È bene esaminare i discorsi che stanno riuscendo a farci convivere con la progressiva normalizzazione della guerra. Voglio soffermarmi in particolare su un’idea piuttosto consolidata e ricorrente nel dibattito italiano, che possiamo riassumere nel seguente slogan: “noi non contiamo nulla”.
Notiamo anzitutto che questa tesi può accompagnare posizioni piuttosto eterogenee e addirittura opposte: dalla pace a tutti i costi, alla guerra a oltranza, passando per i tentativi di mediazione. L’idea che “non contiamo nulla”, tuttavia, si rivela particolarmente ricorrente – paradossalmente, visto che uno stato di estrema debolezza dovrebbe forse consigliare neutralità o almeno cautela – nei discorsi di chi sostiene la prosecuzione del conflitto. Se non si conta nulla, del resto, nessuna nostra scelta è in grado di fare la differenza. E se nulla può far la differenza, allora è illogico ritenerci responsabili di qualcosa. La guerra la vuole Putin, la vuole Zelenski, o Biden, o Xi Jinping. Noi invece non contiamo nulla, e fare questo o quello non può incidere in alcun modo.
Mi viene in mente la performance di Marina Abramovic, quando si sottopose al pubblico senza reagire, ossia senza che nulla facesse differenza per lei. Per qualche motivo, dopo due o tre ore che stava immobile, si iniziarono a registrare comportamenti violenti nei suoi confronti. Viene il dubbio che la professione di “indifferenza”, ossia di non poter fare la differenza, non si limita a giustificare semplicemente le violenze, ma le prepara attivamente.
Limitiamoci però a un piano più ovvio e intuitivo. Convincersi di non contare nulla costituisce un’ottima premessa per evitare di porsi qualsiasi problema, etico o strategico. Non c’è bisogno di approfondimenti né serve elaborare un dibattito se siamo cittadini di uno Stato che non conta nulla. Ah, sia chiaro: ora veniamo a sapere che anche l’Europa, a cui abbiamo ceduto pezzi di sovranità per contare di più, non conta nulla. Le istituzioni europee si sono sicuramente impegnate al massimo per la pace e per la difesa dell’Ucraina. Se poi la guerra prosegue da mesi e l’Ucraina è distrutta, è perché il pallino del gioco non è in mano nostra, visto che non contiamo abbastanza.
Il motto “non contiamo abbastanza” è però interessante anche per altri motivi, non solo perché è in grado di giustificare potenzialmente qualsiasi violenza e illegalità. Pensiamo a quando qualcuno in televisione afferma, con il tipico tono noncurante ed ammiccante di chi la sa lunga: “eh, possiamo parlare quanto vogliamo, ma qui la verità è che non contiamo nulla”. Questi individui sembrano possedere un accesso epistemico privilegiato al “Mondo Vero”, sono i VIP del realismo politico, e il loro atteggiamento, in certa misura, affascina il pubblico.
Andrebbe però notato che non si prova mai ad esplicitare quanto effettivamente contiamo noi italiani, o il nostro governo, o noi “europei”. I commentatori un poco più rozzi a volte si lasciano scappare che non contiamo proprio un bel niente. Tuttavia non sembra essere molto credibile che una nazione ricca e popolosa possa contare davvero zero, no? Conteremo poco, forse molto poco, ma non uno zero assoluto. I commentatori più raffinati preferiscono dire infatti che non contiamo abbastanza. Ma – bisognerebbe chiedere loro – abbastanza per cosa? La propria capacità di incidere non viene mai misurata rispetto a obiettivi concreti. Dobbiamo accontentarci di sapere che non contiamo abbastanza.
Cercare di chiarire questo punto, ossia quanto contiamo, sarebbe già un successo (e un insuccesso per i retori della guerra). Significherebbe infatti aprire un dibattito pubblico sulle possibilità che può selezionare l’azione diplomatica, di governo ma anche di semplice militanza. Hey, ma aprire un dibattito è roba da democrazia in tempo di pace, mentre noi, dopotutto, siamo in guerra. Meglio evitare pensieri alternativi ed opposizioni. O meglio, ben vengano opinionisti e speculazioni, purché in fondo ci si convinca che non contiamo abbastanza[1], e che quindi deve rimanere tutto un pourparler. Si vuole insomma persuadere i cittadini che non ci sia nulla da fare, affinché si possa continuare indisturbati a fare una cosa ben precisa: proseguire il conflitto alimentandolo sempre di più.
Affermare di non contare nulla, inoltre, significa infantilizzare. Convincendoci di ciò siamo spinti infatti ad immaginarci un mondo di supersoggetti e superpotenze in lotta tra loro, un mondo troppo grande per noi, che non siamo (ancora? più?) grandi abbastanza. Alcuni magari pensano che queste superpotenze si dividano in superbuoni e supercattivi, o almeno in supermenocattivi e superpiùcattivi. Altri, più disillusi (ma comunque illusi) e nichilisti, credono che queste superpotenze non si distinguano tra loro: non sono né buone, né cattive; sono però Super, e sarà la loro resa dei conti a decidere da che parte andrà il mondo.
Agitare il dito verso le superpotenze e i supernemici – tipicamente la Cina nel nostro dibattito pubblico –, rappresenta però una strategia che dovremmo aver imparato a riconoscere. Che il nemico sia reale o immaginario non importa, una volta convinti che ci sia un supernemico capace di ogni male, siamo pronti a giustificare qualsiasi nostra azione violenta che imputiamo (uguale ma di segno opposto) alle intenzioni del nemico. Si tratta di un curioso gioco di specchi – al centro anche del recente e provvidenziale capolavoro d’animazione giapponese L’Attacco dei Giganti – su cui la prospettiva interdividuale girardiana ci permette di far luce. Due soggetti A e B possono entrare in conflitto senza che nessuno abbia intenzioni aggressive in partenza: basterà che A immagini che B ha intenzioni negative verso A; A prenderà allora dei provvedimenti che saranno interpretatati da B come attivamente aggressivi; B reagirà dunque consequenzialmente e reciprocamente, confermando in tal modo i timori iniziali di A. E giù a capofitto nella spirale dell’escalation.
Si tratta in buona sostanza del paradosso dell’attacco preventivo, o difensivo. Dato che un nemico mi vuole attaccare – e questo è sbagliato, è male – lo attacco io per primo in modo da impedirgli di compiere quel male nei miei confronti. Con l’avanzare dell’escalation si fanno sempre più labili i confini (ossia le differenze) tra attacco e difesa, resistenza e terrorismo, provocazione e dichiarazione. Se ne occupa Girard nel suo testo su Clausewitz, ma su questo punto vi rimando anche al saggio Verso un’altra teoria del partigiano di Matteo Bisoni.
Concludo con un’ultima osservazione girardiana. “Non conto nulla” è la tipica ossessione dell’uomo del sottosuolo dostoevskiano. L’autosvilimento e l’abbruttimento non sono quasi mai fine a sé stessi, ma rivelano altro. Denunciano infatti un orgoglio ferito, un risentimento, una ferita non rimarginata che grida vendetta. La condizione più infima, rappresentata dalla convinzione di non contare nulla, è sintomo di un soggetto (anche politico e culturale) incapace di posizionarsi nel mondo, spaventato dal confronto con gli altri, ed esposto pertanto a violente oscillazioni tra slanci titanici e superomistici e un avvilimento sconfortante. Pensiamo appunto a personaggi di Dostoevskij quali Goljadkin e Raskol'nikov, e alle brillanti analisi di Girard[2]. In una società di individui sempre meno capaci di affrontare gli scandali e le invidie della mediazione interna, la tesi del “tanto non contiamo nulla” è un vero toccasana e può contare, nel sottosuolo, su un’accoglienza entusiastica.
Tolkien scriveva Il Signore degli Anelli durante il secondo conflitto mondiale. Lo dico perché mi sono venuti in mente Frodo e Sam, ai quali sicuramente sarà passato per la testa di non contare nulla in un mondo di Sauron, Galadriel, Gandalf, re ed eserciti. A conti fatti possiamo affermare che non era vero che non contavano nulla. Qualcosina contavano, anche se poco poco. Secondo Tolkien bastava. Ma su questo, vi rimando agli scritti di Pietro Somaini dedicati al grande scrittore inglese.
*****
[1] Ci sono eccezioni. Si pensi all’attività divulgativa del Professor Alessandro Orsini.
[2] Girard R., Dostoevskij. Dal doppio all’unità, SE, Milano 2005.
Comentarios