di Ludovico Cantisani
“Conosco le leggi del mondo
E te ne farò dono”
Franco Battiato, La cura
Nella storia delle filosofie dell’Ottocento e del Novecento, in molti hanno tentato di individuare un principio monista entro cui ricondurre grossomodo l’intero fascio delle esperienze umane. Via via che ci si allontanava da Hegel la sete d’Assoluto si smorzava e la stessa ostinazione sull’Universale vacillava, salvo poi ripresentarsi in una nuova veste se non all’interno di un sistema comunque nell’ambito di una teoria che, partendo da un singolo principio, arrivasse a destrutturare o quantomeno a parafrasare l’umano nel suo complesso. Nel Novecento, uno degli esempi più classici ci viene da Freud, e dal suo principio del piacere – uno degli esempi più classici, ma anche più scivolosi, dal momento che a partire da Al di là del principio di piacere Freud riconobbe anche la pulsione di morte, inficiando così ogni sospetto di monismo. Cercare un unico principio, o tutt’al più un’opposizione dualistica, entro cui ridurre bene o male l’esistente sembra essere un’esigenza profonda della mente umana - soprattutto dopo due millenni di monoteismo.
Se l’idea di trovare l’Elemento Princeps, che da solo bastasse a costruire un’intera teoria volta a spiegare la cultura umana nelle sue molte forme, è prevedibilmente comune nel corso del Novecento, è raro individuare un principio più pervasivo e più sfuggente del principio mimetico teorizzato, o meglio risemantizzato, da René Girard lungo tutta la sua opera. Riconoscere che alla base del comportamento umano c’è un’ampia componente mimetica, imitativa, riproduttiva nel senso più ampio del termine è un dato di fatto – i bambini imitano i genitori, i gregari imitano il maschio alfa di turno, gli adolescenti imitano gli adulti che vogliono diventare, questo si potrebbe estendere in parte anche alle specie animali. Ammettere che dietro ogni imitazione ci siano tratti sinistri, che ora tradiscono una forma di venerazione, ora invece lasciano presagire un più silente desiderio di presa-di-possesso dell’altro, ora addirittura aprono squarci di falsificazione ontologica - queste sono tesi che già Platone aveva disseminato nel pensiero occidentale più di duemila anni fa, salvo poi essere riveduto e corretto da Aristotele, perlomeno nella sua condanna dell’arte come μιμησις μιμησεως. Teorizzare, come fece Girard, che al principio imitativo quando viene generalizzato a livello comunitario in una vera e propria “crisi mimetica” segue la messa a punto di un dispositivo sacrificale, il capro espiatorio, e che dal capro espiatorio e dalla sua originale arbitrarietà sostanzialmente sgorghino e si rinnovino le società umane, le religioni e il grande dualismo paganesimo/cristianesimo e in fondo la stessa civiltà – questo è un altro paio di maniche.
René Girard ha trascorso quattro decenni a provare la sua teoria, applicandola in ambiti piuttosto disparati, in quell’inedito crocevia tra antropologia, filosofia, critica letteraria ed apologetica che rendeva il suo pensiero irripetibile. La sua interpretazione dell’archetipo del capro espiatorio è stata variamente accolta, e a volte aspramente criticata, ma il principio mimetico che è il suo presupposto e la sua base è generalmente parso come un tratto piuttosto inossidabile e indiscutibile dell’opus girardiano, e sta ricevendo sempre più conferme anche da parte delle neuroscienze. Del resto, come ricordato anche dal suo necrologio pubblicato alla sua morte nel 2015 dalla Stanford University presso cui insegnava, Girard quando ancora era in vita era stato definito “il Charles Darwin delle scienze umane” – nello specifico da Michel Serres, filosofo suo conterraneo. Questo appellativo Girard se l’era meritato per l’interdisciplinarietà delle sue tesi – o, quantomeno, per l’interdisciplinarietà delle loro implicazioni.
Il principio mimetico e il principio espiatorio, riconosciuti e messi in diretta consequenzialità da Girard, bastano da soli ad illuminare di luce nuova i campi più disparati tra loro, dalla critica letteraria alla logica filosofica, fino alla psicoanalisi e all’ontologia post-heideggeriana – il Darwin delle scienze umane, appunto. È allora difficile resistere alla tentazione di applicare Girard a Darwin, al vero Darwin, quello dell’Origine delle Specie – ma un simile accostamento dev’essere fatto ad armi pari, o meglio, tracciando in partenza gli ambiti del confronto. Il mimetismo à la Girard può essere trasposto in ambito darwiniano, il capro espiatorio deve restare, almeno in un primo momento, un po’ da parte - per quanto affascinante possa essere la suggestione per cui il dispositivo espiatorio sia un modo per assicurare, attraverso il sacrificio del meno adatto, la sopravvivenza complessiva di una comunità. Al tempo stesso, senza voler nulla togliere all’importanza assoluta della figura di Charles Darwin come scienziato, non possiamo non limitare gran parte della nostra lettura alle implicazioni sociologiche e se vogliamo filosofiche delle tesi darwiniane: ciò non vuol dire rifarci necessariamente al famigerato “darwinismo sociale”, ma, nella consapevolezza dei limiti delle nostre conoscenze e della possibilità di trattazione, individuare con chiarezza il giusto scenario in cui, avvicinandosi reciprocamente, le tesi di Girard e di Darwin potrebbero dialogare.
La grandezza di Charles Darwin fu nel postulare una volta per tutte il principio evolutivo alla base dell’esistenza biologica e dell’origine delle specie, nonché il suo carattere violento. La sua raffinatezza consistette nel postulare non la sopravvivenza del più forte, bensì del più adatto, del più adattabile o del più adattato che fosse. Da un punto di vista individuale, l’adattamento riguarda una corrispondenza nei confronti dell’ambiente in cui si vive, delle sue criticità, dei suoi pericoli; ma quando da un punto di vista individuale ci si sposta in un ambito più comunitario, fosse anche quello del branco, si capisce come ogni conglomerato di individuo sia tanto una difesa “oplitica” nei confronti dell’ambiente esterno, dell’elementale e delle altre specie predatorie, quanto un dispositivo che, quando necessario, non tarda a sopprimere i suoi stessi membri, soprattutto se sono in un modo o nell’altro “divergenti”.
L’evoluzionismo stesso può allora essere riletto sin nella sua base alla luce di un principio mimetico: il mimetismo come modalità survivalistica, innanzitutto, come adesione pragmatica agli interessi e alle abitudini del gruppo di appartenenza; ma da un punto di vista più feroce anche come pratica, nelle sue implicazioni espiatorie, semplicemente - sopraffattoria. È necessario essere il più omogenei possibile, il più simili, il più aggregati, per poter rispondere come un sol uomo ai pericoli e agli attacchi provenienti dal mondo esterno. E siccome è in risposta a una situazione di violenza, poco importa se esogena o endogena, che i legami all’interno del gruppo si cementificano, è facile che a volte sia necessario creare un pretesto affinché, nella maniera più istituzionale possibile proprio per evitare strascichi incontrollati, tutto il gruppo si rivolga contro un singolo individuo per ucciderlo. Pretesto che si crea da solo, quando un singolo membro diverge – come abbiamo già visto, e come presto più analiticamente vedremo.
Il riferimento a Darwin dischiude all’immaginario girardiano un ambito temporale che, di fatto, può precedere la stessa Preistoria e la stessa civiltà umana, dal momento che riguarda anche le specie animali: se davvero sono i riti e in particolare i sacrifici a caratterizzare l’umano, ecco riaffermata la pertinenza di Abele. Andando però da un lato all’altro della storia, nel nostro presente e oltre, ci accorgiamo che i pericoli provenienti dal mondo esterno sono drasticamente ridotti, i riti stessi, almeno nella loro forma istituzionalizzata, sono calati se non del tutto “scomparsi” come vuole Byung-chul Han; eppure, la mimesi è rimasta uno degli atteggiamenti umani di fondo, e nella nostra società a volte – e solo a volte – la si può qualificare come conformismo; e, soprattutto, persistono ad esserci continuamente dei meccanismi sociali in cui, mettendo da parte il rito, l’uccisione o comunque la condanna del capro espiatorio è ricorrente per non dire onnipresente. Se anche il capro espiatorio non fosse un principio universale, resterebbe un archetipo paurosamente diacronico e capace di attraversare le ere.
Cerchiamo di andare a questo punto, con Girard, forse oltre Girard, con un occhio anche a Darwin: la mimesi è (può essere) una forma di adattamento, e l’adattamento è (sempre?) una forma di mimesi. Questo è più di un giro di parole: a ben vedere, la vittima è sempre chi non può imitare né essere imitata, chi rifiuta il principio mimetico. In (quasi) tutte le vittime, c’è un’individualità “irriducibile”, in maniera volontaria o inconsapevole poco importa, che inevitabilmente rende la futura vittima incatalogabile rispetto ai criteri del gruppo o del “branco”, che la fa spiccare sul resto indifferenziato. È, di fatto, inimitante e inimitabile, anche se molti vorrebbero essere al suo posto.
Torna alla mente il finale selvaggio di Porcile di Pier Paolo Pasolini, quella sua sinistra maledizione: “la società, ogni società, divora sia i figli obbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti”. Chissà se non si possa leggere quest’affermazione di Pasolini come una sorta di negativo fotografico di quella mimesi survivalistica che si ottiene creando un chiasmo tra Girard e Darwin. Chissà se non si possa in un ultimo sforzo farli coincidere. La società “divora”, nel senso che fagocita, sia chi le obbedisce sia chi non le si oppone. Chi si oppone direttamente alla società, spesso viene punito, ma raramente è un’autentica vittima espiatoria, anche se può retoricamente presentarsi come tale: chi incautamente opta di fare un testa-a-testa con la società finisce per essere il più delle volte o cancellato o a sua volta “sistematizzato”, senza però che questo abbia alcuno degli strascichi che un’autentica vittima espiatoria può vantare.
L’anticonformista compie una mimesi oppositiva, ma comunque simmetrica. Comunque imita: è catalogabile. In una crisi mimetica autentica invece, alla lunga, tutti imitano tutti, eccetto la vittima, che resta sola nelle mani di un’orda. E poco importa che la scelta della vittima può essere, soprattutto nell’ideale rito espiatorio “originario” di cui sarebbero derivati tutti gli altri, del tutto arbitraria. Questo Ur-rito è, anche per lo stesso Girard, poco più che un’idea regolativa. Passando dalla preistoria alla storia, o quantomeno alla protostoria, la scelta della comunità si concentra sempre di più sull’Inimitabile. Esemplare in questo senso è Edipo. Il protagonista delle tragedie di Sofocle sin dall’inizio del suo dramma è doppiamente inimitabile, in positivo e in negativo, e, al momento della scioccante rivelazione, dell’epifania negativa, l’impossibilità della mimesi giunge a un parossismo incestuoso. Edipo è re, e quindi al di sopra di tutti gli altri uomini; ma Edipo è anche zoppo. Una volta che Edipo si scopre e viene scoperto essere parricida, incestuoso e “fratello delle sue stesse figlie”, l’impossibilità della mimesi e della catalogazione è assoluta. Edipo azzera alcune delle etichette di base della società, quelle relative alla famiglia: e, in quella brutta congiuntura che è l’incesto inconsapevole tra una madre e un figlio, si crea un ulteriore parossismo mimetico-riproduttivo che pure concorre a rendere particolarmente tabù, e particolarmente inimitabile, questa figura di Edipo.
Se ne potrebbe trarre un crocevia furibondo, e in apparenza “senza-fuga”, proprio come quel crocevia dove Edipo finì per uccidere Laio. Chi imita, alla lunga è un assassino – se non altro perché replica e rinnova delle strutture sociali aberranti, per il singolo, che fagocitano innanzitutto lui stesso. Chi non imita, è uno di quei “figli né obbedienti né disobbedienti” di Pasolini: solo in apparenza si condanna all’anonimato e all’inazione, di fatto anche lui entra a far parte di quella schiera di “assassini-assassinati” accanto agli imitatori, accanto ai “conformisti”. Chi in apparenza viene imitato, idolo o “re” che sia, è in pericolo, perché nei fatti inimitabile: viene imitato come idea regolativa, proprio perché irraggiungibile; questa venerazione nell’arco di un solo giorno può trasformarsi in invidia e può trasformarsi in regicidio, soprattutto se, come in alcune società primitive, solo chi uccide il re si impadronisce della sua aurea e può sedersi sul suo trono. Ma il più misero di tutti è chi non imita e non può essere imitato: questi davvero “se la sta cercando”, e con la sua duplice passività per essere schiacciato dai meccanismi sociali e dalle folle mimetiche il più delle volte senza neanche un rito pubblico ad acclamarne il sacrificio.
Come uscirne, se le cose, per quanto schematica possa essere questa sintesi, sono davvero così? La via di fuga ci viene sorprendentemente offerta da una voce amica, sinistramente famigliare, vissuta negli stessi anni e nella stessa Inghilterra che, per prima, Charles Darwin scioccava con le sue tesi sull’origine delle specie e poi anche dello stesso uomo. Stiamo parlando di Lewis Carroll, l’autore delle due Alici. Si potrebbero dire molte cose sul linguaggio sapientemente infantile con cui Carroll costruisce i due romanzi, e su quanto le strutture di pensiero e di espressione dei bambini di ogni tempo tradiscono una profonda componente mimetica, riconoscibile tanto nell’onomatopea quanto nello sforzo che fanno nell’imitare le parole dei “grandi” – ma non è questa la sede per avventurarsi in simili disamine. Altri hanno già formulato un’infinità di interpretazioni circa il simbolismo carrolliano, le sue implicazioni sociali, politiche, filosofiche, anche matematiche, religiose – ma qui non c’è né il tempo né il modo né il bisogno di ripercorrere quest’ermeneusi infinita. A noi di Carroll interessa qualcosa di molto più specifico: un singolo passo, del secondo romanzo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, che si riallaccia nitidamente e direttamente a Darwin, ma nei fatti anche a Girard, o perlomeno alla lettura di Girard che qui abbiamo tentato.
Siamo in uno dei primi capitoli del libro, e, dopo aver dialogato con dei fiori parlanti, Alice ha appena incontrato la Regina Rossa, che la sta costringendo a una passeggiata nel suo reame. La Regina ha costretto Alice ad accelerare sempre di più e, quando finalmente le due donne si fermano, la ragazza ormai è a un passo dallo svenimento. Appena si riprende però Alice fa una sorprendente scoperta:
“La Regina l’appoggiò con la schiena a un albero e le disse gentilmente: «Ora ti puoi concedere un breve riposo». Alice si guardò attorno sbalordita. «Ehi, ma siamo rimaste per tutto il tempo sotto quest’albero! È tutto esattamente com'era prima!». «Certo», rispose la Regina. «Che cosa ti aspettavi?». «Be’, nel nostro paese» disse Alice, ancora un po' trafelata, «di solito si arriva da qualche altra parte - quando si corre per tutto il tempo che abbiamo corso noi». «Ma che paese lento!» esclamò la Regina. «Qui, invece, ti tocca correre più forte che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte, devi correre almeno due volte più forte»”
“Ti tocca correre più forte che puoi per restare nello stesso posto”: ciò che questa frase implica è estraneamente polistratificato, e può essere letto tanto su un piano biologico quanto su un piano sociale quanto anche, volendo, su un piano psicologico, individuale. Chiaramente quest’affermazione ha una sua portata survivalistica, per quanto il legame più forte con l’opera di Charles Darwin arrivi a noi mediato dal biologo Leigh Van Valen, che nel 1973 chiamò proprio Red Queen hypothesis una sua ipotesi evolutiva atta a spiegare i vantaggi della riproduzione sessuale. È al tempo stesso difficile nascondere quanto questa frase da un lato si riallacci all’archetipo ulissiaco puro, soprattutto alla lettura di Ulisse come “eroe dell’uguale” che davano Adorno e Levinas, dall’altro lato anche a certe pagine che Friederich Nietzsche scrisse poco più di un decennio dopo la pubblicazione della seconda Alice, sull’eterno ritorno dell’uguale. Ma queste valgono come suggestioni.
Su un versante girardiano e, quindi, antropologico, la massima della Regina continua a rivestire i suoi punti di interesse. Delinea, di fatto, una strategia, una strategia esistenziale che potrebbe essere adottata anche nella vita di tutti i giorni – tanto più che lo stesso Heidegger riconduceva il presente e la stessa natura finita della nostra esistenza a uno “scaturire fuggendo via” dalle molteplici implicazioni. Di fronte alla purezza ingenua di Alice, la Regina Rossa, inascoltata, sta consegnando alla bambina una grande lezione di vita, come solo gli adulti in apparenza più tetri sanno dare. “Ti tocca correre più forte che puoi per restare nello stesso posto” insegna che bisogna al tempo stesso mantenere un’identità e variarla il più possibile, scegliersi un unico punto fermo nella consapevolezza di dover attraversare tutti gli altri, per ritornare lì. Letta in una chiave girardiana e nella particolare chiave girardiana che stiamo qui cercando di tracciare, la Regina Rossa insegna che bisogna essere al tempo stesso incasellati e fluidi, etichettati e imprevedibile, sistematizzati e anarchici, integrati e apocalittici – è solo una questione di piani, e di priorità, necessaria per indicizzare e gerarchizzare la propria esistenza.
Solo “correndo il più forte che puoi per restare nello stesso posto” si sfugge alla logica fatale che Girard ha riconosciuto con particolare chiarezza, alla logica dell’imitazione e del sacrificio. “Correndo” si sfugge tanto alla mimesi attiva, all’imitare, quanto alla mimesi passiva, all’essere imitati – ma senza dare troppo nell’occhio, dal momento che, carnevalescamente, “si resta sempre dove si è”. È una win-win solution, in cui non si creano tensioni o perturbamenti a livello comunitario o sociale ma, al tempo stesso, ci si crea uno spazio di libertà - forse isterica, come la Regina Rossa, pur sempre libertà però. E il fatto che non si imiti nessuno non vuol dire che si cessi di imitare. L’imitazione viene portata a un livello più alto, dall’ontico all’ontologico – e questo ce lo può spiegare bene Nietzsche, a modo suo.
“Necessità e caso sono ognuno la maschera dell’altro: accettare totalmente questa doppia maschera vuol dire coincidere col movimento del mondo e al tempo stesso abdicare alla necessità fittizia della propria identità”, scriveva Roberto Calasso nelle ultime pagine del suo magistrale Monologo fatale, parafrasando l’Ecce Homo di Nietzsche. Se estremizzato fino all’equivalenza tra individuo e divenire, questo principio mimetico può portare alla pazzia, come dimostra la biografia del filosofo tedesco. “L’essere che è diventato uguale all’esistenza genera il mondo da sé stesso”, proseguiva Calasso, e “i segni di quel processo vengono distribuiti nelle ultime lettere di Torino: Siamo contenti? Son Dio, ho fatto questa caricatura…”. Se la massima “bisogna muoversi il più velocemente possibile per restare dove si è” viene presa nel senso più generale ed esistenzialista, questo movimento continuo rappresenta un aderire al Divenire della vita.
Una mimesi alla vita, quindi. Senza scomodare Bergson e i suoi slanci, è questa la lezione in positivo di Girard – assieme alla consapevolezza nera, tragica nel senso proprio del termine e profondamente nietzschiana, che tanto la vita quanto la civiltà credono di aver bisogno di mietere vittime, per propagarsi. La sfida di Girard e di tutto il cristianesimo non è difficile dal gesto impulsivo che più volte Alice compie, nei due romanzi di Carroll: “sbuggerare” le regine, le loro vanterie e i loro rituali stanchi alla luce del buon senso e della sincerità cristallina dell’infanzia. Smascherare il mondo e le sue tesi, verrebbe da dire.
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