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L’Italia del cataclisma antropologico | da Pasolini all’affaire Cannarsi

Aggiornamento: 18 ago 2019


Pasolini sulle ceneri di Gramsci

Nell’Achever Clausewitz, Girard prospetta una crisi delle differenze di proporzioni planetarie, che trascinerà l’umanità tutta in un inferno di rivalità mimetiche, prodromo dell’apocalisse. Se già l’escalation tra Occidente e estremismo islamico negli anni Duemila avvalorava questa profezia, il nuovo tribalismo di destra e di sinistra che ha visto la luce dopo la crisi dei debiti sovrani nel 2012 non fa che confermarci nel timore che sempre nuove differenze inventate, e sempre meno produttive, ci aspettano nel futuro prossimo, in vista forse del loro definitivo collasso – o della loro assunzione metafisica destinale, forse del loro intronamento negli spazi futuri interstellari, o transumani. In attesa dell’eschaton, è forse il caso di provare a guardare al passato recente, per capire come si sia arrivati sin qui, e in così breve tempo. Nel solco della meditazione sulla cultura delle differenze e dell’identità, da me abbozzata nella serie di articoli Qualcosa come il cristianesimo (1 e 2), e delle riflessioni sull’effetto omologante del mimetismo nella società italiana tra Ottocento e Novecento, di cui ho cominciato a parlare nell’articolo su Leopardi, intendo ora proseguire seguendo la severa analisi dell’impatto culturale del consumismo sulla società italiana svolta da Pier Paolo Pasolini negli anni Settanta del Novecento.


Leggendo gli Scritti corsari (1), si rimane sorpresi dalla sotterranea sintonia tra l’analisi pasoliniana dell’omologazione culturale introdotta dalla televisione e le riflessioni di Girard sulle conseguenze ultime del mimetismo scatenatosi nel nostro evo, nonché dall’involontaria eco della meditazione di Tocqueville sulle conseguenze impreviste della democrazia americana. Faccio riferimento per ora all’articolo Acculturazione e acculturazione, pubblicato inizialmente sul Corriere della sera del 9 dicembre 1973 con titolo diverso (2). Nelle prime righe, Pasolini sembra richiamarsi esplicitamente (ma suppongo involontariamente) al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi: si parla di un “Centro” il cui “fascismo” ha progressivamente distrutto le “culture periferiche”, assimilandole al suo “buon tono” – dicitura, quest’ultima, del Leopardi: cerco di far dialogare i due autori trovandone la sotterranea intesa. Il “Centro” maiuscolo di Pasolini tuttavia non è più il Faubourg Saint-Germain, il centrocittà della “società stretta” di cui parlava Leopardi: è un centro ubiquo e privo d’estensione, il cui allettamento mimetico non è per questo meno cogente, anzi è divoratore spietato di ogni differenza, che appiana a maggior gloria dell’uniforme “modello” del consumatore borghese. In più punti Pasolini dice di non conoscere il nome o il volto di questo nuovo potere – sa soltanto che esiste, e agisce. In riferimento ad esso, Pasolini usa spesso il termine “fascismo”, che può sembrare gratuito o enfatico, e rappresenta invece il perno simbolico della geniale intuizione di Pasolini: quel che il Fascismo storico non era riuscito ad ottenere, nonostante la sua ventennale opera di omologazione culturale, la televisione e il modello unico del consumatore borghese sono riusciti a realizzarlo in minor tempo e con più sotterranea efficacia. Identica è la volontà del Fascismo mussoliniano e di quello, minuscolo ma maggiore, della società dei consumi: l’uniformazione completa, l’annullamento delle differenze e l’omologazione formale dell’italiano in un unico e identico tipo antropologico – lo scimmiottamento, sia detto di sfuggita, della pace delle differenze che molte religioni, e in particolare il Cristianesimo, promettono contestualmente alla venuta del Regno. L’italiano poteva diventare il fascista perfetto, e invece fu il consumatore perfetto, nel quale, con un briciolo di onestà, ciascuno di noi non stenterebbe a riconoscersi: è l’uomo asservito a “un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico”.

Il sottinteso esplicito del discorso di Pasolini è, per noi, il mimetismo come motore dell’uniformazione culturale: è solo sulla base di un’intuizione della natura mimetica del desiderio umano che Pasolini può concepire il “modello” del “Centro” (tutte parole sue) come fondamentalmente contagioso e ineluttabile. Si legga questo estratto da un articolo successivo (3): «Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà» (corsivi miei). La televisione è qui presentata come fucina di un “buon tono” che, grazie all’onnipervasività e all’immediatezza del mezzo, sgocciola nelle coscienze degli italiani immobilizzandoli nella muta e stolida scimmiottatura del “Giovane uomo e della Giovane donna” plasmati dal medium celeste. E che fanno il Giovane uomo e la Giovane donna, fatti maiuscoli dalla convergente mediazione del desiderio? Consumano beni di massa – jeans, televisori, automobili, prodotti culturali – per acquisire quel dozzinale prestigio sociale – medio, omologante, rasserenante, miseramente borghese – che riveste le loro superfici plastiche. Centrale è, per così dire, il pensiero della radioattività valoriale dei beni di consumo, ovvero l’impressione che emani da essi una virtù – vogliamo dire una “pienezza d’essere”, citando Girard? – che “avvalora” le vite dei giovani consumatori agli occhi degli altri. Si noti poi l’insistenza di Pasolini sulla natura quasi irriflessa del mimetismo consumistico, sul suo carattere di subdolo destino: “sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, ormai comune a tutti gli italiani: la quale ultima non può che deformare le prime” (4).

Veniamo alle conseguenze di questo “cataclisma antropologico”, che ha realizzato in pochi anni quell’identificazione nazionale che non l’Unità d’italia e non il Ventennio erano riusciti anche solo a cominciare. È a questa altezza che le riflessioni di Pasolini incontrano più da presso quelle di Tocqueville sul risentimento conseguente al proliferare della mediazione interna in una società di eguali o semi-eguali.

«Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo […] è la tristezza. L’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente» (5). Nel 1835, Alexis de Tocqueville pubblicava il suo celebre saggio sulla democrazia in America, nel quale troviamo riflessioni di sorprendente affinità: «Non bisogna nascondersi che le istituzioni democratiche sviluppano in altissimo grado negli uomini il sentimento dell’invidia: e non tanto perché offrono a ognuno i mezzi per eguagliarsi agli altri, ma perché questi mezzi vengono continuamente meno a chi li impiega. Le istituzioni democratiche risvegliano e lusingano il desiderio dell’uguaglianza senza poterla mai soddisfare del tutto. Questa eguaglianza completa sfugge ogni giorno al popolo nel momento in cui esso crede raggiungerla e fugge, come dice Pascal, di una fuga eterna […]. La possibilità di riuscire lo turba, l’incertezza lo irrita: esso si agita, si stanca, si inasprisce» (6). Cosa accomuna l’Italia del Boom economico e l’America democratica di inizio Ottocento? Chiaramente l’estensione a macchia d’olio di un unico modello culturale, ma non è da trascurare il ruolo dei vuoti (culturali, spaziali) che la giovane età degli Stati Uniti e la devastazione della guerra mondiale avevano aperto nei due paesi a confronto. Dove è vuoto è anche spazio per la crescita, per la creazione di nuova ricchezza; dove è vuoto è anche spazio perché certi modelli, veicolati dal potere, attecchiscano più facilmente. Cultura e capitalismo, in questo senso, sembrano costituire due polarità antitetiche.

Per esemplificare il suo ragionamento, Pasolini adduce il famoso esempio del cascherino. «Una volta il fornarino, o cascherino – come lo chiamano qui a Roma – era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicetta uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero [...]. E insomma, ciò che conta, questa persona, questo ragazzo, era allegro» (7). Il ritratto, un po’ idealizzato, ha tuttavia per noi, lettori del 2019, il pregio di metterci al corrente di un fatto che avremmo ritenuto inverosimile, stante la nostra esperienza di contemporanei: il fatto, cioè, di trovare strana la tristezza o la rabbia di un lavoratore umile. Tanta letteratura ammannisce questi ritratti idealizzati, ma raramente capita di leggere queste stesse cose in un articolo di cronaca sociale. Sono davvero così distanti da noi, gli anni Settanta? È possibile che allora ci si potesse stupire dell’infelicità del corrispettivo di un nostro fattorino di Foodora? La formulazione stessa della domanda invita a considerare, ancora, l’ampiezza della mutazione antropologica, economica e sociale di cui si è detto.


Mi è impossibile, a questo punto, non appropriarmi del discorso di Pasolini in relazione a un’altra delle più importanti linee di ricerca di questo blog, che ha a che fare, in senso lato, con l’infanzia e l’adolescenza, i suoi codici e la sua cultura – che esiste, e non parlo di quella degli Anni Sessanta. La parola a Pasolini: «Ci sono degli adulti della mia età così aberranti da pensare che sia meglio la serietà (quasi tragica) con cui oggi il cascherino porta il suo pacco avvolto nella plastica, con lunghi capelli e baffetti, che l’allegria “sciocca” di una volta. Credono che preferire la serietà al riso sia un modo virile di affrontare la vita. In realtà sono dei vampiri felici di veder divenuti vampiri anche le loro vittime innocenti. La serietà, la dignità sono orrendi doveri che si impone la piccola borghesia; e i piccoli borghesi son dunque felici di vedere anche i ragazzi del popolo “seri e dignitosi”. Non gli passa neanche per la testa il pensiero che questa è la vera degradazione: che i ragazzi del popolo sono tristi perché hanno preso coscienza della propria inferiorità sociale, visto che i loro valori e i loro modelli culturali sono stati distrutti». Dove un modello culturale è distrutto, prolifera l’omologazione del modello più potente – quello che ha i mezzi di rappresentazione, parafrasando Marx. Se penso alla mia esperienza di uomo nato nel 1989 e cresciuto dentro la televisione berlusconiana, ho idea che a quelli della mia generazione – e non solo – sia stata data l’occasione di ricevere – e in parte costruire – una propria compagine di valori opposti a quelli veicolati dall’uniformità del consumo – mediandoli, paradossalmente, da quella stessa televisione generalista che inculcava a viva forza i modelli conformistici. Sto parlando di alcuni prodotti dell’animazione giapponese che tra gli anni Ottanta e i primi Duemila la televisione italiana importò a basso costo dall’estremo oriente – gli anime. Forse non immaginavano, gli autori dei palinsesti, che alcune di quelle narrazioni pensate per rincoglionire i pomeriggi di buona parte di futuri adulti consumatori avrebbero rappresentato, per alcuni, un irrisolvibile nodo di contraddizioni, un veicolo imprevisto di valori che cozzavano così manifestamente con il “bon ton” professato dal resto della televisione e dalla società. Perché agiscono, questi personaggi, secondo valori e intendimenti tanto strani? Perché questo adesso ride? Perché ha il coraggio di dire questa cosa? Perché dà così tanta importanza a una cosa che io, i miei amici, i miei genitori passeremmo serenamente sotto silenzio – o di cui forse nemmeno ci accorgeremmo? Credo che a ciascuno di coloro che sono rimasti almeno una volta incantati davanti a una serie animata giapponese sia capitato di porsi domande consimili. Forse non ci rendevamo conto che quella era vera e propria resistenza culturale che il Nuovo Potere, nella sua stolida sicumera, ingannato dalla semplice analisi dei costi, ci somministrava senza accorgersene. Era il Diverso, era l’Altro – e dall’Altro, dicono, viene la salvezza.

Forse esagero, ma non è un caso se molti di noi guardano ancora oggi a quelle narrazioni come oasi benedette da una purezza perduta. Si intende che non attribuisco alla fruizione di animazione giapponese una qualunque valenza salvifica: ne considero semplicemente l’impatto mitopoietico – creatore di una (sotto-para-simil-proto-)cultura nel mezzo del niente: il che è mirabile, se ci si pensa.


Qualche tempo fa si è verificato un episodio altamente sintomatico della progressiva erosione di ogni alterità che il Nuovo Potere, sempre più invisibile ed onnipervasivo, sembra ormai prossimo a compiere, anche nel recinto per me vergine, nella memoria almeno, degli anime. Sto parlando del celebre affaire Cannarsi.

Gualtiero Cannarsi è un dialoghista che ha spesso collaborato con la casa di distribuzione Lucky Red. A lui dobbiamo l’adattamento della maggior parte dei film di Hayao Miyazaki, della serie e dei film originali di Evangelion nonché del recente e tanto biasimato nuovo adattamento della serie stessa per Netflix. Non entrerò nel merito della bontà del lavoro di Cannarsi, per non attirarmi gli strali della angry mob nazionale, unificata nel convergente linciaggio del dialoghista colpevole, sembra, di un italiano barocco e incomprensibile, traduzioni fantasiose e dialoghi irrealistici. Starò all’unico fatto che nessuno, spero, vorrà contestarmi: Cannarsi, adattando alla sua maniera film e serie, ha introdotto una vistosa differenza nello spettro della normalità linguistica su cui devono essere tarati mediamente, per essere “smerciabili”, i prodotti culturali. Questa differenza – e passo al piano personale – è precisamente ciò che mi lega con tanto affetto agli adattamenti del Cannarsi. Essi sono quello spuntone che si vuol livellare, perché il piano inclinato sia perfettamente liscio, o sul quale ci si inceppa, scivolando, per denigrarlo e bestemmiarlo – mi rallenti! – o per amarlo teneramente, come baluardo sciocco e ingenuo di una resistenza di cui si stenta ormai a riconoscere il senso. Si sono spesso citati i dialoghi del Cannarsi, ridendone a ganasce larghe, per la loro strana e rarefatta distanza dalla medietà del “realismo” televisivo internazionale – o dalla resa funzionale della logica del racconto, che è lo stesso: fruibilità is the word. Personalmente, è proprio in quanto marcano quella distanza dalla “Realtà” affatturata dal nostro mondo gustoso, godibile fino alla nausea, che ho amato, e amo, i bislacchi adattamenti di Gualtiero Cannarsi.


Non ho visto tutto l'adattamento cannarsiano di Evangelion, l'anime che più ha segnato la mia esistenza, non ho fatto in tempo: Netflix, istigato dalle giustificate querimonie dell'utenza, ha rimosso tutto. Circolano screenshot di dileggio, frame di sottotitoli che a volte, con gusto colpevole, mi capita di compitare ad alta voce, rimescolando quelle ardue sonorità come colluttorio. Condivido con il lettore la mia preferita, a suggello di quanto detto, senza attribuirvi un significato particolare secondo i canoni del valore unanimemente condivisi – ma appunto come un semplice, un insignificante talismano.



(1) P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975.

(2) Si leggano le pp. 22-25 degli Scritti corsari per le citazioni virgolettate non altrimenti segnalate di questo articolo.

(3) Ibid., p. 59

(4) Ibid., p. 58

(5) Ibid., p. 61

(6) A. de Tocqueville, La democrazia in America, BUR, Milano 2010, p.211.

(7) Pasolini, op. cit., p. 61

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