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Verso un'altra teoria del partigiano | 3.3: tra Hegel e Rousseau

Aggiornamento: 24 ago








Per introdurre la libertà assoluta quale nuova figura della coscienza, anche Hegel mette al centro del discorso da una parte l’erosione della realtà oggettuale già convertita nel concetto di Utilità, dall’altra la desertificazione della trascendenza, intesa come linea di fuga aperta dalla fede, precedentemente operata dall’Aufklarung (1). Ogni resistenza, soprattutto concettuale, deve essere liquidata e assorbita: «La coscienza ha trovato il suo concetto nell’utilità» ma tale concetto, dice Hegel, «è ancora predicato dell’oggetto, non è essa stessa soggetto, non è cioè la realtà immediata e unica dell’oggetto» (2). Per una trasformazione completa e radicale dell’essere-per-sé, è necessario che la coscienza, nell’emergere dell’autocoscienza come suo contro-movimento, si convinca di essere la sostanza stessa di cui è fatta l’alterità: ecco che allora l’Utile non è nient’altro che il Sé della coscienza. In questo strano avvolgersi nelle proprie spire, la coscienza ha compreso che la «rivoluzione reale della realtà» scaturisce da questo rivolgimento interiore: l’oggettività dell’Utile, la sua consistenza di referente residuale della realtà, è perciò riassorbita, ri-significata, trasformata, ridotta a funzione della coscienza eretta a soggetto. In questo modo la coscienza si scopre come libertà assoluta.

La barriera della differenza non tarda a divenire sempre più illusoria man mano che tale coscienza assurge a concetto puro, sapere dell’autocoscienza; funzionalizzazione e rispecchiamento sono le due caratteristiche peculiari della coscienza come libertà astratta: «è soltanto una vuota parvenza di oggettività quella che separa l’autocoscienza dal possesso. Da una parte, infatti, ogni sussistenza e ogni valore dei membri determinati dell’organizzazione del mondo reale e del mondo della fede sono, in generale, ritornati in questa determinazione semplice come nel loro fondamento e spirito; dall’altra parte, invece, tale determinazione non ha più nulla di proprio e peculiare per sé, ma è piuttosto metafisica pura, concetto puro, sapere dell’autocoscienza» (3).

In poche parole, la coscienza scopre che l’essere-in-sé dell’Utile, la sua esistenza in quanto oggetto separato e resistente, è essenzialmente essere-per-altro, ossia esiste solo in funzione di una coscienza che gli attribuisce un significato, che lo trasforma. Non può esistere trascendenza in un mondo in cui alterità e differenza perdono la loro consistenza oggettuale, dissolvendosi in puro concetto relativo alla coscienza. La liquidazione dell’oggetto e la desertificazione della trascendenza sono il frutto dell’estroflessione della coscienza nel suo libero movimento di astrazione della realtà; è il contro-movimento, tuttavia, il ritornare a sé della coscienza astratta, a rendere il processo pienamente assoluto: «l’essere-per-sé – il Sé – in cui l’essere-per-altro ritorna, invece, non è un Sé diverso dall’Io, non è un Sé peculiare di ciò che si chiama oggetto. In quanto intellezione pura, infatti, la coscienza non è un Sé singolare cui starebbe di fronte l’oggetto con un suo proprio Sé, ma è piuttosto il Concetto puro, lo sguardo del Sé nel Sé, l’atto duplice e assoluto di vedere se stesso: l’autocertezza è il soggetto universale, e il suo concetto, nell’atto di sapere, è l’essenza di ogni realtà» (4).

È opportuno peraltro segnalare che il sapere concettualizzato da un soggetto universale postosi come autocertezza è, per Hegel, indubitabilmente lontano dal vero: così come, in sede gnoseologica, la certezza sensibile doveva essere superata dalla percezione per giungere poi alla verità della ragione, allo stesso modo, nel concreto movimento dello spirito, quello dell’autocertezza della coscienza astratta non potrà che essere un momento lontano e avverso alla verità.

Occorre, inoltre, evidenziare la forza coercitiva contenuta nel prefisso “auto”: l’autismo e il narcisismo in atto nel gioco di rispecchiamento della coscienza delineato da Hegel sottolineano in maniera sintomatica l’impossibilità di pensare un essere-altrimenti rispetto all’autocoscienza che riconosce unicamente se stessa nella realtà ricondotta alla propria immagine; questo rendere il reale mappa della coscienza universale si configura come una terrificante trappola immaginaria (secondo una triplice declinazione: derealizzazione, negazione brutale di ogni alterità asimmetrica rispetto all’immagine posta e autoflagellazione determinata dall’impossibilità di realizzare perfettamente l’immagine posta a modello), in quanto elimina qualsiasi spazio di decompressione per la singolarità, per la vita, o libertà di coscienza, privata, che la modernità aveva consegnato all’individuo: elimina cioè la presenza del negativo inteso come critica, come spazio di libertà per una risposta altra e divergente, che probabilmente resta misconosciuta ma comunque viva nella sua inquietante presenza.

Questa premessa “metafisica” è funzionale e propedeutica a comprendere l’essenza politica dell’opera della libertà astratta, il suo dispositivo d’esercizio: l’obiettivo che Hegel si propone nelle pagine dedicate all’epifania storica della rivoluzione non è altro, in fondo, che quello di inserire la teoria contrattualistica di Rousseau nella storia dello spirito, cioè nel suo manifestarsi quale figura della coscienza. Sottolineiamo sin da subito che, di nuovo, la massima attenzione dovrà essere rivolta a quei meccanismi espulsivi – o silenzianti ‒ le eventuali dissonanze e possibili resistenze, che in Rousseau conducono alla sovrapposizione totalitaria di libertà e sottomissione, sovranità e alienazione.

In queste dense pagine della Fenomenologia dello Spirito assistiamo pertanto ad una efficace transizione terminologica, che Hegel adopera, sempre in riferimento ai destini della libertà astratta, passando da un piano “metafisico-conoscitivo” ad uno più concretamente “socio-politico”, quasi a caricare di pathos l’azione effettiva della coscienza come libertà assoluta nella storia. Una volta ribadito che, nella sua manifestazione spirituale, la libertà assoluta è divenuta «l’autocoscienza che comprende se stessa nel senso che la sua autocertezza è l’essenza di tutte le masse spirituali, tanto del mondo reale quanto del mondo soprasensibile», perfetta figurazione del fatale nesso d’indifferenziazione che, in seno alla trappola immaginaria, si genera tra essenza (termine appesantito dall’assiologia posta dalla coscienza che desidera ergersi a modello assoluto) e realtà, Hegel introduce quindi la questione della volontà, termine cardinale nel contrattualismo di Rousseau.

«La coscienza considera il mondo assolutamente come propria volontà, e si tratta di una volontà universale. Per la precisione, non si tratta del pensiero vuoto della volontà riposto nel consenso tacito o nel consenso espresso per rappresentanza, bensì della volontà realmente universale, volontà di tutti i singoli in quanto tali. In sé, infatti, la volontà è la coscienza della personalità, di un Ciascuno; ora, essa dev’essere appunto questa vera volontà reale, dev’essere come essenza autoconsapevole della personalità di Tutti e di Ciascuno, affinché ciascuno faccia sempre ogni cosa in maniera indivisa: ciò che allora emerge come attività del Tutto è l’attività immediata e consapevole di Ciascuno» (5).

Non occorre davvero molta fantasia per riconoscere dietro le parole di Hegel la presenza di Rousseau: insofferenza verso la rappresentanza politica intesa come forma di alienazione della sovranità e della libertà, nonché introduzione di un elemento di diseguaglianza; ma anche preferenza per il consenso unanime come forza performativa del corpo sovrano derivante dall’espulsione e dalla soppressione della differenza interna espressa dalle volontà particolari.

Hegel coglie perfettamente il funzionamento del dispositivo della sovranità nella teoria di Rousseau: il patto sociale, necessario per ripristinare l’uguaglianza tra gli uomini dopo che la pace solitaria dello stato di natura degenerò progressivamente nell’inferno di una convivenza dominata da passioni ipermimetiche ed egoistiche e dall’incancrenirsi delle disuguaglianze (6), correlato della violenza a difesa della proprietà (segno patente del desiderio di distinguersi dal prossimo), funziona solo grazie al legame che annoda volontà generale e corpo sovrano espresso nel suo elemento singolare.




L’urgenza da cui procede Rousseau per fondare e giustificare la convenzione è quella di «trovare una forma di associazione che con tutta la forza comune difenda e protegga le persone e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima»: ma per evocare un siffatto corpo sovrano in grado di immunizzare l’umano da se stesso è necessaria «l’alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti, in favore di tutta la comunità» (7)(8).

Nella teoria di Rousseau il corpo sovrano è sacro: riceve e custodisce in sé una serie di attributi mitici che ne definiscono l’assoluta intangibilità e potenza. Ma il transfert che sostiene tale numinosa evocazione dipende, non a caso, da un sacrificio che il singolo uomo compie per divenire cittadino. Per sottrarsi alla ingiusta e instabile condizione dello stato di natura, nel quale anche il diritto del più forte è costantemente soggetto a continui ribaltamenti, ed entrare nella stabile sicurezza dello stato civile, occorre celebrare un preciso rito di passaggio. La posta in gioco di questo tipo di interpretazione, sempre al crocevia tra ermeneutica girardiana e richiami schmittiani, senza dimenticare gli spunti offerti da Esposito (9) e Agamben, è da una parte quella di comprendere la ri-significazione, quindi l’estensione, del termine “assoluto” operato dal pensiero della rivoluzione quale “superamento” dell’assolutismo seicentesco, dall’altra resta, lo ribadiamo, quella di misurare l’intolleranza verso la differenza, in questo caso interna all’ordinamento.

La sacertà del corpo sovrano, la divinizzazione della comunità politica intesa come piena esecuzione della volontà generale, scaturisce necessariamente da un processo di vittimizzazione, dalla polarizzazione della violenza verso un capro espiatorio designato.

La forma contrattualistica con cui viene eseguito il rito di passaggio ammanta rendendo più mite la violenza effettivamente esercitata sull’individuo che s’appresta a comporre il corpo divino della Civitas: «Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto» (10). E però, nella misura in cui, per dare vita ad una comunità effettivamente politica (nel contrattualismo di Grozio, Pufendorf o Hobbes risulta probabilmente più marcato il passaggio dal pactum unionis, che configura la comunità naturale, al pactum subiectionis, che definisce, con l’evocazione del sovrano, la creazione della comunità civile), è necessario che, in ogni caso, sia ben definito e circoscritto il peso del munus, cioè dell’obbligo verso la comunità, che il singolo decide di mettere in comune, risulterà allora interessante misurare quanto sia effettivamente radicale la torsione della dinamica auto-sacrificale presentata nel contrattualismo di Rousseau. Se in Hobbes, infatti, veniva comunque conservata la libertà naturale, lo ius, nello spazio privato della coscienza (ma in realtà nell’intera dimensione non-pubblica caratterizzata dal silentium legis), con Rousseau assistiamo ad una estremizzazione della dinamica auto-immolatoria, per cui ciò che viene sacrificato e reso alla comunità è l’intera persona, libertà naturale compresa. L’obbligo dell’individuo verso la comunità è totale: il sacrificio è rivolto allora precisamente contro il prefisso auto- che determinava, ancora nell’assolutismo seicentesco, l’improfanabile presenza di uno spazio privato. Con il pensiero della rivoluzione, al contrario, la dimensione soggettiva sancita dal prefisso auto-, la dimensione quindi irriducibilmente privata e particolare, viene stigmatizzata come “parte maledetta”: ecco perché il corpo sovrano, immunizzandosi da quest’ultima secondo un rito farmacologico, diviene agente del transfert in grado di rendere divina la comunità sotto la direzione della volontà generale (autentico soffio vivificante il novello corpo mistico).

Hegel ci aiuta a tenere nei giusti binari il ragionamento: «In questa libertà assoluta [intercambiabile ormai con il sintagma volontà universale, nda], dunque, sono aboliti tutti gli stati sociali, i quali costituiscono l’essenza spirituale in cui il Tutto si articola e si organizza. La coscienza singolare, che apparteneva a un membro di tale organizzazione e in questo ambito particolare esplicava la sua volontà e portava a compimento i propri fini personali, ha adesso rimosso il proprio limite: il suo fine è il fine universale, il suo linguaggio è la legge universale e la sua opera è l’opera universale» (11).

Davanti a quest’opera di riduzione e abolizione di tutte le articolazioni spirituali, ossia i ceti, che costituivano ancora l’Ancien Régime, dobbiamo domandarci: dove si annida l’opposizione? Dove resiste la differenza? Hegel è chiarissimo in tal senso: «l’opposizione consiste dunque unicamente nella differenza tra coscienza singolare e coscienza universale» (12); è chiaro che dietro i termini “coscienza singolare” e “coscienza universale” è ormai legittimo riconoscere l’opposizione tra volontà particolare e volontà generale, cuore problematico del contrattualismo di Rousseau.

Il termine “assoluto” non denota più esclusivamente uno degli attributi emblematici del paradigma decisionistico della moderna idea di sovranità, il fatto cioè che il sovrano dovesse necessariamente essere legibus solutus per neutralizzare effettivamente l’eccezionale crisi delle guerre civili di religione. Ovviamente, tale valenza del termine “assoluto”, per la prima volta teorizzata con precisione da Bodin, viene mantenuta anche da Rousseau quando fa osservare che «la deliberazione pubblica, che può obbligare tutti i sudditi nei confronti del corpo sovrano, a causa dei due diversi rapporti sotto i quali ciascuno di essi è considerato, non può, per la ragione opposta, obbligare il corpo sovrano verso se stesso; e di conseguenza è contrario alla natura del corpo politico che il corpo sovrano si imponga una legge che non possa infrangere» (13).

Non bisogna dimenticare inoltre che altri consueti attributi vengono ripresi da Rousseau per definire la natura della sovranità esercitata dal popolo riunito in Assemblea: essa infatti è inalienabile, indivisibile, illimitata nel suo esercizio. La sacertà del corpo mistico comunitario risulta ovviamente accentuata dal prefisso negativo che realizza in dispositivo funzionante la dimensione inattingibile e imperscrutabile della sovranità, in maniera in fondo non così dissimile dal rapporto che, nella metafisica di Plotino, intercorre tra Uno e Ipostasi, teologia negativa e realizzazione secondo criteri gerarchici precipuamente emanazionisti.

Ma è la declinazione organicistica, che Rousseau recupera in opposizione al decisionismo moderno, a illuminare il tipo di legame che sottomette la volontà particolare alla volontà generale (14).

«Appena questa molteplicità di persone è così riunita in un corpo, non si può offendere uno dei suoi membri senza attaccare l’intero corpo; e tanto meno si può offendere il corpo senza che i suoi membri se ne risentano. (…) Ora, il corpo sovrano, essendo formato soltanto dai singoli che lo costituiscono, non ha né può avere interessi contrari a loro; di conseguenza, il potere sovrano non ha alcun bisogno di dare garanzie ai sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri; (…) Il corpo sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere.

Ma lo stesso non può dirsi dei sudditi nei confronti del corpo sovrano (…) In effetti, ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contrari o diversa dalla volontà generale che ha come cittadino. (…) e considerando la persona morale che costituisce lo Stato come un essere di ragione, in quanto non è un uomo, egli godrebbe dei diritti del cittadino senza voler adempiere ai doveri del suddito: ingiustizia la cui diffusione provocherebbe la rovina del corpo politico.

Affinché il patto sociale non sia dunque una vana formula, esso implica tacitamente questo impegno, che solo può dare forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo» (15).

L’ambizione di Rousseau è quella di rendere tale sacrificale asimmetria (poiché dietro gli interessi del singolo individuo aggrappato alla propria libertà naturale si affaccia costantemente il fantasma della violenza espulsiva polarizzata nella forma del tutti contro uno) responsabile del massimo contro-dono che l’individuo può ricevere: la libertà. Essere obbligato ad essere libero (ossia auto-determinato dalle leggi che io stesso decido di impormi), questa è una definizione possibile di cittadino secondo Rousseau. Ciò deriva dal fatto che, nello stato civile, l’individuo è, al contempo, cittadino partecipe del corpo sovrano dotato quindi del massimo diritto ma insieme suddito del medesimo, obbligato incondizionatamente verso la comunità.

Ecco allora cosa Hegel era riuscito a cogliere con chiarezza e un personaggio come Cloots andava rilanciando nei suoi libelli animato da uno spirito crociato: la coscienza particolare del singolo, chiamata a rispondere di se stessa davanti all’astrazione della coscienza universale eretta ad assoluto modello, diviene testimone della disgregazione della propria consistenza e definizione, dei propri limiti e, dunque, del fondamento della propria differenza. Ma se tale consapevolezza produce nella scrittura di Hegel sfumature fosche e drammatiche, nei discorsi di Cloots è riscontrabile solamente ascetica esaltazione.

La coscienza di Ciascuno si risolve quindi ad essere frattale della coscienza universale impostasi come libertà astratta; il principio di reciprocità che lega il cittadino a parte subjecti e il suddito a parte objecti realizza, nell’atto di sovranità, il principio economico-metafisico che regola il funzionamento del dispositivo congegnato da Rousseau: l’emanazione della volontà generale sempre uguale e identica a se stessa penetra e colma con la sua immagine, con il suo fantasma, l’epifenomeno della volontà particolare. L’attività della volontà generale finisce per coincidere con l’attività immediata e consapevole di ciascuno. Con il lessico hegeliano: Tutti è sempre, simultaneamente, Ciascuno. Nella mancanza d’aria che tali formule comunicano risulta allora palese la nuova accezione del termine “assoluto” che Rousseau codifica ad uso della futura rivoluzione: al moderno significato di ab-solutus, si aggiunge quello di onnicomprensiva totalità. L’emanazione della volontà generale, scorrendo nei gangli degli associati inglobati nella metafora organicistica, genera un senso di pienezza e di liscia totalità: insomma, la sublime utopia offerta dall’immagine dell’unità onnicomprensiva che Schnur, analizzando il pensiero di Cloots, aveva segnalato quale figura prototipica del pensiero illuministico-rivoluzionario.


È tuttavia il passaggio al momento dell’autocoscienza, al momento quindi di riconfigurazione del negativo nel quale la contraddizione ricompare con rinnovata e brutale concretezza, che svela la peculiare natura dell’opera della libertà assoluta. In effetti, una volta affrescato lo sfondo metafisico su cui è innestato il dispositivo sovrano di matrice rousseauiana, utile a realizzare l’astratta immagine posta dalla coscienza come libertà assoluta, non resta che registrare le conseguenze della messa in opera di tale dispositivo.

Ciò che maggiormente deve interessarci è sempre il paradosso in cui inevitabilmente finisce per ingarbugliarsi e contraddirsi l’utopia dell’unità onnicomprensiva, paradosso che precedentemente abbiamo definito trappola immaginaria, così da evidenziare con ulteriore precisione l’origine del doppio legame sancito tra inevitabile distruzione di ogni elemento reale e particolare da un lato (residui di alterità e differenza che rimangono inscalfibili nella loro resistenza all’attività impositiva e ideale della coscienza astratta) e incapacità di fondare alcunché di positivo, nel senso di permanente, oggettuale e concreto dall’altro. «Dopo la rimozione delle masse spirituali differenziate e della vita limitata degli individui, dopo la rimozione dei due mondi di questa vita [come abbiamo visto, con questi termini Hegel si riferisce alla dimensione oggettuale e immanente dell’Utilità e alla dimensione trascendente offerta dalla fede, nda], resta dunque soltanto il movimento interno dell’autocoscienza universale come azione reciproca tra l’autocoscienza nella forma dell’universalità e l’autocoscienza nella forma della coscienza personale; la volontà universale va entro se stessa ed è la volontà singolare cui stanno di fronte la legge e l’opera universali» (16).

Con il passaggio all’autocoscienza ci ritroviamo quindi all’interno del funzionamento del dispositivo sovrano: ciò che cambia radicalmente è il punto di vista da cui si guarda a tale concreta evoluzione spirituale. Se il momento della coscienza, quello del radicamento e dell’im-posizione della libertà astratta a fondamento del corpo sovrano, coincideva con il punto di vista del cittadino, o meglio, del sovrano stesso (a tutti gli effetti quindi il punto cieco, disincarnato e astratto da cui è virtualmente realizzabile l’intangibile sovranità panottica e quindi la possibilità di aggravare assiologicamente la differenza tra realtà singolare del suddito e immagine sovrana del cittadino), in quello dell’autocoscienza il punto di vista sarà quello del suddito divenuto quindi testimone dell’azione reciproca dischiusa tra autocoscienza universale e autocoscienza personale, volontà generale e volontà particolare.

Tra le due si genera immediatamente un cortocircuito che finisce per riproporre puntualmente separazione, differenza e contraddizione, laddove sussisteva l’illusione di una perfetta coincidenza e univocità di Tutti e Ciascuno. Tale contraddizione è così dirompente che tarla e scava dall’interno l’autocoscienza personale stessa (Hegel la chiama anche «coscienza singolare che è consapevole di sé come volontà universale»), facendosi quindi comprensione dell’opera della libertà assoluta: «quando [la coscienza singolare consapevole di sé come volontà universale, ossia il cittadino come parte del corpo sovrano, nda] passa nell’attività e plasma l’oggettività, essa non fa dunque nulla di singolare, ma soltanto leggi e azioni dello Stato» (17). La generalità dell’azione dello Stato è infatti necessariamente correlata all’astrazione della coscienza astratta e universale; ma con l’autocoscienza e la prospettiva rovesciata offerta dalla forza del negativo diviene flagrante il riproporsi della separazione e della contraddizione, precisamente nel luogo in cui la coincidenza tra volontà generale e volontà particolare avrebbe dovuto esaurirsi in perfetta e compiuta identità. Inchiodato alla sua concreta singolarità, ogni volta che il cittadino pronuncia la sua volontà nella forma della generalità della legge, si ritrova poi a subirla come una rappresentazione non sua.

C’è un passo del Contratto sociale che, a mio parere, rivela perfettamente il momento in cui estraneazione e separazione rinascono: «Spesso c’è molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale: questa considera soltanto l’interesse comune; l’altra ha di mira l’interesse privato, e non è che una somma di volontà particolari; ma togliete da queste stesse volontà il più e il meno che si annullano reciprocamente, resta, come somma delle differenze, la volontà generale» (18). Simile al Dio della teologia negativa, definito e conosciuto mordendo la piega della sua indefinibilità, così la volontà generale trova pienezza assommando i vuoti lasciati da una sottrazione: dalle ceneri delle volontà particolari spira il fumo sacrificale che incorona la volontà generale come intangibile e onnipotente vuoto pneumatico. Hegel, intuendo precisamente il meccanismo sacrificale che orchestra tale metafisica ascensione verso l’unità, invoca allusivamente, dietro l’idea di Unità onnicomprensiva della rivoluzione, l’unità molto più concreta e puntuale nella figura di Napoleone: «Affinché l’universale giunga a un atto, è necessario che si concentri nell’Uno dell’individualità e che collochi al vertice un’autocoscienza singola; la volontà universale, infatti, è volontà reale solo in un Sé che è Uno. In tal modo, però, tutti gli altri singoli sono esclusi dal Tutto di questo atto e vi giocano soltanto un ruolo limitato, e quindi l’atto non sarebbe atto dell’autocoscienza universale reale» (19).

Un elementare chiasmo regola dunque il rapporto che intercorre tra volontà generale e volontà particolare, autocoscienza universale e autocoscienza particolare: ogni volta che la coscienza singolare ha di mira l’astratta generalità della coscienza universale, la quale vorrebbe concretizzarsi e incarnarsi in opera duratura e permanente, accade che la prima si smarrisce per strada mentre la seconda non riesce a realizzare la concretezza desiderata (la coscienza singolare si ritrova così inchiodata alla sua caduca e relativa condizione mentre la coscienza universale aleggia fantasmatica nel cielo del dover essere senza trovare aggancio terreno). Ciò che davvero significativamente resta è, in sostanza, la lacerante separazione: la legge della reciprocità, che regola le due volontà in gioco, in fondo, è un’economia in cui l’essere della volontà generale coincide con il non-essere della volontà particolare.

Il fatto che il plus di potenza e coercizione del corpo sovrano si concretizzi precisamente a partire dal vuoto lasciato dalla sottrazione delle volontà particolari rivela con una sola combinazione concettuale l’essenza puramente immaginale e rappresentativa della volontà generale: ossia, precisamente, ciò che il dispositivo sovrano di Rousseau intendeva esorcizzare, lasciando posto all’indivisibile univocità che, tramite emanazione, avrebbe dovuto innervare con la sua volontà e con la sua legge l’intera realtà. È ancora Hegel che inquadra la questione della rappresentanza/rappresentazione come il perpetuo rifiorire della separazione e della differenza che non permette di legare universale e particolare quando sostiene che: «L’autocoscienza, quindi, non si lascia privare della realtà, non si lascia ingannare dalla rappresentazione dell’obbedienza a leggi auto-istituite che le assegnerebbero solo una parte, né dalla sua rappresentanza nella legislazione e nell’attività universale; essa non si lascia spogliare della realtà che consiste nel dare essa stessa le leggi e nel portare essa stessa a compimento un’opera singolare, bensì l’opera universale. Infatti, quando si trova solo nella forma della rappresentanza e della rappresentazione, il Sé non è reale: dove c’è qualcuno che sia il rappresentante del Sé, non c’è il Sé» (20).

Portare alla luce la qualità tipicamente immaginale e rappresentativa della volontà generale significa quindi rievocare il demone della separazione che il dispositivo sovrano ideato da Rousseau desiderava tumulare definitivamente nell’arcano del suo funzionamento. Quando la coscienza universale impostasi come libertà astratta decide di realizzarsi in opera, di rendersi quindi, in quanto sostanza universale, oggetto e essere permanente, necessariamente tornano a riconfigurarsi limiti e resistenze: diventando oggetto storico, il destino della coscienza universale è quello di perdere la sua universalità ed insieme quello di ritrovare e patire lo scandalo della particolarità. Facendosi sostanza essente (un altro dei termini impiegati da Hegel), la coscienza universale porta quindi fatalmente con sé e in sé un ineludibile essere-altro che, con la sua ostinata resistenza, continuerà a rigermogliare come differenza interna ed esterna, come testimonianza dell’impossibilità di rendere universale ed eterno il particolare e il contingente.


Il momento dell’autocoscienza, semplicemente, drammatizza tale comprensione, rivelandone causa e conseguenze. Il fatto è che, secondo l’ermeneutica girardiana, la sublime e astratta pienezza della coscienza universale esercita per se stessa e per la realtà (esistente nel suo ineludibile essere-altro) il tirannico ruolo di modello-ostacolo. Quanto più risplende nella sua eterea e rarefatta qualità immaginale, tanto più concreta e violenta sarà l’idolatria generata e proiettata sulla realtà e, di conseguenza, l’allergia verso la differenza nella sua ultima e radicale concretezza, in quanto traccia che contamina l’intangibile perfezione dell’immagine. Nello svolgersi del movimento spirituale tracciato da Hegel, diventa tuttavia chiarissimo che, in fondo, coscienza universale come libertà astratta e realtà nel suo elemento particolare siano catturati e plasmati dal medesimo scandalo: per questo motivo la trappola immaginaria che avvolge, nel tentativo di realizzazione dell’Unità onnicomprensiva, coscienza universale e realtà irriducibilmente relativa, è contemporaneamente rivolta alla negazione dell’altro e alla distruzione di se stessa. Con toni più fantasmagorici e apocalittici, Hegel continua a cogliere con precisione la sostanza delle cose: «La libertà universale [sintagma che, nel momento dell’autocoscienza, riconosce al contempo libertà astratta come posizione della coscienza e volontà universale come essenza della sua realizzazione, nda], dunque, non può produrre nessuna opera e nessun atto positivi, e le resta soltanto l’attività negativa. La libertà universale è soltanto la furia del dileguare» (21).

Non resta che chiedersi: contro chi si scaglia la forza annichilente della libertà universale? Chi viene sommerso dai marosi del dileguare? In senso generalissimo dovremmo semplicemente ribadire la risposta che lo stesso Hegel ci ha invitato a considerare: l’incapacità di realizzare e incarnare l’universale in un atto e un’opera effettivamente positivi, costringe la libertà astratta, preda della mediazione esercitata dal modello dell’unità onnicomprensiva quale piena ed insieme pneumatica realizzazione del dover essere della coscienza, ad esorcizzare lo scandalo del proprio fallimento annichilendo ed espellendo da se stessa e da ogni essere-altro qualsiasi elemento reale, singolare, particolare, effettiva traccia di una resistenza. Ma non sarebbe sufficiente.

È necessario riproporre la più concreta impostazione schmittiana per esaurire il significato metafisico della domanda: chi è dunque il nemico interno? Chi è il nemico esterno? Per ciò che riguarda il nemico interno, alcuni passaggi del Contratto sociale offrono al lettore notevoli spunti per inquadrare la natura del dileguare, una volta inserito nell’esercizio del dispositivo sovrano. Rousseau è particolarmente illustrativo in tal senso perché nelle sue pagine è perfettamente riconoscibile la simmetria che lega punizione e prevenzione, espulsione e inclusione (insomma, uno schema che dal repressivo si slancia verso un ordine disciplinare), al netto delle notevoli ambiguità e contraddizioni non completamente esaurite dal testo (22). All’interno del Libro II, Rousseau colloca il capitolo dedicato a Il diritto di vita e di morte: un capitoletto a dir poco controverso, tanto che lo stesso ginevrino, come ha opportunamente segnalato Derrida, ammette, forse in piena sincerità forse con sottile ironia, che sarebbe meglio lasciare «discutere questi problemi all’uomo giusto che, non avendo mai sbagliato, non ha mai avuto bisogno di grazia» (23).

«Il patto sociale ha per fine la conservazione dei contraenti. Chi vuole il fine vuole anche i mezzi; e questi mezzi sono inseparabili da alcuni rischi, e anche da alcune perdite. Chi vuole conservare la vita con l’aiuto degli altri deve anche, quando occorra, darla per loro. Ora, il cittadino non è più giudice del pericolo al quale la legge vuole che egli si esponga; e quando il principe [il potere esecutivo quindi, non il corpo sovrano, nda] dice: “Allo Stato occorre che tu muoia”, egli deve morire, perché è solo a questa condizione che ha vissuto fino ad allora in sicurezza, e perché la sua vita non è più solo un favore della natura, ma un dono condizionato dello Stato.

La pena di morte inflitta ai criminali può essere considerata pressapoco sotto lo stesso punto di vista: è per non essere vittima di un assassino che si acconsente a morire se tale si diventa. In questo patto, lungi dal disporre della propria vita, si pensa soltanto a garantirla; e non è da presumere che qualcuno dei contraenti premediti allora di farsi impiccare.

D’altronde, ogni malfattore, violando il diritto sociale, diventa coi suoi misfatti ribelle e traditore verso la patria; egli cessa di farne parte violando le sue leggi, anzi le dichiara guerra. In tal caso la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca; e, quando si fa morire il colpevole, lo si uccide non tanto come cittadino, quanto come nemico. Le procedure, il giudizio, sono le prove e la dichiarazione che egli ha infranto il patto sociale, e che di conseguenza egli non è più membro dello Stato. Ora, siccome è riconosciuto tale, se non altro per la sua residenza, deve essere eliminato, o con l’esilio come trasgressore del patto, o con la morte come nemico pubblico; perché un tale nemico non è una persona morale, ma soltanto un uomo; e in questo caso è diritto di guerra uccidere il vinto» (24).

Pagine come queste andrebbero tematizzate e interpretate lungamente. Tuttavia, ai fini del presente discorso, vorrei sottolineare solo due aspetti:

1- seguendo lo schema di pensiero e il lessico codificato da Giorgio Agamben in Homo sacer – Il potere sovrano e la nuda vita, ci accorgiamo che in questo passaggio Rousseau configura perfettamente la condizione della nuda vita del non-cittadino ma insieme non-suddito letteralmente abbandonato ed esposto ad un eccezionale potere di vita e di morte: tale esistenza messa al bando si trova avviluppata e catturata in una zona d’indifferenza discernibile solo attraverso una decisione sovrana in grado di ripristinare il significato della differenza tra amico e nemico. «Sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera» (25). Di fronte al continuo ripetersi del caso d’eccezione, nel quale il corpo sovrano dedito alla totalizzante emanazione della sua volontà generale può ritrovarsi a giudicare dell’indecidibile situazione della resistente volontà particolare, Rousseau, con un vertiginoso salto mortale, trova il modo di invertire le consuete polarità del meccanismo di sacralizzazione della vittima, pur mantenendone inalterata la struttura. L’individuo dichiarato non-cittadino e non-suddito dal corpo legislativo (ricordando che la volontà generale dovrebbe esprimersi unicamente in materia di utilità pubblica ma, al contempo, ciò che viene riconosciuto come materia di utilità pubblica è prerogativa del corpo legislativo stesso, quindi potenzialmente soggetto a infinita rimodulazione) viene bandito come nuda vita impunemente uccidibile proprio perché trasformato in nemico pubblico. La violenza che subisce coincide con la violenza della comunità nel suo insieme: la produzione di una vittima invendicabile si traduce automaticamente nella sacralizzazione della comunità dei linciatori che, nell’esercizio del potere legale, ritrovano la compatta perfezione del corpo mistico ed insieme la stabilizzazione della sua trascendenza giuridica rispetto alla comunità di individui. Ma Rousseau non si dimostra unicamente cosciente del processo vittimario sempre ri-fondativo della sovranità sul versante comunitario; infatti, nella piena consapevolezza che non tutte le morti hanno il medesimo valore, neanche troppo velatamente Rousseau suggerisce che una perfetta sacralizzazione della vittima avviene quando è il corpo sovrano che ingiunge al cittadino “è necessario che tu muoia”, riducendolo a nuda vita massicciamente spendibile nel carnaio dei campi di battaglia: la singolarità della vittima è in questo caso sacra perché, nel suo anonimo morire, risuona immediatamente e totalmente la voce della volontà generale, della comunità riunita.

2- In Rousseau pare sia in atto una duplice azione di permeazione linguistica che attraversa due differenti aspetti della sovranità rendendoli sostanzialmente indistinti: così come sul fronte dell’eliminazione della differenza interna (la fronda infetta che deve essere recisa per permettere la rigenerazione di un corpo comunitario purificato) avviene una militarizzazione della legge e del suo funzionamento (per cui, ad esempio, un malfattore viene giudicato e riconosciuto nemico pubblico e punito seguendo uno schema desunto dal diritto di guerra), su quello dello scontro con la differenza esterna, grazie a personaggi come Cloots e Brissot, rientrerà sulla scena storica una giuridificazione della guerra, non però nel senso di una regolamentazione dello jus in bello o di una limitazione dello jus ad bellum, piuttosto inerente la ripresa della justa causa utilizzata in modo discriminatorio contro un nemico che non viene riconosciuto giuridicamente e politicamente ma squalificato e sanzionato moralmente.


Il lato punitivo e repressivo della Civitas rousseauiana, come è facilmente intuibile, adombra una serie di istituti penali che richiamano più o meno direttamente l’ostracismo ateniese o la sacratio romana. Anche sul versante preventivo, la produzione del perfetto cittadino prende corpo all’interno di un recupero e di una rivalutazione della teocrazia comunitaria, modello e motore di un ordine disciplinare che testimonia l’effettivo passaggio ad una politicizzazione integrale della dimensione privata, interiore, morale dell’individuo. È infatti degno di nota il fatto che Il contratto sociale venga sostanzialmente concluso da Rousseau con un corposo capitolo dedicato alla religione civile. In effetti, di un vero e proprio culto si tratta: una religione morale che pretende la totalità del Sé e non può accettare la possibilità di una adesione solamente parziale alla teocrazia comunitaria; la comunità aspira a un disciplinamento integrale dell’individuo, così da condurlo all’espropriazione di ogni legame che egli manteneva con se stesso e rivolgeva verso se stesso, simile a una silenziosa abiura in grado di mondarlo e trasformarlo in cittadino di una eletta comunità di giusti.

Il capitolo dedicato alla religione civile è una conclusione perfettamente coerente rispetto allo svolgimento del Libro IV, in cui si assiste, per ciò che attiene l’esecuzione del potere, ad una ripresa di istituzioni e magistrature dell’antica Roma repubblicana. Richiamandosi sempre più frequentemente ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, la fascinazione verso il pensiero di Machiavelli è manifesta sia per la lode verso le magistrature e le virtù civili romane ritenute depositarie di gloria imperitura ma anche per la feroce critica alla religione cristiana (veramente consonante alle parole contenute nei Discorsi). Una repubblica cristiana sarebbe infatti un’irrisolvibile contraddizione: la proiezione sovrastorica del Regno finirebbe per erodere la forza dell’umana virtù, toglierebbe energia sacra per la glorificazione del corpo politico, immagine vivente della volontà generale realizzata.

Al di là quindi dell’ordine pubblico amministrato da governo e magistrature, occorre quindi una professione di fede capace di esaurire ogni residuo interiore facendolo tracimare nella comunità degli eletti formata da cittadini privati della propria individualità: «Vi è dunque una professione di fede puramente civile, di cui spetta al corpo sovrano fissare gli articoli, non già precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socialità, senza i quali è impossibile essere buoni cittadini e sudditi fedeli. Senza poter costringere nessuno a credervi, esso può bandire dallo Stato chiunque non vi creda; può bandirlo non in quanto empio, ma in quanto asociale, in quanto incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di immolare, se occorra, la sua vita al dovere. E se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente questi stessi dogmi, si comportasse come se non ci credesse, sia punito con la morte: egli ha commesso il peggiore dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi» (26).

Disciplinare è l’ordine che previene l’insorgere possibile di una differenza interna in grado di resistere: l’idea di una religione civile è particolarmente potente perché, facendo combaciare pericolosamente trascendenza e immanenza e presentandosi come neutro contenuto morale rivolto ai fini dell’utilità pubblica, in realtà iper-politicizza l’esistenza del singolo rivolgendogli contro e incorporando in lui la guerra civile e lo scontro di potere che sarebbero in atto all’esterno se solo l’individuo potesse esprimere una differenza riconosciuta e non, al limite, tollerata. Perché, in fondo, l’obiettivo di un corpo sovrano i cui valori si esprimono in qualcosa come una religione civile, è una pedagogia disciplinare che proceda ben oltre l’emulazione di un modello: tollerare non è sufficiente; al contrario, diviene necessaria una profonda intolleranza (27) verso la propria interiorità, verso il segreto custodito dalla propria irriducibile, unica e ultima voce di estraneità-al e differenza-dal corpo politico comunitario.

Hegel, dimostrando con consequenziale precisione che la disincarnata comunità dei giusti (immagine vivente della coscienza come libertà astratta realizzata in volontà universale) diventa reale solo trasformandosi in fazione di governo, riproponendo quindi una polarizzazione politica aggravata dal contenuto valoriale e morale che precede e informa la relazione con l’altro, indaga il collasso della dimensione interiore, o meglio, l’impossibilità di un’interiorità effettivamente altra e differente rispetto al modello esercitato dall’astratta coscienza comunitaria. «Se la volontà universale si attiene all’azione reale del governo come al crimine che questo commette contro essa, il governo per contro non ha nulla di determinato e di esterno con cui raffigurarsi la colpa della volontà che gli si oppone; dinanzi al governo inteso come volontà universale reale, infatti, sta soltanto la volontà pura e non reale, cioè l’intenzione. Qui allora il divenire-sospetto ha il significato e l’effetto dell’essere-colpevole, ne prende il posto; la reazione esteriore contro questa realtà, la quale risiede nell’Interno semplice dell’intenzione, consiste nell’eliminazione fredda e spietata di questo Sé essente, al quale non si può togliere altro se non appunto il suo essere» (28). Ecco perché il destino e la risposta ultima della libertà astratta, nel suo impossibile e scandalizzato tentativo di realizzarsi come corpo comunitario disincarnato, conserverà sempre la traccia asettica e chirurgica della ghigliottina come fantasma riservato alla differenza interna: «L’unica opera e l’unico atto della libertà universale è perciò la morte e, più propriamente, una morte che non ha nessun ampiezza e nessun riempimento interno: ciò che viene negato, infatti, è il punto senza riempimento, è il punto del Sé assolutamente libero. Questa morte è dunque la morte più fredda e più piatta, senza altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di bere un sorso d’acqua» (29).




***

(1) Con funerea ironia, Hegel descrive così la responsabilità della libertà assoluta nella desertificazione della trascendenza: «L’Aldilà di questa realtà della coscienza aleggia sul cadavere della scomparsa autonomia dell’essere reale e di quello della fede, aleggia semplicemente come l’effluvio di un gas inerte, come l’esalazione del vuoto Être suprême»; Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (Introduzione, traduzione e note di Vincenzo Cicero), Rusconi, Milano, 1999, p. 787.

(2) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 783.

(3) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 783.

(4) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 785.

(5) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 785.

(6) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, Feltrinelli, Milano, 2006.

(7) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale (trad. di Alberto Burgio, note di Andrea Marchili), Feltrinelli, Milano, 2009, p. 79.

(8) Sarebbe necessario un lavoro più strutturato sulla funzione del sacro, inteso in un senso eminentemente girardiano, con particolare riferimento al funzionamento del transfert che lega vittimizzazione del singolo e comunità o corpo sovrano divinizzato, presente nel Contratto sociale. Mi limito qui in nota a segnalare il gioco di somme e sottrazioni, rinunce-perdite e guadagni, unito all’utilizzo strategico di “ciascuno”, “tutti”, “tutto” e “nessuno” (replicato con perizia da Hegel), che anima, tra le tante, questa pagina dedicata alla soddisfazione delle clausole necessarie ad adempiere completamente il miracolo di ingegneria politica immaginato da Rousseau: «In primo luogo, infatti, poiché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è eguale per tutti; e poiché la condizione è eguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. Inoltre, poiché questa alienazione si fa senza riserve, l’unione è la più perfetta possibile, e nessun associato ha più niente da rivendicare. Infatti, se restasse qualche diritto ai singoli, siccome non ci sarebbe nessun superiore comune in grado di fare da arbitro tra loro e la collettività, ciascuno, essendo su qualche punto giudice di se stesso, pretenderebbe ben presto di esserlo su tutti; lo stato di natura si perpetuerebbe, e l’associazione diverrebbe necessariamente o tirannica o inutile.

Infine, chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non riacquisti lo stesso diritto che egli cede su se stesso, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde, e maggior forza per conservare ciò che si ha»; Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 79-80.

(9) Assolutamente necessaria per inquadrare il problema Rousseau quantomeno la lettura di Roberto Esposito, Categorie dell'impolitico, Il Mulino, Bologna, 1999; Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, 2006; Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002.

(10) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, p. 80.

(11) Cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 787.

(12) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 787.

(13) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, p. 83.

(14) In margine annotiamo, infatti, che, nel Leviatano, Hobbes palesava una fascinazione per il corpo politico immaginato come grande meccanismo, riproduzione artificiale della natura, automa; con Rousseau, invece, attraverso l’ostensione della metafora organicistica utilizzata in tutta la sua ricchezza concettuale, assistiamo al contrario ad una ripresa dell’idea dello Stato come grande uomo ma non tanto nel senso dell’immagine colossale (che anche il Leviatano riprende nel suo frontespizio) quanto piuttosto nella compatta unità e comunicazione degli organi interni. Di conseguenza, platonicamente, acquisterà un diverso valore la totale dipendenza che gli organi istituzionali e governativi ricaveranno da istanze gerarchiche superiori.

(15) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, pp. 83-84-85.

(16) Cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, pp. 787-789.

(17) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 789.

(18) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, p. 97.

(19) Cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 791.

(20) Cfr. Hegel, Ibidem, pp. 789-791.

(21) Cfr. Hegel, Ibidem, p. 791.

(22) Ad esempio, nelle pagine che ora richiamerò, è palese che il tentativo di Rousseau di vincolare e limitare il potere del legislativo a decisioni attinenti il bene comune, così da informare il concetto di giustizia distribuendo con simmetrica reciprocità oneri e benefici, fornisca in realtà il perfetto meccanismo d’esercizio legale di una violenza sacrificale costantemente sbilanciata verso l’estrema polarizzazione del tutti contro uno, sempre coincidente con il momento schmittiano dell’eccezione. È sempre la resistenza dell’elemento particolare, con la sua volontà particolare non allineata, non innervata dal corpo mistico comunitario, che va a configurarsi precisamente come pietra dello scandalo, tanto ostacolante quanto consustanziale nel suo essere il rovescio della purezza del corpo sovrano: «Si è convenuto che tutto ciò che ciascuno col patto sociale aliena del suo potere, dei suoi beni, della sua libertà, è unicamente la parte di tutto ciò il cui uso è importante per la comunità; ma bisogna anche convenire che il solo corpo sovrano è giudice di questa importanza.

Tutti i servigi che un cittadino può rendere allo Stato sono da lui dovuti appena il corpo sovrano glieli richieda; ma il corpo sovrano, da parte sua, non può caricare i sudditi di nessuna catena che sia inutile alla comunità; non può nemmeno volerlo (…) Gli impegni che ci legano al corpo sociale non sono obbligatori se non in quanto sono reciproci; (…) Per quale ragione la volontà generale è sempre retta, e tutti vogliono costantemente la felicità di ciascuno di loro, se non perché non c’è nessuno che non si appropri di questa parola ciascuno, e che nel voltare per tutti non pensi a se stesso? (…) la volontà generale (…) perde la sua rettitudine naturale quando tende a qualche oggetto individuale e determinato; perché allora, giudicando di ciò che ci è estraneo, non abbiamo alcun vero principio di equità che ci guidi.

In effetti, non appena si tratti di un fatto o di un diritto particolare riguardante un punto che non è stato regolato da una convenzione generale e anteriore, la questione diviene controversa. È un processo in cui i singoli interessati costituiscono una delle parti, e la collettività l’altra; ma nel quale non vedo né la legge da seguire, né il giudice che deve decidere.

(…) Come una volontà particolare non può rappresentare la volontà generale, così questa, a sua volta, cambia natura se assume un obiettivo particolare, e non può quindi, in quanto generale, pronunciarsi né su un determinato uomo, né su un singolo fatto»; Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, pp. 100-101.

(23) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Ibidem, p. 106.

(24) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Ibidem, pp. 104-105.

(25) Cfr. Giorgio Agamben, Homo Sacer I - Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 2005.

(26) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, pp. 233-234.

(27) «Coloro che distinguono l’intolleranza civile dall’intolleranza teologica a mio avviso s’ingannano. Questi due tipi d’intolleranza sono inseparabili. È impossibile vivere in pace con gente che consideriamo dannata; amarla sarebbe odiare Dio che la punisce; bisogna assolutamente convertirla o tormentarla.»; Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Ibidem, pp. 234-235.

(28) Cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 793.

(29) Cfr. Hegel, Ibidem, pp. 791-793.



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