Una svolta decisiva negli studi dei miti è stata indubbiamente quella di introdurre il metodo comparativo. Da quel momento qualsiasi tesi non è più fondata su un caso, un elemento arbitrario, ma argomentata attraverso una certa ripetitività in molteplici esempi, che viene riconosciuta ingiustificabile in altro modo. Questo metodo però, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, pur conservando il suo rigore, può essere in realtà sfruttato da più di un approccio, come di fatto è successo nell’ultimo secolo. Viene perciò da chiedersi quale possa essere quello corretto, o più completo, preferibile rispetto agli altri.
Ernst Cassirer nel secondo volume di Filosofia delle forme simboliche, Il pensiero mitico (1925), ha ripreso un approccio critico-trascendentale per individuare le strutture formali di tutte le produzioni mitiche. Paul Ricoeur in Finitudine e colpa (1960) ne ha utilizzato uno esegetico-ermeneutico per identificare diverse tappe dell’autocoscienza umana a partire dal ricorrente problema del male nelle narrazioni mitiche. René Girard in La violenza e il sacro (1972) ha utilizzato quello strutturalista per indicare il meccanismo del capro espiatorio come origine ultima della violenza sacralizzata, misconosciuta ma documentata, nei racconti mitici.
Questi tre studiosi (benché forse non siano stati gli unici) hanno tutti raggiunto risultati fondamentali, ma come metterli in relazione? Uno non prosegue né confuta il lavoro del precedente: hanno approcci diversi che portano a conclusioni diverse; in altri termini sono prospettive diverse. E sono alternative l’una all’altra?
Prima di rispondere è utile capovolgere la domanda per cogliere un dato decisivo: una sola delle tre prospettive (non tanto i risultati del singolo, avesse pure tempo infinito per perfezionarli) è in grado di esaurire la comprensione di un mito, qualsiasi esso sia? Si accusa quella di Cassirer di formalismo, quella di Ricoeur di soggettivismo e quella di Girard di riduzionismo, proprio perché si intuisce che un mito non è né solo le sue categorie né solo l’espressione di un’autocoscienza né solo la sua origine. Ma dire che non è “solo” non significa dire che nessuna di queste prospettive lo comprendono, al contrario che servono tutte (ed eventualmente non solo loro) per una comprensione esauriente.
Introduciamo così la soluzione proposta dalla meta-riflessione proprio di uno dei tre studiosi, Ricoeur, nell’opera Il conflitto delle interpretazioni (1969). Prospettive diverse possono coesistere, non riducendosi a una né dissolvendo l’oggetto, al contrario riconoscendosi come punti di vista diversi che comprendono dimensioni diverse dello stesso oggetto (perciò riduzionista non è la teoria di Girard, ma eventualmente Girard stesso quando riflette su di essa). Quindi non solo sono tutti leciti, ma addirittura necessari. Cosa significa?
Solo al punto di vista formale si mostrano le categorie del mito, solo a quello archeologico la sua origine, solo a quello escatologico (il termine è ricoeuriano e affine a quello hegeliano di teleologia per il fatto che identifica tappe che tendono verso una direzione, ma se ne distingue perché non afferma alcuna necessità che esse si verifichino e in definitiva non stabilisce nemmeno quale sia il fine ultimo) l’autocoscienza di chi lo racconta. Nessuno può svolgere il ruolo di un altro (anche se uno studioso può occuparsi di più di uno): lo dimostra innanzitutto la diversità di approccio.
È soprattutto il secondo e terzo punto di vista che non sembrano poter coesistere, perché si pongono entrambi su un piano diacronico, mentre il primo non “interferisce” rimanendo su quello sincronico e trascendentale. Ma a ben guardare nemmeno loro entrano in conflitto: uno guarda “indietro”, a ciò ha preceduto un dato mito, l’altro guarda “avanti”, a ciò che ne è seguito. Quanto al fatto che uno è necessario all’altro lo si evince più chiaramente se si recupera un caso concreto.
È lo stesso Girard ad ammettere un certo livello di autocoscienza da parte di Sofocle ed Euripide senza approfondirne le ragioni, perché il suo sguardo è rivolto alla dimensione archeologica. Ricoeur invece riflette sull’importanza di mettere in scena quello che non a caso chiamiamo il “dramma” umano, di dare parola, dare voce alla vittima del dramma, che è un elemento proprio e fondamentale di questo genere letterario, senza approfondirne l’origine, perché il suo sguardo è rivolto alla dimensione escatologica.
Al posto di intralciarsi le due dimensioni, pur restando irriducibilmente distinte, si ritrovano ad essere complementari nel loro obiettivo. Senza l’archeologia non si arriverebbe mai a determinare ciò di cui si prende coscienza: infatti Ricoeur resta vago sul tema del male, su ciò di cui l’uomo impara ad attribuirsi la colpa; senza l’escatologia non si spiegherebbero le tappe che hanno portato alla scoperta dell’origine: infatti Girard deve limitarsi alla solita attribuzione di una speciale “genialità” di alcuni Greci, in questo caso dei tragediografi.
Perché è tanto importante accettare questa complementarietà? Essendo sul piano della diacronia, si comprende ogni racconto all’interno di due schemi di tappe molto diversi. Girard osserva un progressivo dissiparsi degli indizi dell’origine e vede come eccezioni i narratori che sono rivelatori; Ricoeur riconosce nella stessa storia dei miti un appropriarsi di una serie di problemi, frutto di un’autocoscienza sempre maggiore.
Alla luce di quanto argomentato non abbiamo difficoltà ad accettare che nessuno dei due si sbaglia: in linea generale (non senza eccezioni) è innegabile che nel tempo l’origine in quanto tale, come evento storicamente accaduto, ha perso importanza, ma al suo posto è diventato sempre più fondamentale il dramma della natura umana. A partire dal dramma l’interesse per l’origine può essere riguadagnato, per di più con un’autocoscienza più consapevole: lo dimostrano proprio i tragediografi, tanto cari sia a Ricoeur che a Girard, e ancora di più Andersen di cui ci siamo noi occupati.
In futuro approfondiremo una delle ultime tappe della storia della letteratura mitica, ovvero Tolkien, e già possiamo iniziare a cogliere perché egli sosteneva che il Vangelo santifica il mito al posto di porgli fine: è il punto di vista escatologico che riconosce come ogni nuovo momento della diacronia riabiliti tutti i precedenti ricomprendendoli come preparatori ad esso, benché naturalmente prima di quello gli altri non potessero essere precursori di niente.
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