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Le moderne fiabe di Andersen | Parte 1: Uno sguardo nuovo rivolto a un dramma antico

Aggiornamento: 19 nov 2020


Nell’articolo L’attualità del mito abbiamo argomentato una tesi e proposto un’ipotesi da sviluppare. La tesi è stata che Girard, così abile nello sviscerare il profondo significato degli antichi miti e fiabe, non vede un futuro per essi, in altri termini non è in grado di spiegare perché nel mondo moderno e contemporaneo ancora ne vengono inventati: infatti l’antropologo non ne ha mai analizzato alcuno di questi.

L’ipotesi è che lui si sbagli. Non solo è un genere letterario di grandissima attualità, ma lo è proprio perché, essendo quello che storicamente ha problematizzato il dramma dell’essere umano, condannato a convivere con il terribile e meraviglioso meccanismo del capro espiatorio (il caso della tragedia greca è il più eclatante, ma a dispetto di quello che si crede, per nulla l’unico), è il miglior candidato a indagare le vie della salvezza. Si diceva provocatoriamente: il destino dell’uomo è legato a quello Dioniso, o si salvano entrambi, oppure sono entrambi condannati.

Prima di approfondire la monumentale opera di J. R. R. Tolkien però, è opportuno confrontarsi con il suo più grande precursore. Se lo scrittore inglese è il padre della mitologia contemporanea (che oggi identifichiamo con il genere fantasy), prima di lui lo scrittore danese Hans Christian Andersen (1805-1875) è stato il padre della fiaba moderna.



Le sue fiabe sono “moderne” in un senso tutt’altro che conforme a quello che intenderebbe il positivismo e il modernismo. Esse non respingono l’antico, ma guardano ad esso; non lo demonizzano né lo ridicolizzano, ma lo prendono profondamente sul serio. Eppure non ne sono succubi: non lo rimpiangono né lo scimmiottano. Insomma lo ereditano nel senso più autentico: lo accolgono con uno sguardo nuovo.

Che il linguaggio di Andersen sia moderno, benché perlopiù ereditato dal mondo antico, lo si evince chiaramente dal fatto che, senza che si scomodasse Girard, già tutti i suoi interpreti hanno, almeno parzialmente, colto il grande tema originale di tutto il suo lavoro: l’attenzione per gli ultimi e gli emarginati. Quello che non hanno capito è quanto questo sia profondamente legato all’antico. Senza riuscire a cogliere il radicato nesso tra le fiabe della tradizione e le nuove che Andersen inventava, si sono dovuti rifugiare, come al solito, nelle giustificazioni di ordine pseudo-psicologico, che ricamano sulla biografia. Non che si voglia sostenere che le esperienze vissute di Andersen non abbiano in alcun modo inciso nella sua opera, ma gli strumenti offerti dagli studi di Girard ci permettono di evidenziare come esse siano semmai servite ad aprire lo sguardo dell’autore – e non autisticamente a limitarlo, assecondando una dinamica tanto cara a una certa ideologia contemporanea –, offrendoci una prospettiva nuova su un dramma tutt’altro che unicamente personale, ma antico quanto “la fondazione del mondo”. In altri termini la teoria girardiana ci aiuta ad apprezzare il grande autore danese non più come un caso clinico, ma come un osservatore privilegiato della realtà.



«“Ha solo due gambe, che miseria”, “Non ha neppure le antenne!”, “È così magra in vita, assomiglia a un essere umano! Com’è brutta!”. Così dissero tutte le maggioline, e dire che Mignolina era in realtà così graziosa! E questo lo pensava anche il maggiolone che l’aveva presa, ma quando tutti gli altri dissero che era brutta, alla fine lo credette anche lui» (H. C. Andersen, Fiabe, Mondadori, Milano 2012, p. 36)


Bastano poche righe della fiaba Mignolina per dimostrare in maniera inequivocabile quanto appena sostenuto. In esse ritroviamo tutto quello a cui Girard ha dovuto dedicare infinite pagine e analisi: mimesi, rivalità, espulsione; scoprendo così che solo chi ha una lucidità di sguardo, una capacità di sintesi e una semplicità di linguaggio fuori dal comune è in grado di inventare una fiaba degna di questo nome. Andersen, centocinquant’anni prima dell’antropologo francese, in un racconto solo apparentemente infantile, ci racconta con disarmante realismo il più terribile dei drammi umani.

Tutta l’eredità della fiaba antica trova corpo nel personaggio del maggiolone, che prima rapisce Mignolina come un giovane dio greco innamorato, ma poi si lascia mimeticamente influenzare dal giudizio della folla di maggioline inviperite. Da sottolineare che egli non si adegua per convenienza, Andersen dice che alla fine anche lui crede nella bruttezza della rapita (non certo per motivi “oggettivi”, come la differenza tra essere umano e lui, visto che poco prima le aveva detto «che era così carina, anche se non assomigliava affatto a un maggiolino»); lo scrittore ha già compreso tutto sulla mimesi. Ha compreso persino che è all’origine di un’espulsione: Mignolina è allontanata e abbandonata su una margherita.

Ma come si diceva, egli non è succube del passato, ha uno sguardo moderno nel senso di originale, osserva con una coscienza che non è quella degli antichi. Infatti dice qualcosa che nessuna fiaba antica avrebbe mai detto: la folla ha torto. L’espulsione è ingiusta.

Questo caso è particolarmente interessante: Andersen, a dispetto di quello che è sostenuto da alcuni, non simpatizza e difende solo i personaggi con chiari segni vittimari. Non lo muove una partitica solidarietà per i “diversi”, di cui lui farebbe parte (qui aggiungete il riferimento biografico, certo o presunto, che preferite), originata quindi da una sorta di nietzschiano risentimento. Qui si evince chiaramente che la sua è una lotta contro la menzogna. Con uno spirito decisamente contrario a quello postmoderno, in cui si rinuncia all’idea “antiquata” di verità per introdursi nello spensierato valzer delle interpretazioni tutte lecite, egli difende il fatto che Mignolina non è affatto brutta. L’espulsione viene giustificata da una falsa interpretazione della realtà, spacciata per vera perché ad essa credono tutti.

Alla menzogna arriva a credere pure la vittima (proprio come Edipo e tanti altri personaggi): «lei piangeva, perché era così brutta che i maggiolini non la volevano con loro». Andersen non censura niente dell’antico dramma, lo eredita accogliendo anche gli elementi più tragici. Ma a quale scopo? Per dire che è impossibile non cadere nella menzogna? O altrimenti: dove cercare la salvezza da un meccanismo apparentemente determinante?





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