Questo articolo è parte di un saggio ben più ampio in corso di scrittura che verrà progressivamente pubblicato sul blog. Gli obiettivi del saggio sono diversi: una critica all'interpretazione girardiana del pensiero di Clausewitz; proporre la filosofia politica di Carl Schmitt e le sue ricostruzioni genealogiche di alcuni concetti politico-militari come possibile alternativa; scegliere la soglia in cui le teorie di Girard e Schmitt si avvicinano per distinguersi con più forza, mantenendo come base di lavoro Clausewitz, come snodo da cui divergere con prospettive ermeneutiche differenti.
Pur mantenendo una posizione cauta e prudente, non credo sia esagerato sostenere che, anche per un esperto lettore e interprete del pensiero di René Girard, la sua ultima opera Achever Clausewitz (tradotto con il titolo Portando Clausewitz all’estremo (1)) datata ormai 2007, sia di gran lunga la più problematica, discontinua e scivolosa, probabilmente come diretta conseguenza della forma dialogica che ne fonda la struttura. L’antisistematicità a cui si abbandona il pensiero dell’antropologo francese rispondendo alle domande di Benoit Chantre rende quest’opera ricca al contempo di intuizioni brucianti e di ipotesi vertiginose dal sapore profetico, occasione per vedere in azione le sue capacità esegetiche e filologiche (quel saper-leggere nel detto di un testo che, alla distanza, appare come un vero e proprio testamento metodologico per tutti quei cultori che vorranno proseguirne l’opera) ed insieme, molto più intensamente che nei precedenti testi, captare qualcosa della sua intimità, del suo sguardo sulla contemporaneità e del suo atteggiamento verso le cose ultime. È innegabile infatti che la vera posta in gioco dell’opera, collocandosi contemporaneamente al di sopra e al di sotto delle selettive analisi di passi tratti dal Vom Kriege (il celeberrimo Della guerra (2)) di Clausewitz, dell’affresco di filosofia della storia e di storia delle rispondenze mimetiche intercorse tra Francia e Germania negli ultimi due secoli, dell’impalcatura teorica di una filosofia della guerra, sia un sapere di tipo escatologico e una parola che sappia comunicare sia l’aspetto rivelativo dischiudentesi nel panorama apocalittico della fine dei tempi sia, forse, un desiderio più intimo e soteriologico.
Il presente lavoro non ha tuttavia l’ambizione di decifrare e analizzare il contenuto, la forma e i riferimenti che legano Eschaton, Apocalisse, Parusia e avvento del Regno nel pensiero dell’ultimo Girard. Anche perché ritengo sufficientemente gravoso il compito di condurre una critica serrata al pensiero dello studioso avignonese localizzandola a livello politico-militare, mantenendo simultaneamente attive varie linee argomentative (alla luce di una riproposizione dei testi di Carl Schmitt che, tra le altre cose, rileggono la figura storica e le concezioni teoriche di Clausewitz), tra le quali:
1- riproporre il concetto schmittiano di “politico” come forma incarnata della differenza, quindi come tentativo di deteologizzazione del nemico e della guerra, come principio di relazione in grado di disinnescare la corsa all’estremo, come principio esistenziale capace di informare un ordine internazionale effettivamente plurale;
2- recuperare e riabilitare, anche in opposizione allo stesso Schmitt, la figura del partigiano come figura dotata di un potenziale prepotentemente rivelativo di fronte alla liquidazione e alla squalifica morale del nemico e al terrorismo militare di marca imperialistica (sarà fondamentale analizzare la differenza tra vero nemico e nemico assoluto e lavorare sulla soglia della delimitazione dell’ostilità);
3- utilizzare Teoria del partigiano (3) e Clausewitz come pensatore politico (4) (entrambi capolavori dell’ultimo Schmitt) come fonti per una storia mimetica alternativa ma parallela a quella dipinta da Girard, mettendo al centro proprio la figura del partigiano.
Tuttavia sarà strategicamente inevitabile presentare alcune delle posizioni apocalittico-escatologiche di Girard per meglio inquadrarlo dentro un atteggiamento radicalmente opposto alla sensibilità e all’orientamento di Schmitt. L’idea è quella di, una volta delineate le differenze nell’orizzonte escatologico, rubricarne altre sul piano politico-militare più significative e flagranti, ritagliandoci anche uno spazio di riflessione personale.
Tra le molteplici affermazioni assertive e definitive che hanno un ruolo strutturale nelle argomentazioni di Portando Clausewitz all’estremo, due risultano essere particolarmente problematiche:
1- Girard sostiene l’impossibilità di trovare la relazione al cuore della reciprocità. Per reciprocità si intende quell’intensa lotta tra doppi mimetici in cui il potenziale di violenza cresce proporzionalmente alla loro reciproca imitazione, tanto che dal due (i due schieramenti in lotta, i due partiti, i due gruppi etnici ecc.) si giunge all’unità confusiva dell’indifferenziazione totale, una crisi delle specifiche soggettività che tenderebbero a dileguarsi nell’universale imperativo teso alla violenza, al misconoscimento, alla delegittimazione dell’alterità in quanto tale e che, dato il potenziale distruttivo concesso dalle moderne tecnologie militari, specie passando dal piano della dialettica di potere interna al singolo Stato (senza essere però tanto ingenui da sottovalutare la violenza poliziesca, ossia la violenza legale che conserva se stessa come sovrana secondo il Benjamin di Per una critica della violenza, oppure le strategie complessive e le tattiche localizzate di potere e relativi illegalismi che agitano la perenne guerra civile in seno alla società seguendo la genealogia di Foucault in La società punitiva o Sorvegliare e punire) al piano della geopolitica internazionale, porterebbe inevitabilmente all’annichilimento definitivo.
Per relazione, al contrario, si intende la possibilità di un riposizionamento delle rispettive soggettività, un ri-centramento esistenziale, un traumatico ritrovarsi, a partire dal riconoscimento della differenza dell’altro in quanto Altro come contraltare della propria identità riscoperta anch’essa nella sua integrità, unicità e specificità. La distanza mediante e verso la quale viene a costituirsi lo spazio di relazione significa quindi la fine della retorica e dell’idolatria, la fine della teologizzazione del nemico in quanto nemico dell’umanità, la fine del bando impostogli da una posizione esclusivamente morale, un bando che de-umanizza e sottrae il volto al prossimo, al rivale, al nemico, e che tradisce il principio esistenziale del “politico”. L’altro, il nemico che mi fronteggia, mi si dona allora nella sua nuda sincerità, nella sua capacità persuasiva, nel suo dolore (che è già da sempre anche il mio e di cui sono infinitamente responsabile), autentica rivelazione e risveglio.
Sono consapevole della fragilità di questo passaggio, del rischio di indebite appropriazioni e strumentalizzazioni, del potenziale contenuto ideologico: cionondimeno la folgorante semplicità esperienziale del riconoscere l’altro in me, soprattutto quando l’altro è autenticamente il mio Altro, il mio nemico e quindi, al contempo, il massimamente perturbante, simile e Altro quanto può esserlo mio fratello (5), resta l’unico punto di partenza su cui scommettere per riscoprirsi obbligato e responsabile dell’esistenza altrui, custode della sua dignità, anche nella morte. Ci tengo solo a sottolineare che tale conversione levinassiana del mimetismo più chimerico e diabolico, proprio in virtù della totale spersonalizzazione a cui da sempre sono stati sottoposti i soldati, non credo corrisponda ad un salto nel buio, l’approccio è al contrario totalmente cartesiano: quale sia l’origine di tale conversione, forse il dono della grazia forse la maestria di un buon modello forse il comandamento “non uccidere” che muto urla dal volto altrui, in ogni caso è apertura donatami dalla trascendenza, è una forza che libera l’Io dal suo stesso abbraccio disponendolo ad una ferita che verrà ospitata e darà fastidio anche se il tempo e la fuga da sé la faranno cicatrizzare. Tale rivelazione non dona la salvezza e la pace come un bene garantito ma come un Desiderio che può scandalizzare e tradursi addirittura in conflitto ma che, in ogni caso, non sarà più teso alla neutralizzazione dell’altro, poiché il “politico” viene così integralmente assunto quale categoria ineludibile dell’esistenza, forza tensiva che agita da dentro l’Essere, riportando davanti a sé il principio di relazione come luce polare: non può esserci identità senza differenza, pertanto esisto solo nella relazione, esisto solo relativamente, forte di quella debolezza che mi obbliga e mi rimanda all’esistenza dell’altro.
La trascendenza invera l’esperienza della rivelazione come qualcosa di traumatico; non c’è e non ci può essere irenismo in questa forma di umanesimo (6). L’irenismo è piuttosto lo stadio finale dell’impianto tecnico, la riduzione della totalità del reale a perfetta funzione, pace definitiva, esorcismo delle differenze, neutralizzazione terminale del nemico.
Girard, dicevamo, la pensa diversamente: «Ciò che mi lega all’altro che mi fronteggia è il mimetismo, questa somiglianza crescente tra noi alla quale finiamo sempre per cedere» (7); secondo Girard le leggi del mimetismo, la sfiancante lotta tra rivali tramutatisi in doppi violenti, l’inevitabile tendenza all’estremo che porta alla più drammatica indifferenziazione violenta, costituiscono tutti dati antropologici che ingabbiano il soggetto nell’Identico, che realizzano la guerra come legge dell’Essere («esperienza pura dell’essere puro», secondo le parole di Lévinas), che assorbono ogni asimmetria e discontinuità nel discorso della Totalità (utilizzando sempre il particolare lessico filosofico di Totalità e Infinito). Nella teoria di Girard la ragione ultima di ogni conflitto scaturisce dal desiderio di affermare una differenza rispetto all’altro, ma tale scadente simulacro di differenza è solo un catastrofico tentativo di nascondere a noi stessi la scandalosa somiglianza tanto più crescente quanto più il Nemico (preso nella rete del discorso ideologico e universalistico) si palesa come il nemico al fronte. Girard nega la possibilità che l’identificazione sempre più dolorosa e insensata con quel nemico concretamente tangibile, presente, urgente possa significare quel tipo di esperienza capace di fendere il velo dell’Identico, lasciando apparire l’infinita alterità del volto altrui. «Abbassare la guardia di fronte all’epifania del viso dell’altro presuppone, infatti, la capacità di resistere all’attrazione irresistibile di quell’ “identico” che l’ “altro” era ancora fino a pochi attimi prima. Questo movimento è possibile, ma non dipende da noi. Noi siamo immersi nel mimetismo. (…) Non sta a noi decidere, sono i modelli che decidono per noi. Si può essere perduti a causa del proprio modello: è sempre l’imitazione a farci mancare l’identificazione. C’è una sorta di fatalità della prossimità violenta dell’altro. (…) considerando l’indifferenziazione dilagante a livello planetario e l’ingresso in un’era di mediazione interna, ho motivi per dubitare della possibile universalizzazione di questo paradigma. La tendenza all’estremo è una legge irreversibile. Siamo irresistibilmente attratti l’uno dall’altro: ecco perché non si può più passare dalla guerra alla riconciliazione» (8).
Per Girard, la tendenza all’estremo è la forma attraverso la quale la verità si dona all’umanità presente, sarebbe anzi il segno ultimo che presentifica la rivelazione offerta dalle parole di Cristo: la riconciliazione intorno alla vittima innocente, il capro espiatorio come fondamento di ogni dispositivo comunitario in grado di contenere e differire la violenza, non è più una possibilità effettivamente capace di produrre ordine. La verità scandalizza e richiama dalle viscere umane una violenza ancora più folle e insensata: l’indifferenziazione coincide con il campo d’immanenza dell’esistenza umana. Unica possibilità di mantenersi aperti al Regno sarebbe quindi quella di imitare Cristo nel suo ritiro così che, nel martirio, la Croce torni a testimoniare il fallimento e l’inutilità della violenza umana: assumere su di sé il peso della Croce, comprenderne l’autentico significato attraverso la mediazione di Cristo, sarebbe in definitiva quell’impossibile che si impone all’umano. Ma, appunto, è Girard stesso che lo conferma: non dipende da noi. Tanto è vero che parlando del ritiro come modo di accesso ad un’esistenza passivamente responsabile, vulnerabile, magistrale, Girard finisce per parlare della follia di Holderlin. Come a dire, la rivelazione della verità polarizzerà la vita umana in due forme di contagiosa follia: la follia collettiva della tendenza all’estremo e la follia solitaria di chi si ritrova a rifiutarne la logica. E dunque, per ciò che concerne l’Eschaton, ogni cosa è rimessa al Padre e alla sua infallibile capacità di separare il grano dal loglio nel tempo della Parusia, quando Cristo ritornerà come corpo glorioso.
Sorvolando momentaneamente sul problema abissale che un tale fatalismo unito ad un radicale pessimismo antropologico solleva, vorrei aggiungere due corollari al primo punto soffermandomi brevemente su due inesattezze interpretative che viziano l’impostazione di Girard ma che risultano particolarmente utili per avvicinarci alla differente prospettiva critica offerta nel presente saggio.
1.1- Il primo vizio di forma concerne la questione dell’universalizzazione del paradigma del percorso rivelazione-identificazione-riconciliazione: sembra che per Girard una tale struttura di senso possa avere reale efficacia solo nella misura in cui riesca ad imporsi universalmente come modello alternativo rispetto alla discesa infernale nell’indifferenziazione che comporta il montare della violenza all’estremo. Ma è evidente che così non può e non deve essere: l’apocalisse (intesa etimologicamente) che coglie e getta nella catastrofe la soggettività abbracciata al proprio ego, cioè la soggettività convinta e automatizzata nella retorica totalitaria dell’Essere, apre la strada ad un percorso privato, per sua natura fragile (ma non per questo folle), flebile come la voce di chi si ritrova a sostenere posizioni controintuitive dovendo in aggiunta cercare di persuadere altri della bontà e della sincerità del percorso intrapreso. È improprio e prometeico cercare di imporre la Croce come modello e se, al contrario, essa diventasse modello assolutamente riconosciuto, con ogni probabilità ci troveremmo di fronte alla perversione idolatrica della trascendenza, l’ennesima riproposizione di una trascendenza deviata, una delle più subdole figure anticristiche e inique verso le quali proprio l’apostolo Paolo, così sovente citato da Girard, invita massima cautela e perseveranza nella strada alternativa, ossia il lavoro dell’attesa sofferente. Identificazione e riconciliazione non si danno mai come paradigma, al contrario evengono in modo imprevisto, come un accadere impossibile, un miracolo silenzioso; con ogni probabilità non si donano nemmeno nella forma dell’una-volta-per-tutte: è la passività attenta e disposta all’ascolto che mantiene nell’apertura la soggettività; apocalisse e miracolo dell’incontro sono quotidiani e irraccontabili, non traducibili in discorso spendibile sul piano della Totalità, non vi può essere prescrizione di metodo in merito. Nella mediazione cristica è la nostra debolezza che finiamo per trovare e il coraggio di assumerla come costitutiva della nostra soggettività. Rispondere all’appello del volto altrui significa obbligarsi e abbassarsi di fronte alla sua maestà; essere interpellato significa quindi inginocchiarsi; non esiste garanzia di salvezza, non vi può essere nemmeno intenzione o progetto di salvezza: non è con le intenzioni di questo mondo che si spalancheranno le porte del Regno e se è vero, come sostiene Agamben, che la Gloria è rappresentata da un seggio vuoto, sovrano risulterà allora solo quell’infinitamente Altro che, sottraendosi, dona il tempo delle cose terrene ed insieme verso cui ci si può aprire solo nella forma dell’inno o della lode mai cercando l’appropriazione (9).
1.2- Il secondo vizio di forma, altrettanto importante e ricco di implicazioni, corrisponde ad un elemento che passa sottotraccia nell’argomentazione di Girard ma che invece gioca un ruolo particolarmente decisivo: l’idea di istantaneità. Girard sembra visualizzare l’ “altra” trinità (rivelazione-identificazione-riconciliazione) – (la definisco “altra” in giocosa contrapposizione con la “strana trinità” figurata da Clausewitz, secondo cui, nonostante la natura camaleontica della guerra, riconoscibile pare comunque essere un triedro composto da: cieco istinto-inimicizia-ostilità cui corrisponde il sentimento del popolo-nazione; libera attività dell’anima e dell’intelletto sul gioco delle probabilità e del caso, cui corrisponde il compito del condottiero e dell’esercito in battaglia; pura e semplice ragione e calcolo strategico, cui corrisponde lo Stato e la sua ragion d’essere. Al contempo è “altra” rispetto al movimento dialettico del pensiero hegeliano in quanto la riconciliazione nel suo idealismo finisce per corrispondere ad un superamento, quindi una ricomprensione e domesticazione del negativo) –come un evento che deve svolgersi interamente in un attimo, una sorta di illuminazione-conversione simile al risveglio paolino o agostiniano.
Ciò che ostacola e frena il soggetto di fronte alla rivelazione del volto d’altri non sarebbe solo il desiderio mimetico ma anche il fatto che tale movimento di conversione deve necessariamente dispiegarsi nel tempo, senza ulteriori garanzie. Il tempo sospende la soggettività sulla soglia di questa drammatica decisione, pertanto la rivelazione non avrebbe la forza di interrompere quel flusso di continuità tra passato e futuro attraverso la quale l’altro si è trovato inchiodato ad una certa immagine. Come posso abbandonare le armi, sembra suggerire Girard, se l’epifania rivelativa non getta nell’oblio il ruolo di “nemico” che fino a poco prima l’altro impersonava? A mio parere tale pensiero è una pura mistificazione. Rivelazione non significa soluzione, significa al contrario l’inizio di un percorso di ricomposizione dell’identità, un processo narrativo in cui il tempo acquista un valore esistenziale ineludibile. L’istantaneità del passaggio da violenza a riconciliazione figurata da Girard pare una sorta di sospensione della storia in cui ogni fibra di un dato presente viene inscritta in un attimo eterno, il sogno come fine della storia.
La guerra, al contrario, andrà avanti. Ma nonostante ciò l’esperienza rivelativa dell’altro può comunque testimoniare una traccia che si tramanda attraverso le generazioni: traccia della trascendenza sempre debole e fioca in mezzo al rumore mondano ma senz’altro viva, autentico marchio di Caino e lutto per aver rifiutato il comandamento pre-riflessivo, immemoriale, dell’essere «guardiano di mio fratello». Alla morte dell’altro è sempre legata la morte dell’Io; ricordare tale morte nutrirà per sempre la pianta apertasi da quel seme (che il finale dei Karamazov coincida con il finale della prima grande opera di Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, palesa in modo ancor più doloroso quanto poco fecondo sia il portato magistrale del tempo e della narrazione nel pessimismo apocalittico dell’ultimo Girard). Tale ferita aperta è autentica ispirazione in quel tempo dell’attesa sospeso tra l’iniquità della Croce e il ritorno di Cristo.
Una sfumatura altrettanto negativa che Girard usa per dipingere la variabile tempo dentro il suo ultimo testo concerne poi il tema del differimento. Dal punto di vista della teoria girardiana il differimento non è mai il frutto di una riflessione razionale, di un lucido calcolo strategico; in virtù delle stessi leggi dell’imitazione occorre pensare all’azione reciproca, ai progressivi assestamenti di attaccante e difensore nel contesto bellico-diplomatico-politico, come ciò che provoca e nello stesso tempo differisce la tendenza all’estremo. Il regime di doppia mediazione in cui vengono a trovarsi i due schieramenti al fronte attualizza in termini tattici gli opposti imperativi che definiscono il double bind: proprio Clausewitz dice che «se l’interesse dell’uno è agire, quello dell’altro deve essere di temporeggiare» (10).
Clausewitz sembra infatti intuire come lo schema mimetico, eliminando dall’orizzonte tattico-strategico l’idea che le decisioni di uno schieramento siano indipendenti dalle decisioni dello schieramento opposto, necessariamente conduca alla dilatazione temporale del conflitto, quindi alla risacca dell’impeto (ossia a un’intenzione ostile sempre meno sorretta dal sentimento ostile), infine alla composizione delle parti in lotta secondo il “principio di polarità”. L’ineliminabile consistenza di fattori quali il tempo e lo spazio, analizzati secondo i presupposti di Clausewitz, finiscono quindi per contraddire la prospettiva girardiana della tendenza all’estremo: ecco perché Girard impegna tutte le sue energie per forzare la lettura e invertire il senso del realismo politico-militare di Clausewitz, denunciandolo come frutto deteriore del razionalismo illuminista.
Il differimento, la scomoda persistenza del tempo (ma anche dello spazio e di tutta una serie di altri fattori che cercheremo di analizzare per meglio decostruire la lettura pretenziosa di Girard) appare quale elemento fondamentale in Clausewitz per separare nettamente la “guerra assoluta” (un impossibile ideale, un noumeno) dalla “guerra reale” (il fenomeno concreto della guerra nel suo problematico svolgimento). Girard sa bene che la tendenza all’estremo quale modello storico di indifferenziazione contagiosa, privata della riconciliazione catartica ed espiatoria intorno ad una vittima innocente, funziona solo nel caso della “guerra assoluta”, funziona cioè come fictio logica. Ecco che allora il differimento, nell’ottica dell’ex professore di Stanford, assume un significato diametralmente opposto a quello inteso da Clausewitz: per Girard tanto più, nel gioco dell’azione reciproca, viene posticipato l’urto o lo scontro, quanto più, quando questo avverrà, sarà definitivo e apocalittico. Preferisco lasciare la parola direttamente a Clausewitz per confutare tale prospettiva girardiana figlia di una lettura parziale: «Poiché, in guerra, sforzi insufficienti non solo producono l’insuccesso, ma possono anche cagionare danni positivi a chi li fa, i due belligeranti cercano di sorpassarsi a vicenda. Di qui una mutua reazione. Questa potrebbe condurre all’estremo limite degli sforzi, se un tale limite si potesse fissare. Ma allora non si terrebbe più conto delle pretese politiche; il mezzo non sarebbe più proporzionato allo scopo e, il più delle volte, questa intenzione di portare lo sforzo ai limiti estremi fallirebbe, per l’azione ostacolante delle proprie condizioni interne. Pertanto, chi vuole intraprendere una guerra, si trova ricondotto ad una via di mezzo, in cui agisce, in certo qual modo, in base alla norma fondamentale d’impiegare soltanto quelle forze e di proporsi quegli scopi che sono, secondo un giudizio diretto, precisamente sufficienti a realizzare lo scopo politico (…) in conseguenza, egli dovrà rinunciare ad ogni risultato assoluto ed eliminare dai calcoli le eventualità lontane. Il lavoro del pensiero abbandona allora il dominio della scienza esatta, della logica e della matematica, e diviene arte nel senso più esteso della parola. Diviene, cioè, l’abilità di distinguere, a mezzo del tatto sottile del raziocinio, ciò che vi è di più importante e decisivo fra una immensa quantità di cose e rapporti» (11). Clausewitz profonde tutte le sue energie concettuali, lungo l’intera lunghezza della sua opera magna, per desumere una teoria della guerra che comprenda sia il suo aspetto più astratto e assoluto quanto la sua realizzazione, ma sottolineando sempre (quindi anche nel libro I che per Girard pare essere l’unico autenticamente clausewitziano) che effettiva forza ce l’ha solo una teoria della guerra per come quest’ultima effettivamente è e non per come dovrebbe essere idealmente – costringo alla nota alcuni passi del Della guerra che contraddicono con assoluta chiarezza i presupposti teorici di Girard (12) –.
L’intero impianto di Clausewitz prevede la necessità dello svuotamento e del declassamento della “scienza esatta” contenuta nell’idea della guerra assoluta per tendere ad una forma di sapere “pratico” imperniato su una razionalità che metta al centro i mezzi piuttosto che i fini: in questo senso vengono analizzati, per centinaia e centinaia di pagine, tutti gli attriti e le forme di resistenza contro cui l’idea collassa. Non è solo una questione di priorità dell’elemento politico-strategico rispetto alla deriva possibile della guerra, è proprio l’incessante moltiplicarsi di eventi imprevisti, intralci ambientali, possibilità precedentemente non messe in conto che, progressivamente, esauriscono il sentimento ostile dei belligeranti. Per questo gli attacchi vanno ponderati al fine di ottenere una rapida resa dell’avversario, una volta guadagnato un vantaggio strategico decisivo, piuttosto che perseguire il folle progetto della liquidazione totale del nemico.
Per Girard, in sostanza, le ottocento faticose pagine del Della guerra sarebbero esclusivamente ascrivibili ad una sorta di esorcismo razionalistico e romantico con cui Clausewitz mette a tacere l’intuizione folgorante, religiosa, del principio di reciprocità quale legge che conduce necessariamente all’estremo, alla distruzione globale, ed insieme il suo furioso delirio mimetico verso il modello-ostacolo più scandaloso, Napoleone. Ciò che Girard non riesce minimamente a cogliere è che il realismo politico di un Clausewitz (ma anche del suo grande ermeneuta Raymond Aron) non ha niente a che vedere con il razionalismo di tradizione illuminista, portatore di una "pedagogia" universalista e integrale a misura del suo essere de-situata, assiologica e calcolante. Il calcolo dei mezzi compete al realismo politico; il calcolo dei fini, l'astuzia della ragione, finisce appunto nell'idealismo, nel plasmare la realtà secondo il vettore di inveramento dell'idea astratta.
Girard altera deliberatamente il pensiero di Clausewitz riguardo al tema del differimento: in questo modo il grande pensatore francese non può sbagliare, perché nel differimento del conflitto ultimo è inscritta l’attesa dello scatenamento apocalittico della violenza, dello sblocco dei sigilli, del tracimare dell’anomia, dell’avvento dell'apostasia e dell'Anticristo, prima della Parusia. Vangeli, Atti degli apostoli, Lettere di Paolo, testi apocalittici, contengono sotto forma di parola profetica quello che la teoria di Girard ancora non aveva tentato e profferito: lo slancio escatologico. E la febbre di Girard è tale che, ad una lettura attenta, pare addirittura colto da una mania accelerazionista, un intimo desiderio di essere testimone del redde rationem per veder inverarsi il proprio pensiero, come un calco sulla cera calda della Storia, come un impetuoso vento che spazza la cenere che resta.
L’intuizione della tendenza all’estremo quale motore segreto della Storia, il riconoscimento del principio d’imitazione violenta quale forza antinomica rispetto alla dialettica culminante nella riconciliazione storica dello Spirito con se stesso, inducono Girard a vedere nel pensiero di Clausewitz una tonalità apocalittica da portare alla luce ad ogni costo. Immaginando Girard nelle vesti di un illusionista e il pensiero di Clausewitz profuso nel Della guerra (ma sarebbe più corretto dire solo nel primo libro) al posto del consueto cilindro, quello che il lettore finisce per esperire durante la lettura dell’Achever Clausewitz è simile ad un trucco malriuscito: la mano non cava fuori un coniglio dal cappello, piuttosto l’illusionista finisce per estrarre se stesso. Achever Clausewitz è il testo che rivela ‒specie nella misura in cui ciò che viene messo in questione non è più l’origine dell’ominazione, del rito e della cultura, quanto piuttosto l’esito ultimo e il telos implicito nel processo di scavo genealogico-archeologico sull’umano dischiuso dalle intuizioni della mimesi, del meccanismo sacrificale e dello svelamento cristologico della vittima‒ in maniera più drammatica alcune derive strutturali presenti nell’ultima fase del suo percorso intellettuale: in particolare un intreccio fatale tra struttura autotelica del pensiero e una realtà che non ha altra possibilità se non quella di inverarlo. Forse Girard pensava, con la sua ultima grande opera, di costringere l’idealismo di marca hegeliana allo scacco definitivo: in realtà lo contempla, lo invidia (rivendicando a squarciagola la propria differenza) ed insieme lo “completa” rigiocando l’escatologia apocalittica cristiana come sapere assoluto, rivelazione definitiva, mentre la legge della tendenza all’estremo si trasforma nel processo della sua autorealizzazione storica.
Nel prossimo articolo verrà criticato, utilizzando maggiormente il pensiero di Schmitt, il secondo perno dell'argomentazione di Girard, quello incentrato sulla fine del diritto. In Schmitt riconosceremo poi una posizione escatologica completamente opposta rispetto al pensiero apocalittico del francese.
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(1) René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, Adelphi, Milano, 2008.
(2) Karl Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano, 1970.
(3) Carl Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano, 2005.
(4) Contenuto in Carl Schmitt, Stato, Grande spazio, Nomos, Adelphi, Milano, 2015.
(5) «Mi domando dunque: chi può mai essere, in generale, il mio nemico? E in guisa tale che io lo riconosca come nemico, e che persino debba riconoscere ch’egli mi riconosce come nemico. In questo reciproco riconoscimento del riconoscimento sta la grandezza del concetto. Esso si attaglia scarsamente a un’epoca di massa con i suoi miti pseudoteologici del nemico. I teologi tendono a definire il nemico come qualcosa che va annientato. Io però sono un giurista e non un teologo.
Chi posso in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi può mettere in questione. Riconoscendolo come nemico, riconosco ch’egli mi può mettere in questione. E chi può mettermi realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’Altro è mio fratello. L’Altro si rivela fratello mio, e il fratello, mio nemico. Adamo ed Eva ebbero due figli, Caino e Abele. Così comincia la storia dell’umanità. Questo è il volto del padre di tutte le cose. Questa la tensione dialettica che tiene in moto la storia del mondo, e la storia del mondo non è ancora alla fine». Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano, 1987, pp. 91-92.
(6) Emmanuel Lévinas, Umanesimo dell'altro uomo, Il Melangolo, Genova, 1985.
(7) Cfr. René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, p. 158.
(8) Cfr. Ibid., p. 159.
(9) Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer II, 4 - Oikonomia. Il Regno e la Gloria, Quodlibet, Macerata, 2018.
(10) Karl Von Clausewitz, Della guerra, p. 30.
(11) Cfr. Ibid., p. 782.
(12) Tra i molteplici passi che si possono riscontrare nel testo e, anzi, primariamente nell’ordine in cui gli argomenti e le analisi di Clausewitz si sviluppano per tutta la lunghezza dell’opera in radicale contraddizione rispetto alla finzione impossibile-ideale della guerra assoluta, scelgo quelli contenuti nel libro ottavo dal titolo Il piano di guerra (schemi) il quale funziona anche come riassunto e ripresa di tutte le argomentazioni squadernate in precedenza.
«Il piano di guerra abbraccia tutta l’azione bellica; è questo piano che dà unità alla guerra, che ne fa un’azione mirante a uno scopo finale, il quale risulta dal coordinamento e dalla perequazione di tutti gli scopi particolari. Non si comincia alcuna guerra, o non si dovrebbe razionalmente cominciarne alcuna, senza dirsi ciò che si intende realizzare mediante la guerra e nella guerra. L’uno è lo scopo, l’altro è l’obbiettivo finale. Questo pensiero fondamentale avrà l’influenza su tutte le linee fondamentali, sull’entità dei mezzi, sul grado di energia necessario. (…) Abbiamo detto nel primo capitolo che l’atterramento dell’avversario è lo scopo naturale dell’atto di guerra. (…) Poiché dobbiamo supporre che questo intendimento esista in entrambi i belligeranti, ne conseguirebbe che non possa esistere né sospensione né riposo nell’azione di guerra fino a che uno dei due avversari non sia realmente abbattuto. Nel capitolo che tratta della sospensione dell’azione bellica, abbiamo dimostrato che il puro principio di ostilità applicato al suo esponente, l’uomo, ed a tutte le circostanze che intervengono nella guerra, subisce arresti e mitigazioni per cause inerenti al meccanismo che lo traduce in atto. (…) La maggior parte delle guerre rassomiglia piuttosto ad una esasperazione reciproca, in seguito alla quale ciascuno dei due antagonisti prende le armi per garantire se stesso, per inspirare timore all’altro ed anche per portargli qualche colpo se l’occasione si presenti. Non si tratta, dunque, di due elementi distruttori posti a contatto, ma piuttosto delle tensioni provocate in due elementi elettrici ancora separati, che si risolvono con piccole scintille parziali. Ma quale è dunque la parete non conduttrice che impedisce alla scarica totale di prodursi? Perché la concezione logica non viene soddisfatta? Questa parete si compone del gran numero di cose, energie ed interessi che la guerra tocca nella vita dello Stato. (…) Quest’inconseguenza sussiste presso l’una o l’altra o presso entrambe le parti belligeranti, ed è la causa per cui la guerra diviene tutt’altra cosa di quello che dovrebbe essere secondo il suo concetto fondamentale: diviene un prodotto bastardo, una sostanza priva d’intima coesione. [questo nonostante, come poco dopo ammette lo stesso Clausewitz, lo spiegamento delle mattanze campali napoleoniche abbia palesato l’incursione dell’assoluto, ossia della concretezza della guerra assoluta nella Storia]. (…) Dobbiamo dunque, per esporre la guerra quale è, cercare di costruirla non già a mezzo di corollari desunti dalla sua definizione, ma lasciando un posto a tutti gli elementi estranei che in essa interferiscono, a tutti i pesi e gli attriti, a tutte le inconseguenze, le incertezze, le esitazioni proprie dello spirito umano. (…) Se ne deduce anche che la guerra può essere più o meno “guerra”, che cioè essa ammette vari gradi d’intensità». Cfr. Ibid., pp. 774-777
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