[!!!SPOILER COME SE PIOVESSE!!!]
13 agosto 2021: per me, finisce Evangelion. Se l’avessi raccontato al me stesso di dieci, vent’anni fa, che avrebbe dovuto aspettare tutto questo tempo… Ma chi ero allora, per sapere come avrei reagito? E chi sono adesso? Crescere con Evangelion significa anche non poter mai formulare queste domande fuori dal cono d’ombra dalla narrazione che ha contribuito a portarle a coscienza – per me e per quelli della mia generazione, e per fortuna anche di molte altre, presenti e future. Ma a un certo punto, mi ha detto una volta qualcuno, dovrai ben smetterla di guardare tutti questi cartoni animati…
Ho rubato le prime righe per parlare di me, a imitazione di Hideaki Anno, perché in Evangelion 3.0 + 1.0 il creatore di questa serie immortale si concede ampio spazio per parlare schiettamente, quasi sfacciatamente di sé. Questo è uno degli argomenti che sosterrò in questi appunti a caldo, che vogliono solo essere apripista e spunto per altri, infiniti discorsi… e forse no. Forse, se do retta a quel che Anno ha voluto dirmi, basteranno anche solo queste righe. Perché a un certo punto si deve semplicemente smettere di parlare – “contarla su”, si dice dalle mie parti. Forse anche smettere di guardare i cartoni, chissà.
Evangelion 3.0+1.0 ha l’immane compito di finire una narrazione epocale, bigger than life, più grande della sua stessa mitologia e anche del piccolo, povero otaku che l’ha avuta in grazia come autore: Hideaki Anno. Un compito sovrumano: “finire” nel senso di chiudere, portare a compimento, siglare e sancire una storia che a partire dal Rebuild ha preso coscienza della propria infinità e si è ripresentata quasi spontaneamente sotto forma di loop, di narrazione ciclica che ripete eternamente lo stesso arco narrativo con infinite variazioni – al centro di tutta la giostra, sempre, il Progetto per il Perfezionamento dell’Uomo, il piano di Gendo e quello della Seele, i turbamenti di Shinji, Rei, Asuka e Misato, un bambino che deve diventare uomo, l’umanità che deve trascendere i propri limiti.
Evangelion non può finire – questo il primo messaggio del Rebuild. Arroganza dell’autore? Piuttosto, perfetta coerenza narrativa e, oso, profetica. Evangelion è un “nuovo vangelo” nelle intenzioni – forse esagerate – ma ha per davvero la forma della profezia, che plasma la realtà a sua immagine e non porta mai a termine il proprio mandato, restando sempre in infinito eccesso. La storia di Eva ha veramente fatto epoca: l’invito al risveglio lanciato agli otaku prigionieri delle maglie dell’immaginario escapista ha avuto, a partire dagli anni Novanta, epigoni illustri e a tratti anche maggiori. Sto parlando di Satoshi Kon, per cui rimando a un altro articolo in cui ho scritto, per l’appunto, della sovrapposizione di immaginario e realtà come del tema centrale della narrativa di Kon, e quindi dello scandalo che le sue storie sono chiamate a dipanare.
In un momento di sorprendente dichiaratività-meta, Gendo Ikari fornisce un criptico spiegone sull’Evangelion imaginary, una “Lilith nera” concepibile e quindi esistente per i soli esseri umani, uniche creature capaci di credere “tanto alla realtà quanto alla finzione”. Questo nuovo dispositivo angelico, pare, sarà il vascello del perfezionamento definitivo, quello che nel ’95 restava sotto metafora e ora si fa esplicito meta-discorso sul mezzo animato e sulla cultura otaku nella quale quella rivelazione è germogliata – e di cui si è spesso detto come sempre alluda, in maniera davvero epocale, alla sovrapposizione di reale e immaginario che tutti ci riguarda. Fa piacere pensare che qui Anno, raccogliendo la palla che inizialmente aveva lanciato a Kon, mettendo sul tavolo il tema postmoderno della confusione di immaginario e reale, abbia da colui raccolto la stessa giocata, raffinata dalla rilettura esplicitante che di quel tema viene data in Paranoia agent. Il mostro Maromi, nero come la disperazione e rosa come la consolazione, che insegue Tsukiko Sagi nel finale della serie di Kon, corrisponde nell’ultimo film del Rebuild – io credo – alle due lance di Longino – che sarebbero in verità “Cassio” e “Longino”, ma non profondiamoci nella ricca e contraddittoria onomastica della narrazione. Due lance, una delle quali corrisponde alla speranza, l’altra alla disperazione. Nelle parole di Gendo, le due lance “si sacrificano a vicenda, così che realtà e immaginazione divengano un tutt’uno”.
Di cosa si sta parlando qui? Del desiderio di Gendo, vero motore narrativo di tutta la storia di Evangelion. In cosa consisteva la differenza sottile tra il progetto di Gendo per il perfezionamento e quello della Seele? Nella centralità, nel primo, di una persona viva che di quello scioglimento gnostico vagheggiato dalla Seele avrebbe rappresentato la componente umana residuale: Ikari Yui – ovvero Ayanami Yui, a seconda. Gendo vuole il perfezionamento dell’umanità, l’abbattimento delle mura dell’animo, lo scioglimento delle sparse individualità nel pastone escapista dell’LCL – ma solo per potersi ricongiungere con Yui, colei che un giorno gli fece conoscere quel qualcosa che era per lui insostituibile (non immagini, lettore, quanto struggimento mi costi il semplice fatto di riscrivere questa frase, che così tanta rilevanza ebbe per la mia vita, dacché la sentii pronunciare per la prima volta ormai quasi vent’anni fa…). Gendo, il personaggio, sogna il ritrovamento dell’amore perduto come unica via percorribile al perfezionamento del proprio animo – e va da sé, dell’umanità stessa.
Ma chi è Gendo? È stato detto diverse volte: Gendo è uno Shinji mal cresciuto e mal vissuto. Va da sé, dunque, che Gendo è un Hideaki Anno potenziale, la versione peggiore di sé che da qualche parte nel cuore dell’autore ha ancora giurisdizione. Di tutto il film, il momento più commovente per chi scrive è senza dubbio quello in cui Gendo racconta la sua infanzia di Ur-Shinji, di una generazione più o meno corrispondente a quella dello stesso Hideaki Anno, della quale, per bocca del giovane Gendo, si dà un ritratto paradigmatico, nel quale non solo un cinquantenne giapponese, ma anche uno italiano, credo, potrebbe facilmente riconoscersi.
Gendo, il personaggio e l’uomo, acquisisce le pergamene del Mar Morto dalla Seele, nelle quali legge “il copione”: la storia come dovrà compiersi immancabilmente. Gendo dunque conosce la profezia che riscrive la realtà, l’immancabile destino che attende la sua storia nell’ultima riga delle pergamene. Di ciò, l’Eva imaginary non è che la finale esplicitazione, lo svelamento narrativo. Analogamente, Hideaki Anno ha le pergamene in mano – è la sua sceneggiatura – e sa dove e come avverrà il perfezionamento, cioè il compimento, la fine della storia. Nell’amore, immancabilmente – o in qualche sua forma confusa. Questo è il progetto velleitario, pre-reale, che sta al cuore di Evangelion già nel ‘95 come prefigurazione, profezia non verificabile dell’avvento di un cristo donna, una salvatrice che resta in ombra e che, nella versione “immaginaria” – cioè speculare – della storia, è l’angelo nero – Yui – in nome del quale l’avatar infero del protagonista – Gendo – pronuncerà la bestemmia contro lo spirito per la quale non è ammessa redenzione: morte a tutti in nome di un desiderio più forte della realtà, in nome di una creatura inesistente perché trascorsa – o immaginaria, fa lo stesso. Di riffa o di raffa, con le buone o con le cattive, l’amore ci porterà in salvo. È quello che ci raccontiamo da sempre, giusto? Che vissero per sempre felici e contenti ovvero disperati, in caso di sparizione di uno dei due coniugi, eternamente perseguitati dal suo fantasma che ci forzerà a distruggere il mondo per la sola speranza di rivedere un istante il volto perduto ed amato.
La storia-profezia di Gendo riverbera nella nuova love story di Shinji e Rei, che culmina nel commovente finale del 2.22, quando il perfezionamento è attivato dalla scelta personalistica di Shinji di salvare la ragazza dal suo esilio sottomarino e subcoscienziale, innescando involontariamente quello che viene chiamato “near third impact”. Non è qui forse adombrata la variante à la Gendo del perfezionamento, che a differenza del transumanismo impersonale della Seele – che sogna l’abbattimento indiscriminato ed anonimo delle anime di tutti gli esseri umani – concepisce il perfezionamento soltanto se compiuto a bordo del vascello umanissimo dell’amore di coppia? Shinji sceglie Rei delirando, trascendendo la logica di questo mondo, spinto dalla nuda forza del proprio desiderio – e con l’approvazione di Misato, colei che del rifiuto delle logiche di questo mondo ha fatto il suo tratto caratterizzante, imbastendo operazioni suicide basate sulla sola attesa del miracolo. L’amore che salva: sogno di salvezza romantico, forse un po’ borghese, che fu già di Rilke, per non negargli precedenti illustri – ma non siamo qui per fare i foucaultiani con Eva, qui vuol esserci solo cuore, e me ne scuso ancora, ma si fottano cortesemente quelli che disdegnano. Evangelion è la storia di un uomo, non la storia di un’idea, o “delle idee”. Di tanti uomini, per la verità – e certo anche di qualche donna che conosco.
Hideaki Anno, nella realtà, ha trovato per fortuna la sua Yui, e ancora non l’ha persa. È la mangaka Moyoco Anno, con la quale si è sposato nel 2002, poco dopo la fine della prima versione di Evangelion e poco prima dell’inizio del Rebuild. Un personaggio – pardon, una persona – che nella vita del regista ha avuto il felice ruolo di inverare la profezia secondo cui è solo attraverso l’amore che il perfezionamento dell’animo umano si compie, e di cui Evangelion è la scrittura anticipatrice. Da questo momento in avanti – mi scuso con il lettore che ha forse pazientato con aspettativa scientifica fino a qua e già non ha sbalordito a sufficienza quando l’ho mandato a fanculo – si deve scegliere di credere alle mie parole o passare a letture più serie, perché non ho altra difesa che il mio nudo sentimento per avvalorare ciò che sto per dire (1). Nel mio cuore è tutto molto evidente – e “per ora basta così”, se mi si consente il “plagio letterario” dalle parole di Gendo sopra la tomba di Yui, da aspirante Grande Inquisitore quale sono.
Evangelion 3.0 + 1.0 è la storia di come Hideaki Anno, attraverso l’amore per Moyoco, supera finalmente l’impasse terrificante della fusione di immaginario otaku e realtà – non però verso un’ottocentesca realtà nuda e cruda, spoglia di meraviglia, e quindi verso il nostro mondo di merda, ma verso una nuova realtà che di quella nota è la versione migliore, imbevuta di gloria ed eternità grazie alla linfa dell’amore.
Tornare alla realtà, alla vita: il sogno inespresso dell’otaku penitente e non ancora redento (cioè liberato) dalle prigioni del suo immaginario. Questo significa finire la storia, che pure è per sua natura ciclica e tende a rinnovarsi nella ripetizione dell’intenzione redentiva, mai pienamente realizzata. Anche Satoshi Kon aveva testimoniato la stessa impasse, con la chiusura ciclica di Paranoia Agent, che finisce là dove era cominciato, nella finzione escapista della stessa Tokyo popolata di vigliacchi in fuga da sé stessi sulla quale si era aperta inizialmente la storia. Dalla narrazione escapista è difficile liberarsi perché fornisce l’assoluzione illusoria che naturalmente segue a qualsiasi presa di consapevolezza, la quale però non per forza produrrà un cambiamento effettivo, nell’universo contaminato dalla sovrapposizione morbosa di immaginario e reale, se la parola non si sarà incarnata in verità esistenziale. Si è visto, sempre in Paranoia Agent, quando il freudiano Maniwa scodella tutto lo spiegone e ottiene in cambio non la risoluzione sperata ma la sberla di Maromi. Kon poi è morto, e non ha potuto concludere quel che Hideaki Anno ha ottenuto con l’ultimo film del Rebuild: finirla con l’animazione, sigillandola in una nuova carne che dell’immaginario e del reale fosse la prole eletta, il prodotto meraviglioso e salubre.
Chiudere i conti con Eva comporta il sacrificio della storia, e quindi la distruzione del suo principale dispositivo narrativo, cioè gli stessi Eva. Nel finale del film i robottoni sono elencati e trafitti uno dopo l’altro, e così consegnati alla non-esistenza. Una transizione nient’affatto pacifica, perché oltre la pellicola argentata della narrazione c’è solo la vita nuda di storie, la miserabile esistenza di ciascuno, prigioniera della realtà imperfetta che sempre anela e mai ottiene redenzione. Questo è ciò che uno Shinji dolente, seduto in riva al mare finalmente tornato blu, attende con rassegnazione alla fine del film: la sberla nuda del reale irredento, Maromi-per-tutti. Poi però arriva Mari, l’odiosa intrusa, l’”illustre” corpo estraneo al canone di Eva. Allora la storia finisce davvero, e la realtà temuta giunge infine, ma trasfigurata. La sberla di Maromi invece non arriva. Che cosa è successo?
O piuttosto, chi è Mari? Una turbativa fastidiosa per tutti i fan della storia originale, personaggio indecifrabile, ambiguo, mediamente odiatissimo. Portatrice, nell’ultimo film, di una terza lancia, altrettanto intrusiva e non canonica, con la quale, senza l’aiuto di alcun dio, il Perfezionamento è finalmente sventato. Traditrice – così nell’agnizione finale, nel nome di Mari Iscariota che è svelato da Fuyutsuki un attimo prima di svanire. Vera inside woman – e il lettore capirà solo più avanti quanto questa definizione le calzi a pennello – che cospira contro il progetto di Gendo collaborando con il folletto-Fuyutsuki; portatore, questi, di una colpa inespiabile all’interno della narrazione, e che come Gendo sarà semplicemente congedato nel nulla: sciolto in LCL o fatto scendere a una fermata del treno che si apre sul vuoto siderale, dove solo potranno veramente finire i due unici personaggi che sempre hanno inseguito il sogno transumano della salvezza-dentro-la-narrazione, aggrappandosi a quella speranza coessenziale alla disperazione che Satoshi Kon dipinse di rosa e nero in Paranoia Agent.
Così come gli Eva, anche i personaggi devono essere tutti congedati, nessuno escluso – non però consegnati alla stessa dimensione vuota e disumana, alla non-esistenza cui sono stati condannati i loro omologhi umanoidi e i due massimi colpevoli Gendo e Fuyutsuki. Asuka, Kaworu, la stessa Rei che così tanto aveva contato nella nuova romance del Rebuild – tutti costoro, redenti, sono consegnati a un “altro posto”, dove potranno godere di un’altra vita fuori dall’arco narrativo canonico. Il dialogo tra Shinji e Rei è di un’esplicitezza quasi dolorosa, quando Shinji dice che ha la possibilità di immaginare un mondo senza gli Eva, mentre il titolo stesso della serie appare sulla parete dietro i due personaggi. Ma chi ha davvero il potere di immaginare un mondo nuovo per i personaggi della serie? Ovviamente l’autore, Hideaki Anno, che a partire da questo momento – siamo davvero prossimi alla fine – si toglie la maschera e si sovrappone perfettamente al suo protagonista. Non si tratta però di un’identificazione esclusiva, perché nell’evo delle narrazioni derivate, al cuore di quella “terza generazione otaku” di cui parla Hiroki Azuma (2), ogni consumatore di narrazioni è anche potenzialmente ri-creatore della storia e dei personaggi, che nelle fan-fiction e in tutte le opere derivate acquistano nuova vita – e dunque non moriranno mai. Serenamente, quindi, Anno-Shinji può consegnare le sue creature a un altrove dove queste continueranno a risorgere nei cicli infiniti e rigogliosi della ricreazione, nel carnevale postmoderno finalmente redento, dove nulla muore e tutto sempre risorge. Quello è il loro posto, il luogo dove i personaggi di Eva conosceranno la salvezza, la nuova vita concessa alle creature di carta di una storia immaginata: semplicemente un’altra storia. Non però agli esseri umani è riservato questo paradiso immaginario, si badi, ma unicamente ai personaggi: larve quasi-umane nate per essere dette e contraddette tutte le volte che vogliamo, per morire e risorgere a ogni nuovo inizio, per tutte le notti di veglia di Sherazade. Non devono stupirci, dunque, l’improbabile nuova alleanza Kaworu-Kaji, né l’artificioso duo Asuka-Kensuke, né la coppia Rei-Kaworu appena intravista alla stazione – odiosissima per chi, come il sottoscritto, da sempre fedelissimo fanboy della rossa, riscopre in Rei-dai-capelli-lunghi la waifu occulta, il dodicesimo imam mai rivelato e apparso proditoriamente un istante prima della fine dei tempi (perdonami, lettore giustissimo: parlo soverchiato dal rossore).
Ma Shinji-Anno, questa figura reale e immaginaria a un tempo, prodotto di quella narrazione profetica e autoavverante che è la storia stessa di Evangelion, questo strano ibrido di realtà e immaginazione dove andrà a finire, dopo il curtain call, quando tutto sarà finito? Ovviamente, nella realtà, da dove proviene e dove è nato. Mari ha detto che lo verrà a prendere, e così avviene, sulla spiaggia bianca e blu – proprio un istante prima che l’anime-Eva svanisca nei key-frame e nelle bozze sbiadite della penultima sequenza. Ma perché Mari?, domanda il fan intransigente, che lamenta la superficialità di questi colpi di scena pretestuosi. Perché Mari non è un personaggio di Evangelion – vero? Lei è proprio un’intrusa, una che viene da fuori. Dal mondo… reale?
Mari è – nella realtà condivisa da noi che esistiamo veramente – quello che, nella storia, Yui è stata per Gendo e Rei avrebbe potuto essere per Shinji: la salvezza e l’amore. Ma appunto nella realtà, non nella storia: nel finale sublime in cui i due ragazzi diventati adulti, Shinji e Mari, escono dalla stazione correndo e tenendosi per mano, felici. Un finale che si situa a una soglia ambigua di realtà e finzione, e che in verità è la loro fine reciproca, ovvero il loro compimento. Mari è letteralmente colei che porta Shinji fuori dalla storia, ovvero colei che, rispondendo al nome di “Iscariota” (3), tradisce la narrazione originale e così contribuisce in maniera insostituibile al piano già scritto della salvezza, implicito e confuso, eppure immancabilmente verificatosi com’era stato previsto nel ‘95. Lo spettatore segue incredulo la neonata coppia mentre si allontana su uno sfondo che è di una definizione impressionante, non sembra nemmeno più animazione ma un vero e proprio film… aspetta, ma è davvero un filmato? È una scena reale, una ripresa dal vivo della stazione di Ube, città natale di Anno, quella in cui Shinji e Mari si allontanano verso il fuori-scena, verso la loro nuova vita nella realtà. Ma è questa forse la realtà nuda e spoglia di meraviglia che incombe sui nostri cuori stanchi, che solo nelle narrazioni trovano il loro balsamo e nutrimento? No: è una realtà splendida, luminosa, indistinguibile dal sogno animato, popolata dai fantasmi incarnati della finzione, eppure verissima e intramontabile. È il mondo redento dalla parola d’amore. È la vita di ciascuno quale potrebbe essere se non l’immaginario precipitasse sul reale, ma se la realtà fosse innervata dalla meraviglia della parola fatta carne, dalla storia che non è più illusione ma illuminazione – precisamente ciò che, mi perdonino tutti, Dante trovò alla fine del suo viaggio narrativo e transumano. È la vita che, credo, Hideaki Anno ha conosciuto grazie all’amore di Moyoco, sua moglie, l’intrusa: Mari Illustrious Makinami “Iscariota”. E se questo è ciò che volevi dirmi, Anno-sensei, allora grazie, perché era esattamente quello che volevo sapere di te – e che mi auguro per me come per ciascuno.
Che questa redenzione (cioè liberazione) della realtà dalla sua spoglia insignificanza avvenga in grazia dell’amore di Mari, di Moyoco o di Dio, credo, ha poca importanza. Che sia la parola, cioè la storia, a produrre per noi la rivelazione e la redenzione, questo però è innegabile. Senza la parola, nemmeno Cristo si sarebbe incarnato, e quindi non avrebbe potuto salvarci – o provarci, se dà fastidio. Senza il logos, nulla di ciò che è gloria e gioia per l’umano esisterebbe. Ma talvolta il logos ha questo brutto vizio di viziare e offuscare la realtà, mangiandosela – e di questi tempi più che mai. Non è però la sua abolizione che potrà restituirci la realtà – come certo sognava la Seele, il cui transumanesimo finisce nel silenzio delle stelle o nella confusione delle voci di Babele – ma solo la sua incarnazione, la sintesi di immaginario e reale in perfetto equilibrio realizzata al di qua della vita e al di là della narrazione. La storia, dunque, come profezia che riscrive l’esistenza – come sperava Gendo – ma dentro la vita, e va da sé, più in alto della nuda vita. Fuori da Evangelion, ma dentro l’anno 2021 – un anno di merda nel quale però io sto scrivendo, grato e felice, e Hideaki Anno imbocca la strada della vecchiaia insieme a sua moglie.
Come ho già detto – e mi scuso per l’insistenza – tutto ciò, per ora, è soltanto “dentro il mio cuore”, come il ricordo di Yui per Gendo, nel doppio senso che non ho prove solide della mia interpretazione, ma scrivo drogato dall’entusiasmo e dalla speranza, che come insegna Eva è solo il lato in luce della disperazione. Ma se qualcosa ho imparato anche senza l’aiuto di Eva, in questi anni, è che a furia di raccontare un sogno, prima o poi, questo diventa reale – ovvero la realtà, ecco che di nuovo mi confondo, la realtà diventa un sogno. Tanto sottile è il confine tra dannazione e salvezza! Non si finisce mai di inciamparci. Così è anche il confine tra l’arbitrio della mia storia, che voglio a tutti i costi proiettare in quella di Evangelion, e il messaggio di speranza – e disperazione – che Hideaki Anno ha voluto consegnare alla sua ultima fatica. “Per ora” – e grazie ancora per avermi prestato le ultime parole, prima di sparire nel nulla alla fermata del treno (vedi che anche tu in qualche modo, anche per poco, anche solo per me, sei salvo?) – “Per ora”, ha detto Gendo, “basta così”.
Buona fortuna a tutti i children!
* * *
(1) Aggiungo questa nota dopo alcuni giorni dall'uscita del film. Mi ha confortato il fatto che l'ipotesi dell'equivalenza Mari-Moyoco abbia trovato appoggio presso diversi appassionati italiani ed esteri, sebbene non siano mancate le smentite in tal senso, anche appoggiandosi ad alcune dichiarazioni dello staff di Anno e della stessa Moyoco. Non ci sarebbe forse bisogno di spiegare come certe cose debbano restare confinate in una zona di relativa omertà, se non proprio di segreto, per la loro stessa natura di dizioni intime, se così posso esprimermi. Ma in un evo come il nostro, l'appiattimento sintattico dei piani di lettura è purtroppo una realtà più forte di qualsiasi verità esoterica.
(2) Hiroki Azuma, Generazione Otaku, Jaca Book 2001. Il saggio, che ha fatto epoca, distingue gli otaku in tre generazioni, l’ultima delle quali sarebbe quella più propensa a fruire di anime e manga secondo la modalità dell’“archivio di dati”, basata sulla moltiplicazione e la ricombinazione di tropi ed elementi narrativi atomizzati. Evangelion, nel contesto del saggio, è interpretato come opera-spartiacque, che dà avvio alla terza generazione e quindi segna il vero e proprio ingresso della narrativa popolare giapponese nell’evo postmoderno.
(3) Non serve aver letto le Tre versioni di Giuda di Borges o proclamarsi seguaci di Maria de Naglowska per capire che, senza il tradimento dell’Iscariota, l’inveramento delle scritture, e quindi il piano di Cristo per la salvezza del genere umano, non avrebbero avuto seguito. Basterebbe leggere con attenzione Giovanni 13, 21-30. Per chi volesse approfondire, invece, rimando appunto al racconto di Borges, nel quale si immaginano la bibliografia e la biografia di uno studioso che arriva a sostenere l’identificazione di Giuda con il vero Cristo. Maria de Naglowska, invece, è un’interessantissima figura di profetessa o satanista, a seconda delle sensibilità, che fondò il suo culto del male sulla complementarietà e reciproca dipendenza delle figure di Cristo e Giuda (cf. M. Introvigne, I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo, pp. 228-238).
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