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Tolkien, Ainulindalë | La dinamica originaria precedente il conflitto

Aggiornamento: 2 gen 2023


Ainulindalë di Alassea Earello

Della monumentale opera di J. R. R. Tolkien (1982-1973), praticamente il lavoro di un’intera vita, è stato detto tutto e il contrario di tutto. Nulla di strano: questo professore inglese non ha fatto altro che raccontare miti e da sempre dei miti si dice tutto e il contrario di tutto.

Uno legge definizioni da dizionario nella speranza di trovare almeno lì un punto di partenza valido, precedente a qualsiasi teoria interpretativa, e trova termini come “imprese” e “gesta”. Poi comincia a conoscere le opere più famose, senza andare a cercare casi sconosciuti per il gusto di trovare eccezioni, ed è subito messo in crisi (il problema è approfondito nell’articolo Cos’è il mito): il primo canto dell’Iliade parla di due “eroi” che litigano per una donna, l’opera teatrale più celebre parla di un parricida e incestuoso… Considerato il livello di comprensione di testi che appartengono al nostro patrimonio culturale da millenni, non c’è davvero da stupirsi con un autore così recente.

Perché Omero ha tanto interesse per una litigata? Non poteva dedicarsi a “gesta” più eroiche? Perché Sofocle ne ha tanto per la tragica sorte di Edipo? Non poteva drammatizzare la brillante risoluzione dell’indovinello, l’“impresa” di sconfiggere la Sfinge? Perché Tolkien nel XX secolo inventa nuovi miti? Non bastavano le guerre reali, bisognava immaginarne di altre, solo perché qualcuno parlasse le sue lingue inventate?


Nirnaeth Arnoediad di Eilian

L’ipotesi che vogliamo portare avanti è che è stato proprio il professore inglese a comprendere il senso profondo di questi racconti ed è per questo che ha sentito l’esigenza di riproporre una nuova mitologia. Ha colto il profondo legame tra Mito, Vangelo («The Gospels contain a fairy-story, or a story of a larger kind which embraces all the essence of fairy-stories», On Fairy Stories) e Realtà: ciò che si tende a considerare tre “entità” contrapposte. Vogliamo dunque proporre un percorso lungo tutta la sua mitologia per mostrare che più ci si addentra in essa, più si comprende al tempo stesso non solo quella, ma ogni narrazione mitica, quella evangelica e in definitiva «the inner consistency of reality» (On Fairy Stories).

Dopotutto ogni racconto, per quanto fantasioso, per essere credibile agli occhi del lettore deve conservare le strutture essenziali dell’esperienza reale e, in effetti, tanto più la sub-creazione generata dall’immaginazione si discosta dal mondo empirico osservato, tanto più risaltano quegli elementi fondamentali a cui non si può rinunciare per renderla “consistente”. Ma le storie, incentrate soprattutto sull’azione di personaggi che mantengono sempre tratti più o meno antropomorfi, compongono non tanto un’onto-cosmologia (una “visione del mondo”), ma una vera e propria fenomenologia della Realtà umana. Con Tolkien la notevole novità è che il contesto mitologico consente di avere protagonisti con diversi elementi non umani, arrivando così al cuore di ciò che è più essenziale. Si potrebbe parlare di una fenomenologia della Realtà umana da un punto di vista eterocentrico (perlopiù elfocentrico e hobbitcentrico).



Prima di iniziare, tre precisazioni dal punto di vista metodologico sono doverose. La prima: nessuna lettura allegorica (che Tolkien “cordially” detestava, cfr. Seconda Prefazione a The Lord of the Rings), per cogliere la profondità della storia saranno esplorate le dinamiche che la strutturano.

La seconda riguarda gli studi comparativisti e strutturalisti di mitologia: nessuno sarà citato; non per nascondere presupposti teorici, ma per invertire il punto di vista: non sono loro che spiegano Tolkien, coerentemente con la nostra ipotesi dobbiamo dire che è semmai Tolkien che dà loro ragione o torto (nell’articolo L’attualità del mito abbiamo prospettato che in ultima istanza il professore inglese è già oltre il lavoro di ciascuno di loro, anche chi è arrivato dopo come Girard).

La terza e ultima riguarda i testi: saranno analizzati in ordine The Silmarillion, The Hobbit e The Lord of the Rings, seguendo quindi la cronologia dei racconti, citando sempre in lingua originale, per risolvere alla radice ogni dibattito sulla traduzione.

Per quanto concerne The Silmarillion, è noto il problema di non essere un’opera pubblicata da John Tolkien. Nonostante sia complessivamente incompiuta e nonostante siano note versioni alternative di molteplici parti, resta il fatto che ognuno di quei racconti è stato elaborato dal professore e nel loro insieme essi rappresentano comunque una versione sua di come si sono svolte le vicende prima degli eventi degli altri due libri. Quindi non c’è motivo per metterla da parte. L’assoluta coerenza dal punto di vista tematico che mostreremo con The Hobbit e The Lord of the Rings renderà superfluo dover fornire ulteriori giustificazioni.



Partiamo, dunque, dall’Ainulindalë, il racconto delle origini. In ogni mitologia sono sempre coincise con un conflitto. Anche in Tolkien questo tema universale non manca, ma c’è un evento fondamentale, che lo precede e non ne è il preludio.

Nelle prime righe si legge:


«And he [Ilúvatar] spoke to them [Ainur], propounding to them themes of music; and they sang before him, and he was glad. But for a long while they sang only each alone, or but few together, while the rest hearkened; for each comprehended only that part of the mind of Ilúvatar from which he came, and in the understanding of their brethren they grew but slowly. Yet ever as they listened they came to deeper understanding, and increased in unison and harmony»


All’origine di tutto non c’è il caos, ma la relazione con un’alterità, che non è materia informe da manipolare, ma l’altro in forma embrionale, a cui comunicare, proporre. La dinamica non è semplicemente positiva, ha una funzione costitutiva, non riducibile all’istante creativo, perché si estende in un rapporto continuativo di dipendenza, attraverso cui genera crescita.

Per quanto tutto sia prodigioso, Ilúvatar mostra un atteggiamento famigliare nei confronti dei suoi Ainur, riconducibile a quello di un maestro con i suoi discepoli, che imparano seguendolo nel canto.

E cosa apprendono? Un solo legame non è sufficiente, non perché il maestro non sia abbastanza grande, ma perché lo è tanto che coltivare la relazione con lui a un livello più profondo abbraccia il fiorire di altre anche tra discepoli, perché ognuno di loro sia arricchito. Imparano l’unità, cioè a vivere interrelazioni, e l’armonia, cioè a riconoscerle come positiva interdipendenza.

Si arriva così alla Grande Musica degli Ainur e alla creazione del Mondo: esso si dà come manifestazione visiva del contenuto di una comunicazione corale, che è esito delle interrelazioni ed espressione del riconoscimento della positiva interdipendenza che esse costituiscono, a cui Ilúvatar, il maestro e l’origine, dona Essere. In questa produzione musicale è impossibile quantificare il merito da attribuire a ogni singolo, per dargli un segno distintivo, che qualificherebbe il suo essere “super-ente”, ma non perché sia un agire anonimo in un contesto indifferenziato. Il Mondo non è il risultato della somma di potenze dischiuse da singolarità monadiche, perché è plasmato dall’armonia, in cui l’unicità di ciascuno non solo trova il suo posto, ma viene esaltata nella sua complementarietà con le altre (1), purché – e questo è fondamentale – ognuno accolga l’interdipendenza con gli altri. Quando essa viene rifiutata, benché non cancellata, perché l’opposizione è a sua volta un tipo di relazione, proprio per perseguire un’identità (illusoria) fondata su una (presunta) potenza racchiusa in sé, ha inizio il conflitto.



Melkor respinge innanzitutto la dipendenza dal maestro, che diventa rivale, con l’intento di appropriarsi del suo Essere, «for he sought therein to increase the power and glory of the part assigned to himself». La rottura con i suoi “fratelli” (“brethren” nell’originale) Ainur ne è la logica conseguenza, che trova espressione nella discordanza.

I miti teo-cosmogonici di Esiodo, di Snorri, piuttosto che della lotta tra Marduk e Tiamat o altri, partono sempre dalla rivalità, preceduta solo da legami a livello genealogico, ma non costitutivo. L’Ainulindalë invece sonda una dinamica più originaria e ciò cambia la prospettiva con cui si narra il conflitto.

Se alcuni Ainur restano vittime della nuova rivalità e prendono Melkor come nuovo maestro, è perché dimenticano la dipendenza da Ilúvatar:


«some began to attune their music to his rather than to the thought which they had at first»


Non è ancora brutale guerra, la forma è quella elevata di temi musicali che si sfidano, ma è solo l’inizio.

Al termine della Grande Musica Ilúvatar prova a riallacciare il rapporto di dipendenza ricordando che «no theme may be played that hath not its uttermost source in me», ma la reazione di Melkor è un incremento di ostilità («of which came secret anger»: l’idea di “segretezza”, di celare il proprio sé, esprime proprio il tentativo di chiusura monadica).


Ainulindalë – The Discord of Melkor di Anna Kulisz

Il tema centrale dell’Ainulindalë è quello della relazione, come ribadisce il momento della presentazione dei Figli d’Ilúvatar, Elfi e Uomini:


«none of the Ainur had part in their making. Therefore when they beheld them, the more did they love them, being things other than themselves, strange and free, wherein they saw the mind of Ilúvatar reflected anew, and learned yet a little more of his wisdom, which otherwise had been hidden even from the Ainur»


Chi accoglie la dipendenza, ama l’alterità e la sua sapienza aumenta; chi invece vuole invertirla, è posseduto solo dal desiderio di assoggettare, perché conosce solo la logica dei rapporti di dominio. Di nuovo Melkor vuole sostituirsi al suo maestro, la cui rappresentazione nella mente in realtà è distorta proprio da quel desiderio di imitarlo:


«he wished himself to have subject and servants, and to be called Lord, and to be a master over other wills»


La distorsione della rappresentazione è dovuta al fatto che non è più desiderio di apprendere, ma si riduce solo a invidia nei confronti di ogni altro. Lo si evince con i suoi simili, gli altri Ainur divenuti Valar (quelli giunti nella Terra chiamata Arda):


«His envy grew then the greater within him»


Queste dinamiche descrivono la Realtà? Sono davvero il fondamento della nostra realtà più intima come questo mito ci narra? Solo approfondendo gli eventi di Arda potremo rispondere.


Valar – Vaire di Anna Kulisz

(1) Questo elemento sarà sviluppato nel Valaquenta, dove il contesto politeistico dei miti viene ripreso, senza introdurre il problema di dover chiarire un’intrinseca natura più o meno “divina” dei personaggi, ma risaltando soprattutto una pluralità di interessi e amori diversi e proprio per questo complementari nel compito di prendersi cura del Mondo.


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