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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Del bisogno della fine del mondo | Escatologia e relazione



L'occasione del film di M. Night Shyamalan, Bussano alla porta, è stata propizia per alcune riflessioni per tutti coloro che, ogni tanto, si sentono “le ultime persone sulla terra”, abitati dal demone accelerazionista, un po' come il vostro Bartleby che, però, già mentre formula questo pensiero, vede comparirgli lo spettro sardonico e volteggiante del nostro caro René.


Bussano alla porta è un film costruito come un doppia elica decostruttiva di due percorsi che si avvolgono l'uno con l'altro, ma lungo versi opposti di un stesso asse direzionale: quello della necessità di costituire un racconto mitico della propria differenza, che nel film è presentata nella forma del vittimismo.

Bussano alla porta è innanzitutto un film sulla decostruzione del vittimismo della vittima par excellence, al centro di ogni ambito dello show sociale e culturale contemporaneo: da questo lato della vicenda, i protagonisti sono due persone che incarnano lo stereotipo culturalmente preponderante della maschera della vittima (omosessuali, liberali, progressisti e acculturati, come vediamo quando cercano di delegittimare e convincere i quattro sopraggiunti emissari dell'Apocalisse della loro follia, snocciolando tutte le primizie di un debunker professionista); in particolare Andrew, il papà aggressivo, è colui che ha fatto del proprio essere stato vittima della violenza una differenza romantica nella forma di una rivendicazione del diritto alla contro aggressione e all'indifferenza nei confronti del mondo.

Come decostruzione della legittimità di questa posizione, il film mette in scena una didascalica ed estrema scommessa pascaliana, a mostrare come, anche quando si sia stati vittime, non si sia per questo esentati dalla domanda etica, non si sia sottratti all'urgenza dell'istanza donativa, all'urgenza dell'altro, all'urgenza di riconoscerlo anche là dove non sia proprio interesse farlo. Di questo Andrew è figura esemplare: ovviamente sensibile nei confronti della propria famiglia, ma indifferente al fantasma dell'altro; la sua famiglia non è infatti l'altro, ma è vissuta come il sé incarnato in un altro, là dove il radicalmente altro è invece colui che non costituisce il sé. L'altro è colui che non rientra in quella cerchia affettiva primaria, l'altro è il senza volto, colui il cui volto si dà per qualcun altro (e finanche colui che è stato proprio carnefice): nella vicenda l'altro è il figlio della cameriera Adriane, o gli allievi di Leonard, i malati curati da Sabrina, gli altri bambini di cui Wen chiede se moriranno tutti. Quello è l'altro, e nella famiglia è proprio Wen la prima che riesce a vederlo e mostrarlo con questa domanda, prima che anche papà Eric accolga tale consapevolezza e chieda infine di essere sacrificato per tutti.




Il film è quindi innanzitutto una decostruzione del nichilismo insito nel chiudersi in questa posizione: nella rivendicazione romantica di una differenza elevante e che esenti dal problema morale, legittimandosi oltretutto nel porsi quale giudice impietoso del mondo («Il mondo fa tutto schifo», dice papà Andrew quando cerca di respingere il movimento di consapevolezza che gli porge il coniuge, papà Eric) (1).

Un film quindi contro l'aggressività e l'autoreferenzialità a-relazionale e a-storica dei movimenti di vittimismo, che pullulano su tutti i fronti di questo nostro presente.

Ma il film si presta anche come decostruzione di altre letture di tipo mitico, in particolare quella che viene a costituirsi come mito apocalittico-accelerazionista della (sicuramente effettiva, non siamo certo qui a negarlo) crisi di indifferenziazione dovuta alla modernità, e del ritorno palingenetico del reale a carico di questa modernità che tale crisi nega, che giunge anche a negare il principio di realtà stesso, ammaliata nel proprio sogno iperreale. Anche quello apocalittico-accelerazionista si presenta come mito, in quanto di fatto opera una semplificazione manichea della contemporaneità e della complessità che informa e intreccia le nostre vite: un mito espiatorio, un'altra ricostituzione mitica di una differenza, un altro rito sacrificale in cui si generalizza miticamente la differenza propria della modernità e la si fa diventare il capro espiatorio, auspicandone il sacrificio; meglio, le si presenta la necessità del proprio autosacrificio che ristabilisca un'altra mitica differenza.

Da questo secondo lato, i protagonisti sono quattro persone di estrazione sociale modesta, che sicuramente non figurano come i vincenti o i premiati dalla modernità e dalla sua spirale globale di indifferenziazione. Occupano posizioni ben poco valorizzate nella struttura economica moderna, nonostante la centralità dei loro compiti e della loro dedizione. Destinati a una vita dove ogni giorno è una lotta tra le pratiche per riaffermare il senso dei propri valori (2) e senza alcun riflettore sociale e culturale che ne illumini l'esistenza e si ponga a loro garante assiologico, questi quattro marginali trovano nel compito apocalittico la possibilità di inverare in maniera assoluta un senso che resterebbe altrimenti sempre sospeso sulle proprie vite e alla sola tenacia quotidiana della propria condotta, la possibilità di inverare quel senso anche a costo di negare la propria e l'altrui vita incarnata.




Nel film vediamo infatti innanzitutto O'Bannon negare la violenza di cui si era reso responsabile e il seguente percorso riabilitativo, affidandosi al rito sacrificale sotto la legge del taglione, in un clima emotivo di insofferenza e aggressività nei confronti della coppia anche nella tragica circostanza nella quale i quattro si presentano ai due come cavalieri dell'Apocalisse; nemmeno in quel momento risparmia loro il proprio risentimento, quasi a scagliargli addosso il senso di colpa che lo abita e rispetto al quale risulta più facile, sebbene tragica e violenta, richiedere una assoluzione palingenetica, istantanea, accelerare nella soluzione del giudizio finale la lenta quotidiana costruzione di un senso e di una salvezza, là dove la presenza incarnata di sé e della propria vittima avrebbe richiesto il lento lavorìo del tempo e della cura.

Vediamo quindi poi Sabrina, logorata da questo lungo tempo della cura dei propri pazienti, a fronte della quale non corrisponde una sicurezza economica che le permetta di sostenere questo compito con l'adeguata libertà dal bisogno e dagli ostacoli di ordine economico e sociale (3); e vediamo Adriane, che come Sabrina si prodiga nella cura degli altri anche nel corso di questo apocalittico ritrovo, invocare quella decisione sacrificale come unica possibilità per garantire un futuro al proprio figlio, gettato sì – come ogni nuova vita che venga oggi alla luce – nella disperazione di un mondo di cui resta incognita la possibilità di un futuro, ma di cui non si può non rilevare il fatto che, con il proprio sacrificio, Adriane lasci gettato in un presente cui viene a mancare la cura primaria da cui dipendeva: quella della propria madre. Infine Leonard, gigante buono che fa da guida a giovani ragazzi suoi allievi, dalla cui cura molto ha imparato, il quale perfino prima di autosacrificarsi tenta di assolvere al suo compito docente offrendo l'insegnamento della responsabilità di ciò che si dice ai ragazzi, perché «loro credono a tutto, quindi bisogna dirgli solo ciò di cui si è molto sicuri»: vediamo anche lui abbandonare l'incertezza sospesa della guida silente per cercare una risoluzione ultima, il ruolo di guida ultima nell'Apocalisse che leverà il dolore e spegnerà le grida e i pianti una volta per tutte.




Prestandosi a tale lettura decostruttiva del mito apocalittico-accelerazionista, il film mette però in scena questo lato della narrazione – l'urgenza apocalittica – in maniera epica, e offre così il fianco a una fruizione che può condurre alla ricostituzione del mito espiatorio.

In questo senso del film è bene tenere la centralità del tema della trasversale decostruzione del romanticismo vittimistico della propria biografia e del proprio trauma, quindi della autolegittimazione romantica del sé, attenti a non lasciare che anche la messa in scena narrativa non induca alla costituzione tanto del primo mito, quello vittimistico dell'innocente preso di mira nella propria tranquilla estraneità, quanto quello della vittima abitata dell'urgenza apocalittica e palingenetica.

Tutti i personaggi del secondo gruppo, vittime espulse dalla modernità, adombrano anch'esse un cedimento al vittimismo che con l'autoimmolazione ricostituirebbe la propria differenza perduta, negando però in qualche modo la loro attualità corporea e relazionale: con il sacrificio apocalittico viene negata la propria presenza incarnata, gettata nel tempo delle prassi quotidiane, il cui destino ultimo e la possibilità dell'apertura di un risanamento del mondo sono sempre di là da venire, in quanto consegnati ai piccoli gesti sospesi a un messianesimo della fede e all'estemporanea ed effimera apertura di una grazia della presenza singolare. La loro angoscia giunge a rinnegare tutto questo, o meglio: disperati per questo abbandono al tempo sempre sospeso dell'istante delle pratiche, si gettano in una accelerazione apocalittica dove trovare quella risoluzione ultima che realizzi, tutta in un colpo e una volta per tutte, quella cura che vivono disperatamente abbandonata a un eterno ritorno dell'urgenza del singolo istante.

Nella centralità data nel film ai gesti di cura, al rinvio alla presenza, la domanda che quindi esso solleva non riguarda cosa si farebbe se un giorno bussassero alla propria porta, ma se lo si senta già che tutti i giorni bussano alla propria porta, se si è in grado di sostenere la quotidiana gettatezza di questa chiamata.




Coloro che bussano non sono coloro che vengono a chiedere giudizio finale o atti estremi il giorno dell'Apocalisse, ma coloro che quotidianamente vengono a presentare la propria quotidiana Apocalisse, che è il loro essere sospesi sull'abisso giorno per giorno, il loro dovere ogni giorno stabilire un senso alla gettatezza desolante nella modernità, sospesi nel venire meno sociale di riferimenti a fronte di un orizzonte di pervasività istituzionale totalizzante dei dispositivi. Bussano alla propria porta tutti i giorni, e non giungono con la proposta di un grande gesto palingenetico, ma chiedono di condividere quell'essere gettati nella sospensione, di condividere i piccoli gesti di cura con cui la si può abitare, insieme, nell'abisso di incertezze dell'essere umani e dello sfumare del disvelamento di qualsiasi senso ultimo destinale o di qualsiasi escatologia che sistemerà le cose una volta per tutte; chiedono di essere accolti e guidati nella cura, in questa mancanza eternamente ritornante di alcuna soluzione ultima e destino finale.

Come nel film, l'escalation dipende dal disconoscimento reciproco, esemplificato dal farsi senza volto dei quattro, prima del loro omicidio rituale. Nel film tale disconoscimento porta i protagonisti ad avvitarsi in una spirale di autosacrificio, spinto fino al punto di un potlach senza contro dono («avrete pochi minuti per compiere il sacrificio dopo che l'ultimo giudizio sarà stato emesso»).




Non siamo qui a negare che nella storia si presentino dei momenti in cui occorra davvero il sacrificio di sé, anche a costo di abbandonare qualcuno, qualcosa, ma proprio in nome della relazione, come magistralmente ci sta mostrando Matteo nel suo studio sulla figura del partigiano e nel suo articolo su Tenet. Osserviamo solamente che forte è il rischio – non sembra inopportuno usare proprio il termine tentazione – di fare di quel momento una narrazione mitica, una narrazione escatologica che faccia della violenza necessitata dalla Storia una soluzione giustificata moralmente dal mito. Avvertimento che ci pare venga posto d'altra parte dalla presenza stessa del regista nell'ennesimo suo cameo, durante il quale compare alla televisione come venditore dell'ultimo prodotto alla moda: un momento che suggerisce come il regista potrebbe aver voluto esplicitare la possibilità di un suo discorso metanarrativo che pone a tema la costruzione di narrazioni mitiche, narrazioni che dispositivi di selezione e confezionamento della realtà – quale è la televisione come cornice narrativa – non fanno che vendere.

Per questo: «grazie, non compro niente», «I would prefer not to».



***


(1) La costruzione del film consente anche di ipotizzare che, a livello di simbolico, sia Andrew stesso, con il proprio scandalo, ad aver chiamato la risoluzione apocalittica: lui, che ha subito questa aggressione a partire dalla quale nutre risentimento, non potrebbe essere giunto fino a provarne anche nei confronti del suo coniuge, la cui presenza sarebbe concausa di quello che gli è successo?

(2) Certo, O'Bannon fa eccezione, ma, come qui tra girardiani possiamo dirci, chi può sapere cosa ci sia nella biografia di ciascuno? D'altra parte, viene accuratamente omesso ogni dettaglio a riguardo da parte del regista. È davvero possibile dire che esistano persone che non siano mai state vittime, o si vuole invece perfino affermare che esistono persone che siano state solo carnefici, male assoluto incarnato?

(3) La sceneggiatura ci fa sapere, in una delle prime battute di Sabrina, che ha dovuto investire tutti i suoi risparmi per il viaggio fino a quella baita.

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