismo capitalista, di Mark Fisher; a partire da questo, emerge innanzitutto la consapevolezza avvilente dell'impero politico-economico neoliberale del TINA (There Is No Alternative) uscito dal mondo thatcheriano, e pertanto della sensazione di smarrimento che affetta anche la sola pensabilità di un'alternativa che non abbia tale impronta di politica economica: con la perdita di tale possibilità di pensare a una diversa soluzione, ricorda Fisher, viene smarrito il futuro, non solo come tempo aperto a diverse possibilità pratiche, ma addirittura come tempo aperto alla possibilità di pensiero in generale. Queste perdite sono bene evidenziate nel libro dal rilievo dato alla permeazione totalitaria dell'immaginario generale e comune, perfino di quello dei subordinati (per usare un termine del mondo fantozziano), che si rendono complici involontari nel momento in cui cominciano tutti per esempio a concepire se stessi secondo quegli anglicismi già ricordati sopra, e che poi si contagiano così l'un l'altro perpetuando la generale subordinazione de la machine. Il tutto lasciato poi in eredità ai propri figli.

Dalle pagine emergono le trasformazioni dovute alla colonizzazione dell'immaginario cittadino a opera dell'iperrealtà, di come questa permei tanto il desiderio quanto la politica estetica quale dispositivo di governo (di cui ci siamo in parte occupati qui e qui), e di come tale colonizzazione sia fomentata come scelta di politica economica sostitutiva dei precedenti rapporti di lavoro e produzione, spesso lucignolescamente narrata come propria di un mondo più dinamico, smart e baloccheggiante, a irretire gli animi di chi meno ne gioverà, ma cui è offerto lo splendore di una giornata in cambio della fedeltà e del silenzio sulla effettiva possibilità di progettare il proprio futuro.



Questo slittamento da un lato consegna la classe lavoratrice a cercare di diventare imprenditrice del proprio lavoro salariato per compensare la precarietà e la riduzione del suo monte salari, dall'altro si indirizza a sfruttare un'altra fonte di produzione del flusso economico basata sui soggetti dal consumo breve ma intenso (turismo e lavoratori itineranti di classe medio alta): preferita a uno sviluppo che coinvolga i settori secondario e terziario e che implichi politiche sociali indirizzate a generare uno tessuto sociale che dalla stabilità tragga floridità e produca fermento economico e culturale, questa politica economica rinuncia invece a una prospettiva politica di più lungo termine e orientata alla creazione di una civiltà (e prima ancora di una civitas) che non consti di solo estemporaneo consumo.

Sotto tale aspetto, sul libro non c'è nulla da dire, anzi: ha il merito di offrire quella cornice filosofico-sociologica di analisi che viene applicata però al mondo milanese, riuscendo così forse a renderla palpabile per chi potrebbe faticare cimentandosi con la pagina di Fisher, legato a un mondo anglosassone di cui siamo sicuramente un riflesso coloniale, ma che resta tuttavia distante dalla concretezza del nostro proprio.

Tutto bello.

C'è, tuttavia, un grande "ma": sì, perché, se è pur vero – e lo ripeto a scanso di equivoci – che l'autrice non le manda a dire e indica chiaramente la matrice ideologica della torsione disumanizzante compiuta da parte della città, dell'amministrazione e dei suoi cittadini, ciò che però manca – clamorosamente, ma non sorprendentemente – è la domanda sulle cause storiche che hanno portato tutto questo nel nostro paese. E parliamo quindi anche delle cause di ordine sia nazionale che continentale e internazionale, le quali rendono effettivamente TINA l'assunzione di una politica neoliberale (e su questo suffisso "neo" ci sarebbe da parlare, ché forse è anch'esso un bel dispositivo di distrazione di massa, ma lo faremo eventualmente un'altra volta; vi è comunque però chi meglio se ne è occupato). Che sia impossibile lo sviluppo di politiche che vedano tanto il ruolo attivo dello Stato come propulsore economico e sociale, quanto la crescita dei redditi da lavoro salariato, è un fatto storico, non una legge di natura. Presentare infatti che queste politiche liberali sono state semplicemente assunte e sono ora TINA, non vuol dire spiegare come e perché questo mutamento si è imposto.

E invece questa lettura manca, perché questo richiederebbe confrontarsi con le relative responsabilità storiche, in primis di chi avrebbe dovuto difendere la classe dei lavoratori e che ha invece poi lasciato cadere la consapevolezza critica di quanto veniva a organizzarsi a livello continentale e nazionale.



Questa prospettiva è invece suggerita nel libro di Fisher (1), che sottolinea come l'affermarsi di una politica economica dell'offerta (quella per cui l'economia cresce se produci più chiodi e/o ne abbassi i prezzi... disinteressandosi del fatto che ci sia poi a chi venderli e che questi abbia la possibilità di acquistarli) sia iniziata a seguito di una scelta di politica economica dei tassi d'interesse da parte della Federal Reserve.

Certo, la catena delle cause è lunga da indagare e anche da esporre (e il vostro Bartleby non è qui ad accampare di essere in grado di farlo); le opinioni non sono nemmeno concordanti; diciamo però che ci sono una serie di mollichine di pane lasciate a tracciare un sentiero. Se anche si volesse comunque accettare una delimitazione di campo, ritenendo non particolarmente rilevante quanto succedeva al di là dei confini nazionali e continentali, non mancano eventi e tracce da prendere in considerazione, e se il lettore curioso volesse vagliarne alcune di quelle che ha provato a considerare il vostro, potrebbe trovare qui le più recenti dichiarazioni ("Abbiamo perseguito una strategia deliberata per cercare di abbassare i costi salariali combinata con una politica fiscale prociclica, l'effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e di minare il nostro modello sociale"); qui alcune più remote ma contemporanee a quanto riferito nel primo link; qui un quadro locale che apre a una prospettiva già ben discussa dallo stesso autore in un altro post di quel blog, aperto dopo essere intervenuto nel dibattito in questo esaustivo modo. Se poi si volesse qualcosa di ancora più risalente – come si dice tra studiati – qui la valutazione del 1981 da parte di una persona misteriosamente scomparsa, e qui alcune parole di chi sapeva quali fossero le conseguenze di alcune decisioni che all'epoca criticava, e che si espresse poi così nella seduta alla Camera del 13 dicembre 1978 (pagina 25000, colonna a sinistra).



La mancanza di questa domanda, lascia alla nostra riprovevole malizia lo spazio per il leggerissimo sospetto di trovarci di fronte alla creazione di uno spazio riflessivo che offre una romantica differenza di lotta, entro però i confini predeterminati da chi fa le regole del gioco. Non c'è il rischio, insomma, che questa bellissima seppur parziale analisi si risolva nell'essere un dispositivo di gestione del dissenso? Non rimane cioè la creazione di un profilo critico che offre lo spazio di un narrazione in cui si possano identificare coloro che in effetti faticano a negare il reale mediante il principio di realtà (2), ma senza che tale profilo rilevi veramente l'indisturbato conducente, il veicolo in cui siamo trasportati e il personale di sorveglianza? Il timore è quello di trovarsi insomma tra le mani la costruzione di una prospettiva che finisce per offrire a quel senso di leggera inquietudine, spesso una disperazione kafkiana, i termini che le consentirebbero di darsi una forma, di rendersi in qualche modo pensabile e descrivibile, ma che la risolverebbero solamente in un accorato appello (cit.) al cambiamento, alla disattivazione della narrativa, al rifiuto di farsi coinvolgere con le locali trame socio-economiche, adombrando addirittura a sostegno di queste pratiche alternative la suggestione per il fascino di una possibile città meno «spenta e noiosa», «più vitale e desiderabile» come motrice per differenti politiche economiche e sociali.

Sì, perché, nonostante sia la stessa autrice a ricordare che “There Is (No) Alternative”, dal momento che late la domanda su cosa renda però inevitabile una politica economica e sociale liberale, viene lasciata per il lettore la sensazione che questa politica si sia data così, calata dal cielo o datasi quale aleggiante sviluppo naturale, quasi deterministico, al massimo brandita intenzionalmente dai detentori di interessi economici legati alla rendita (finanziaria e non). E se è sicuramente vero questo ultimo punto, il suo attualizzarsi ha sicuramente seguito un processo storico, ma si è soprattutto istituzionalizzato in determinate sovrastrutture di ordine giuridico che rendono – queste sì – deterministica la loro implementazione e il conseguente relativo sviluppo sociale. Certo, il conflitto è dato naturale, come lo è l'egoismo che può caratterizzare i vincitori ma anche i vinti, rendendo quest'ultimi complici, ed è naturale che ciascuna parte brandisca le armi che più le fanno comodo, siano esse tecniche o ideologiche, (che è poi gnoseologicamente la stessa cosa). Omettere però che questo conflitto non si articoli esistenzialmente anche come storia dei soggetti umani collettivi non neutri, come spesso vengono invece presentate le istituzioni; che questo conflitto non si sia dato come dialettica storica pianificata (non in senso complottista ma nel senso della strategia di dominio, come ricorda Carlo Ginzburg (3) ) degli approcci politici ed economici, voluta e pensata anche alla luce delle conoscenze acquisite nell'ambito delle scienze economiche; che questa storia, fatta anche di sconfitte, non sia fatta a volte di complicità dalla portata maggiore rispetto a quella che può esserci stata da parte dei subordinati, che pur c'è, ma che spesso avviene a valle di una mancanza di possibilità a monte; ecco, omettere tutto questo in una spiegazione che pur presenta il proprio discorso anche sul piano economico e politico e non solo su quello di una filosofia e sociologia dell'immaginario, non è accettabile. Certo, combattere la narrazione, decostruire l'incanto dei dispositivi che irretiscono i corpi e le menti di sé e degli altri, è sicuramente un passaggio necessario, e forse anche un dovere morale cui anche con questi contributi il vostro Bartleby ha cercato di adempiere, ma non meno lo è indicare quali reti si siano costituire per intrappolare il presente e il futuro e soprattutto per condannare alla frustrazione dell'impotenza chi potrebbe cominciare a ricostruire i termini con cui descrivere la condizione presente anche grazie al lavoro di un libro come questo.


Inoltre, ci tengo a far notare, ma sottolineando che né lo scopro né lo dico io per primo, che la naturalizzazione delle relazioni economiche di tipo liberale e di libero-mercato, di cui poi la storia umana sarebbe una traduzione positiva – in leggi – di tali rapporti naturali, è precisamente la strategia comunicativa con cui da un paio di secoli viene prodotta la legittimazione di uno specifico interesse. Presentare cioè la competizione generalizzata in ambito sociale, la legge del mercato come legge darwiniana cioè appunto in termini naturali, i rapporti umani come prettamente economici – quella mostruosa chimera ideologica dell'homo oeconomicus – e lasciare quindi che il loro emergere nella storia appaia appunto un evento intemporale, coestensivo alla storia umana in quanto dato antropologico di base, un fatto quindi senza storia umana né funzione rappresentativa, sottratto alla scelta e dovuto a uno sviluppo deterministico della natura, è precisamente la strategia di egemonia culturale con cui stanno riportando l'Europa a condizioni ottocentesche (per ora, ma chi lo sa che non si voglia tornare più indietro).



È nostra premura chiarire ancora che la necessità per questo libro di tale domanda dipende dal fatto che esso vuole in effetti offrire anche il quadro storico ed economico di un naufragio sociale e culturale. Al posto di questa domanda, invece, abbiamo un finale in cui, seppur osservando come non sia opportuno invocare la «coerenza assoluta e l'ascetismo» (4), si sofferma però sulla chiamata in corresponsabilità delle persone comuni, che spesso, per cercare di sopravvivere, non hanno potuto che tentare di ritagliarsi uno spazio in un reale saturato da tale impostazione. Per carità: agli occhi di Dio siamo tutti responsabili della nostra intelligenza con il male e dei compromessi che intratteniamo, e ben se ne guarda anche il vostro Bartleby dal trasfigurarli narrativamente (sia concessogli di dire che gli stessi contributi che ha cercato di articolare in questo blog si focalizzano proprio sulla complicità al lavorio assoggettante dei dispositivi da parte dell'immaginario dei soggetti). D'altra parte, è già dai sopra citati Fisher, Deleuze, Foucault, ma in fondo anche dal nostro malinconico zio baffone, che ci è noto come le forme di assoggettamento vengano assunte da coloro che ne risultano soggiogati, e come ciò avvenga proprio attraverso il loro attivo riprodurle per sé e per coloro che gli stanno attorno. Un conto però è porre a problema l'urgenza di un'opera di critica e di decostruzione della narrazione, un'operazione che è necessariamente aperta da una figura che dovrebbe assomigliare a quello che fu l'intellettuale (colui cioè che saprebbe innanzitutto individuare le categorie che meglio descrivono il presente nella sua condizione attuale ma anche nel suo avere una storia, e che sarebbe poi in grado di tradurle anche in funzione della coscienza culturale collettiva, e non solo della propria risonanza mediatica); un conto è aspettarsi invocandolo che questo possa essere fatto da chiunque, tutti i giorni mentre può sopravvivere e procurare sopravvivenza ai propri cari solo mangiando amari bocconi, e invocarlo adducendo che «disturbare la propaganda funziona, oggi più che mai» (5). Certo che funziona, ma dov'è la domanda sul quadro più ampio, sulle cause strutturali, su come i rapporti di forza si siano tradotti in trattati e normative, che poi a valle producono quelle ipnotiche narrazioni con cui la propaganda investe lo spazio pubblico e privato? Non sarebbe anche questa domanda un bel disturbo per la propaganda, proprio perché andrebbe a minare le fondamenta dei sogni venduti e delle descrizioni moralistico-necessitanti con cui è stata investita la popolazione del lavoro, e darebbe soprattutto a questa una cornice a sostegno di quella impegnativa richiesta di ripoliticizzazione della propria vita? Ripoliticizzazione probabilmente necessaria, basta non finire come la crociata dei fanciulli.



E invece di arrivare alla scomoda domanda e l'ostilità relativa, il finale offre una più rassicurante virata verso presa «di coscienza di quanto sono spente e noiose le città che [l'egemonia della rendita, l'ideologia della valorizzazione. ndr.] modella, di quanto ascetismo […] esige la religione del metro quadro», a cui sarebbe opportuno «contrapporgli la potenza degli interessi di classe.» (6) Sì, ma appunto: da cosa sono stati ostacolati e imbrigliati questi interessi di classe? Mi dispiace ma questa elusione e questo che pare uno schmittiano invito (7) al ripristino delle ostilità uno ad uno tra eserciti di subordinati (si cita sempre Fantozzi, eh) sconfitti della globalizzazione liberale, ecco: grazie, ma anche no.


p.s.: noto comunque con piacere girardiano come l'autrice inauguri l'ultimo capitolo con una frase che non può non risuonare in questa sede: «Milano vuole a tutti i costi essere desiderata, ma è avviluppata dall'aria patetica di chi non è affatto sicuro di essere desiderabile e teme al primo approccio di essere respinto». Ecco, questo è innegabile: Milano attualmente è una provinciale civetta girardiana. Milano è uno schema Ponzi.



***


  1. Si veda ad esempio il capitolo: 6 ottobre 1979: «Non fare entrare niente nella tua vita», in Fisher, M., Realismo capitalista (2009), trad. it. di Valerio Mattioli (2018), Nero, Roma, in particolare le p. 78-80, in cui Fisher accenna con parole fin troppo gentili alla passività e a una successiva immobilità di chi avrebbe dovuto difendere il mondo dei lavoratori salariati.

  2. «A questo punto è arrivato però il momento di introdurre un'elementare distinzione teoretica tipica della psicoanalisi lacaniana che Žižek ha contribuito a rimettere in circolo negli ultimi anni: la differenza tra la realtà e il reale. Come ha spiegato Alenka Zupančič, l'ipotesi psicanalitica di un principio di realtà ci invita a sospettare di qualsiasi realtà che si presenti come naturale: “il principio di realtà non è una specie di modalità naturale derivata da come le cose stanno... Il principio di realtà è esso stesso ideologicamente mediato; si potrebbe persino arrivare a sostenere che sia la forma più alta di ideologia, quella cioè che si presenta come fatto empirico, come necessità biologia o economica, e che tendiamo a percepire come non ideologica. Ed è proprio qui che dobbiamo prestare la massima attenzione a come l'ideologia funziona.”. Per Lacan il reale è quello che ogni “realtà” deve reprimere; meglio ancora: la realtà si costituisce proprio attraverso tale repressione. Il reale è una X non rappresentabile, il vuoto traumatico che può essere soltanto intravisto tra le spaccature e le contraddizioni della realtà apparente.», Ivi, pp. 52-53.

  3. «Ma i complotti esistono: sono, soprattutto oggi, una realtà quotidiana. Complotti di servizi segreti, di terroristi, o di entrambi: quale è il loro peso effettivo? Quali riescono, quali falliscono nei loro veri obbiettivi, e perché? Dopo tutto, il complotto non è che un caso estremo, quasi caricaturale, di un fenomeno molto più complesso: il tentativo di trasformare (o manipolare) la società.», in Ginzburg, C., Storia notturna. Una decifrazione del sabba (1989), Edizione CDE (1991) (su licenza di Giulio Einaudi editore), Milano, p. XXVI

  4. Tozzi, L. L'invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (2023), Cronopio, Napoli: p. 195

  5. Ivi, p. 199.

  6. Ivi: p. 201.

  7. «Nel momento in cui abbandona il conflitto e sospende l'esercizio attivo della critica, la solidarietà si espone a virare verso valori conservatori, sacrificali, compensativi.», ivi: p. 200.




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