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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Quando lassù... e quaggiù? | Il racconto di un dramma umano, molto umano

Aggiornamento: 19 mar 2021



È convinzione quasi universalmente condivisa che i miti, offrendo una spiegazione dell’origine di qualcosa, sono una sorta di “prescienza”, il primo passo verso la scienza, il primo tentativo di fare scienza. Ma adesso che la scienza c’è, sono solo belle storielle, prive però di significato. Eppure se le si analizza con attenzione non sembrano così fantasiose, il frutto di chi non essendo ancora scienziato doveva inventare chissà quale spiegazione celeste. Il fatto è che ciò che accade lassù in cielo non sembra poi così diverso da quello che accade quaggiù tra i comuni mortali. In effetti cambia solo la portata delle conseguenze: nel primo caso si arriva a una cosmogonia.

Sembra una considerazione banale, lo sanno tutti che gli antichi dèi sono molto, troppo antropomorfi, ma per chi l’ha approfondita, come l’antropologo René Girard, è stato il punto di partenza per scoperte per nulla scontate. A ben guardare già la stessa considerazione riproposta in termini diversi non è più così banale: si direbbe che gli antichi quando raccontavano (fossero miti o leggende) non erano tanto interessanti a fenomeni naturali quanto piuttosto a fenomeni umani. All’immagine del primitivo contemplatore dell’Universo ancora ingenuo, non ancora scienziato, si sostituisce quella di un uomo preoccupato innanzitutto della convivenza con i suoi simili. E dai suoi racconti sorgono questioni molto interessanti, rispetto alle quali la scienza non ha niente da dire.


La Teogonia di Esiodo non narra solo di come sono nati il giorno e la notte, la terra, il mare e il cielo (letteralmente “nati”), anzi l’argomento principale è un altro. Infatti molto più famosa dell’albero genealogico delle prime divinità è la disputa famigliare per il potere, che vede prevalere Crono su Urano, poi Zeus su Crono. Il tema principale qui non sembra tanto l’origine del mondo, ma il rapporto tra padre e figlio, e visto il degenerarsi delle lotte in una guerra, la Titanomachia, il problema principale non è tanto l’ordine del cosmo, ma della comunità. Naturalmente nel mito i due piani non sono divisi. Questa prima conclusione già mette in difficoltà: sorgono domande a cui né Newton né Einstein né nessun altro fisico o scienziato sanno offrire soluzioni ai cosiddetti primitivi (in quanto scienziati ovviamente, non in quanto uomini). Perché il mondo è dominato dall’ostilità tra individui, persino tra padre e figlio? Come si evita, come si ferma?

Il caso greco non è affatto un’eccezione, anzi forse ce ne sono anche di più interessanti. Il poema mesopotamico noto con le sue prime parole, Enuma Elish (“Quando lassù”), è straordinariamente ricco di spunti.



Sembra raccontare di un mondo molto lontano da quello umano, ma se si osserva con maggiore attenzione ci si accorge che la narrazione non è così misteriosamente arcaica. Alla fine si ritorna di nuovo alla disputa che degenera in una guerra, ma qui non sembrano esserci dubbi che il problema non sia il potere.

Tiamat, la vecchia madre degli dèi, lamenta che il giovane dio Marduk provoca terribili tempeste per puro gioco, infastidendo tutti, di contro Marduk si prepara alla guerra perché lei ha generato orribili mostri. All’apparenza tutto ciò è privo di senso, se non lassù nel cielo mitico, a uno sguardo attento non lo è.

Immaginiamo il contesto di una comunità ancora piccola, perciò tutto sommato c’è poco potere su cui mettere le mani. In compenso in un ambiente senza evidentemente un’autorità politica forte e dove tutti si conoscono, ciò che conta davvero è il prestigio, una buona reputazione. Supponiamo che a un certo punto intervenga una crisi, di qualunque tipo, magari più guai insieme, a rovinare la pacifica convivenza. Allora esplode il malcontento. E magari si inizia a incolpare qualcuno delle sventure che capitano a tutti. Bisogna screditarlo e la cattiva reputazione è prova sufficiente anche per le colpe più gravi (o più assurde) in un momento simile.



Questi fenomeni in questa sequenza, crisi, malcontento, caccia a capri espiatori, non sono frutto dell’immaginazione, sono documentati, quaggiù nel mondo reale. Il mito ci racconta di due fazioni che in tempo di crisi si schierano per colpevolizzare o l’una o l’altro dei due protagonisti. Se le cose vanno male sarà colpa di quel brutto ragazzaccio impertinente che dà solo fastidio, avrà detto qualcuno; sarà colpa di quella vecchia strega, chissà che mostri avrà generato, avrà detto qualcun altro (notare come nella narrazione del poema siano presenti oltre i due rivali altri personaggi non solo e non tanto durante la guerra, ma in precedenza a provocarla).

Girard ha mostrato che l’aggettivo “mitico” è perfettamente utilizzabile come sinonimo di accusa stereotipata. In tempo di crisi capita spesso che si accusino le donne di generare mostruosità. Oppure ci si accanisce contro chi appare deforme fisicamente.

Marduk ha quattro occhi, quattro orecchie e sputa fuoco, oltre che giocare con le tempeste, Tiamat genera draghi, mostri marini, incroci tra uomini e animali. Qui si vede chiaramente che il mito nasce da accuse ingigantite fino all’assurdo. Esse sono certamente fantasie, ma non prive di un senso, perché la situazione che le provoca non è fantasiosa, è reale.

Gli antichi racconti ci narrano il terribile dramma vissuto dalle primitive comunità, ancora così vulnerabili. Ma ancora più drammatica è la modalità per riportare la pace: Tiamat alla fine viene squartata. Anche questa è una punizione tutt’altro che fantasiosa, bensì documentata. Il malcontento è superato quando una fazione vince e tutti si ritrovano d’accordo su chi è il colpevole.

Gli antichi erano così ossessionati da quanto accaduto per ritornare all’ordine in cui vivevano che quello divenne l’unico schema per spiegare qualsiasi ordine, compreso quello del cosmo.

Nessuna fisica né altra scienza offre una soluzione al dramma. Al massimo può servire per combattere l’assurdità delle accuse, ma i recenti avvenimenti dell’ultimo secolo hanno dimostrato che l’ostilità e la ricerca di vittime trova sempre nuove strade. Deve essere un sapere di tipo diverso, che non accantona il mito, ma raccoglie il suo dramma, a “superarlo”, a risolverlo, per così dire, dall’interno.


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