di Simone Berno
Una passeggiata notturna per le vie del centro concilia riflessioni non distratte dalla folla. Per le vie solo negozi di moda a basso costo, solo vetrine di grandi catene, mistagoghi omologati dello stesso canto alla moda. Certo, per il centro passa tanta gente, ma proprio tanta, e per lo più solo con l'obbiettivo di passarci, perché è dove bisogna essere, lo sfondo che deve comparire dietro i propri selfie, dietro i propri arti nelle pose tutte uguali, a denotare la propria esclusiva differente omologazione. Ma tutti, passando, acquistano anche? E acquistano abbastanza da rendere tutti questi negozi degli esercizi in attivo, anche considerando quanto potrebbe essere il monte spese di un esercizio che occupa una palazzina nelle centrali vie dello struscio?
È abbastanza risaputo, invece, che punti vendita o di esercizio collocati in luoghi come questi sono in verità spesso in perdita; se aggiungiamo la concorrenza di almeno una decina di punti vendita di marchi sì differenti, ma della stessa tipologia di merce, è abbastanza chiaro come non possano essere economicamente in attivo: molto probabilmente, anche per essi vale il noto aneddoto (forse una leggenda metropolitana?) del punto vendita di una infausta catena di fast food in una delle località più iconiche del mondo, che era sempre in perdita, ma tenuto in piedi attraverso il bilancio generale della multinazionale (i profitti di altri punti vendita), perché – pare – che da un lato dovesse contribuire a sottrarre clientela ai punti di ristoro più tradizionali (non vi allarmate o sperate: sono cose che ormai non esistono più da 20 anni, soprattutto dopo l'ondata della moda della ristorazione, un altro bel dispositivo di governo di cui parleremo un'altra volta) e così contribuire allo svuotamento dei centro città dalle piccole proprietà e imprese locali in favore delle proprietà finanziarie internazionali e dei loro clienti; dall'altro volessero mantenere quel punto vendita perché non poteva mancare la propria insegna, la propria presenza in un luogo del genere, essendo già solo questa la migliore pubblicità che potesse pagarsi: l'associazione del proprio logo ad uno dei luoghi più belli del mondo. Insomma: ogni cane vuole marcare della propria presenza i territori.
Questi esercizi anonimi del commercio internazionale sono lì solo perché devono essere presenti. Presenti in cosa? Presenti nelle immagini di centro città e nell'immagine dei loro frequentatori di conseguenza modellata: è questa, infine, ciò che deve essere venduto. Già altrove ci siamo soffermati sull'iperrealtà e su come in essa, secondo la lezione di Baudrillard, l'immagine divenga l'unico piano della realtà e insieme l'unico piano di veridizione, di affermazione del vero e del falso: in essa ogni immagine è tanto verità che realtà, proprio e solo in quanto immagine, perché è venuta meno, è sottratta, una qualche realtà di fondo cui rimandare: sottratta proprio dal rimando reciproco, circolare e infinito delle immagini tra di loro. Nello spirito di una prospettiva di filosofia pragmatica, forse si potrebbe dire che le immagini sono l'unico piano di realtà, perché le azioni da esse suscitate si risolvono soltanto nel rimando continuo ad altre immagini, e nella produzione di altre immagini come dispositivo di realizzazione.
In questo contesto iperreale, i grandi brand si accalcano: devono presenziare in questa competizione nell'iperrealtà. E la città, provinciale nella rivalità mimetica con altre città del mondo, asseconda questa dinamica, producendosi nella smaterializzazione impersonale del vissuto cittadino, risolvendosi in una compulsiva proposta di immagini della propria internazionalmente omologata consistenza urbana, tra le quali primeggiano le immagini del vestirsi, serialmente uguali ma tutte ostentanti differenza romantica, che campeggiano nelle modulari vetrine di queste catene.
Al centro di questa smaterializzazione abbiamo quindi proprio le vetrine. Ma, attenzione: come funzionano attualmente queste vetrine?
Nella quasi totalità di questi punti vendita, le vetrine sono spesso finestre sull'interno dei negozi. Le vetrine, per lo più, non hanno lo sfondo neutro su cui si staglia il manichino: chi ha qualche decennio alle spalle, ricorda come una volta le vetrine fossero quasi dei piccoli diorami di scene di vita ideale e quotidiana, topoi della vita borghese, nelle quali i manichini ivi disposti facevano segno a una forma umana impersonale ma allusiva a modelli narrativi d'esistenza da desiderare, da imitare. In queste nuove vetrine-finestre, che stuzzicano un simmetrico voyeurismo, è invece il consumatore stesso ciò che può essere osservato dall'esterno nel suo muoversi dentro il negozio: è il consumatore stesso che diviene un manichino vivente, cioè il portatore vivente di quell'identità da imitare. Coloro che stanno acquistando presentati inconsapevolmente come modelli di vite esemplari, in quanto consumatori esemplari. Perché il modello da imitare è ora direttamente quello proprio di una identità di consumo nel suo atto di consumo. Non c'è più neanche un'allusione a un modello di identità completa, realizzata in un orizzonte panoramico del quotidiano, raffigurata una volta da quei grossolani diorami e manichini: ora è il momento stesso del consumo il fine, il topos unico ed imperante che afferma e realizza l'identità individuale.
Divenuto quindi immagine di un modello da imitare, il consumatore nella vetrina diviene dispositivo che riproduce e rilancia per i passanti la rivalità mimetica in immagini.
Qualcosa di analogo possiamo vederlo nelle caffetterie, in cui le vetrate aprono allo spettacolo del consumo dei clienti, i quali spesso si trovano lì dopo aver gareggiato per apparire in queste ambientazioni in cui mettere in scena la propria vita sociale o il proprio lavorare o studiare al tavolino.
Nei bar non c'è più infatti il dispositivo dell'immagine nascosta: attingendo anche qui a ricordi lontani, una volta era possibile vedere nei bar dei separé o, dall'esterno, vetrine variamente oscurate, opacizzate fino all'altezza di circa un metro e mezzo, sufficiente per garantire la discrezione di chi dentro fosse seduto ai tavolini. Queste vecchie abitudini potrebbero essere lette come un dispositivo di sottrazione dell'immagine dell'avventore, come presentazione della sua immagine quale persona che ha una riservatezza, una sacralità da condividere soltanto con pochi e in spazi riservati, separati. Quanto è adesso diffuso sembra invece rispondere a un dispositivo dell'immagine opposto: l'identità è tanto più realizzata quanto più può esibirsi in qualsiasi contesto come modello da imitare, e può e deve pertanto recarsi a presenziare nei diorami iperreali delle sale delle caffetterie o affini, per mostrarsi lavorare, studiare, fare tutt'altro di cui il consumo di bevande è solo corredo, al massimo funzione agglutinante.
Vediamo allora come la vetrina non denoti solo il posto dove il brand o la catena deve essere, nella proliferazione in immagini della città, ma anche il luogo dove l'individualità-consumatore deve essere come prova della propria esistenza in quella proliferazione di immagini, la quale suscita su entrambi i piani la compulsione all'imitazione delle immagini correnti.
Nell'iperrealtà lo schermo è superficie di attualizzazione dell'identità, della realtà stessa; non solo: è la dimensione della realtà stessa. Superficie di attualizzazione a partire dalle singolarità che ivi si agglutinano in forme d'identità. Le vetrate di tutti questi esercizi sono allora come schermi su cui si attualizza la vita iperreale tanto dei consumatori quanto dei brand.
La vetrina è quindi uno schermo, e agglutina le singolarità desideranti mimetiche.
Ma la natura dispositiva di queste vetrine è molteplice: da un lato sono schermo come superficie di attualizzazione; da un altro, sono schermo come superficie che suscita il desiderio mimetico, mostrando l'immagine da imitare, suggerendo così in coloro che ne sono fuori l'imitazione degli individui visti dentro il negozio e del loro desiderio, l'imitazione cioè della loro forma di vita di consumatore (ricordiamo che, girardianamente, ciò che si desidera non è in realtà l'oggetto altrui: si imita il suo desiderio dell'oggetto, per mutuare l'identità di colui che si dimostra in grado di ottenere tale oggetto. Quindi ciò che è desiderato è di essere come colui di cui imitiamo il desiderio).
Da un ultimo lato, infine, la natura dispositiva di queste vetrine è di essere schermo come superficie di osservazione a doppia direzione, ed è su quest'ultima che vorremmo soffermarci qualche altra riga:
La vetrina è dispositivo di osservazione della vita di coloro che fanno esercizio di consumo, ma è anche dispositivo di osservazione di colore che fuori passano e osservano. Ma in che modo svolge questa seconda funzione?
Colui che si trova all'esterno di quelle vetrine, è disposto, in relazione alla funzione di consumo, in base alla sua differenza rispetto a colui che si dimena all'interno della vetrina: è individualizzato per questa differenza (cioè come colui che non acquista), ma questa individualizzazione produce un sapere di sé: sapere di non essere in quel momento come colui che sta vedendo all'interno della vetrina è sapere di essere in quel momento privo della conferma della propria identità di uomo consumatore – declinazione della pienezza ontologica di cui parla Girard. Questa consapevolezza è tradotta in una osservazione di sé. Abbiamo quindi un sapere di sé che porta a osservarsi, e a vedersi come soggetto mancante, discepolo del modello che dall'altra parte si mostra in grado di consumare.
Ricordando le osservazioni di Foucault in Sorvegliare e Punire riguardo il panopticon, la vetrina diventa dispositivo panoptico di osservazione, quel dispositivo panoptico il cui potente e più profondo panoptismo non è semplicemente nella moltiplicazione delle superfici di osservazione, ma nella loro introiezione nello sguardo dei soggetti che devono essere assoggettati: nell'analisi di Foucault, il panoptismo è un dispositivo che produce, per la consapevolezza di essere costantemente osservato, una costante auto-osservazione e, quindi, la corrispettiva auto-normalizzazione; le vetrine divengono quindi le molteplici e disperse superfici di osservazione di sé, attraverso le quali ognuno si fa guardia di se stesso – omnes et singulatim – e l'auto-osservazione produce l'ortopedizzante sapere di sé, che implementa la forma soggetto-compiuta del discorso in cui siamo immersi: l'uomo consumatore, in primo luogo, dell'immagine di sé.
La città che si avvia ad assecondare questa deriva, decide di fare di sé il non-luogo contenitore di questa messa in scena iperreale, di fare degli spazi e degli esercizi commerciali non più il luogo di una costruzione di una vita materiale che potrebbe ottimisticamente tendere al proprio miglioramento, ma l'arena di una rarefazione in immagine di questa, e di una sua sostituzione in un differimento continuo, di immagine in immagine, dell'incontro con la sua dimensione concreta e temporale.
Per questo; «grazie, non compro niente», «I would prefer not to».
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