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Tenet | Il film messianico di Christopher Nolan

Aggiornamento: 22 set 2020



Introduzione


Questa volta Nolan mi ha messo davvero in difficoltà. Non in quanto, a differenza di ciò che pregiudizialmente può pensare il lettore, la sua ultima pellicola risulti particolarmente complessa o indecifrabile dal punto di vista narrativo. Anzi, proprio il contrario: Tenet mi ha sorpreso come un ladro nella notte ridestandomi da una quiete sonnolenta, impattandomi con violenza, sprofondandomi in una situazione emotiva faticosa, stimolante, insospettabilmente persistente, e, soprattutto, stanandomi nelle mie difficoltà e nei miei limiti. Pertanto, non prendete questa riflessione critica come una recensione, forse neanche come un commento o una spiegazione (ovviamente dovrà in qualche modo essere anche questo); accoglietela piuttosto come un tentativo, certamente audace, maldestro e pretestuoso di attraversare la comprensione del Nolan cineasta per parlare a cuore aperto, tra me e me, anche di quelle consonanze che, con Tenet, ho pensato di cogliere e intrattenere in quella che possiamo definire, a tutti gli effetti, un'empatica finzione.

Non ho quindi la pretesa di essere esaustivo sull'infinità di collegamenti e fili che, in questi giorni, si sono di continuo svolti e riavvolti, secondo la metafora del gomitolo con cui Bergson in Introduzione alla metafisica configura il tempo. Non ho nemmeno la pretesa di essere analitico con maniacale acribia, di usare quindi quel metodo di lettura e decifrazione di un testo a cui mi sono inconsciamente condannato. Questa volta procederò in maniera impressionista, un tentativo di volo, rinunciando a quella pulsione di controllo che conduce allo spacchettamento e alla frammentazione: l'obiettivo sarà dunque quello di seguire il corso delle varie intuizioni, provando a gettare qualche sassolino su sentieri che, per quanto ho potuto leggere, la critica ha sostanzialmente rinunciato a percorrere. Responsabile di questo slancio è, in ogni caso, lo stesso Nolan, il quale invita in diverse interviste a non approcciarsi a Tenet come se fosse un marchingegno narrativo da risolvere, piuttosto l'invito è quello di abbandonarsi come ad un flusso sinfonico coinvolgente e martellante, concentrandosi quindi non tanto sulla comprensione “spaziale” (quantitativa) del tempo, quanto sulla forma con cui i personaggi si relazionano tra loro e con la stessa temporalità.



Oggetto filmico non ben identificato, transgenere nel suo attraversarli senza mai cristallizzarsi definitivamente, sarebbe profondamente ingiusto pensare a Tenet come ad una semplice rimodulazione del classico spy movie. La mia opinione è che Tenet sia una pellicola essenzialmente messianica, una sorta di preghiera sussurrata nel frastuono e lanciata nel vuoto, inviata alla posterità. Ovviamente non stiamo parlando di un messianico assimilabile ad un religioso in senso liturgico o dogmatico: ha più la forma di una vocazione, di una pratica dell'ascolto e dell'attesa, di un codice etico che si esercita tra compagni e amici; un codice tanto esigente da sondare e decostruire i fondamenti dell'amicizia stessa (intesa anche in senso fortemente politico). Del resto potremmo già da subito lanciare la domanda: di che natura è il legame che unisce i paramilitari che compongono l'associazione già da sempre a-venire che prende il nome di Tenet?

Messianica è la fede che muove i protagonisti gli uni verso gli altri e tutti insieme verso un oltre che deve essere reso possibile nonostante l'approssimarsi apocalittico (anzi, forse, proprio in virtù di questo); messianico è il rispetto del segreto a cui i personaggi si costringono per non modificare teleologicamente il passato; messianiche sono le lacrime a cui Il Protagonista si abbandona onorando una perdita che assume più forza nella misura in cui concentra nell'istante tutta la gravità e tutto l'effimero (come la vacuità in Nishitani o la vanitas vanitatis dell'Ecclesiaste).

Tenet è, secondariamente, ma in forma complementare, un film apocalittico, marcatamente in due sensi: in primo luogo il dispositivo narrativo è un rutilante crescendo, una forsennata corsa, per sventare l'apocalisse nella forma dell'inversione dell'entropia; in secondo luogo, richiamandomi all'etimo, apocalisse significa rivelazione e i personaggi della storia, effettivamente, altro non fanno che ripercorrere l'avvolgente labirinto della temporalità per trovare una risposta alle loro identità (secondo uno stile narrativo che riformula indizi e tracce precedentemente disseminati in Memento e in Interstellar).



Il lettore attento avrà dunque subito colto che, specularmente alle linee temporali che possono solcare secondo due vettori entropici opposti il medesimo intervallo, nella struttura narrativa dell'undicesimo film di Christopher Nolan apprezziamo simultaneamente due tensori contrari, due pulsioni: se l'energia messianica, che si dispiega e che rende fragile la chiusura del soggetto sempre esposto all'altro-che-viene, si dà come spinta centrifuga, contemporaneamente agisce, come moto centripeto, un'energia katechontica, una forza che trattiene e che deve a tutti i costi disinnescare il potenziale distruttivo dell'algoritmo. Tale doppia, ma inscindibile, chiave di lettura si innesta poi su quella che mi pare essere una tensione indecidibile insita nello stesso Nolan, una contraddizione sempre presente nelle opere del regista inglese ma che, questa volta, mi pare assecondata con maggior sincerità, schiettezza e coraggio, senza il ricorso a simboli suggeriti smaccatamente dalla meccanica narrativa. Le spiegazioni razionali in Tenet portano infatti fuori strada: diventano vie senza uscita approssimandosi al mistero di un tempo insieme cosmico e interiore, privato e comune; si rivelano mani dalla debole presa non appena s'appressano al segreto insondabile di cui l'alterità dell'altro è custode. Occorre, come dire, indebolire lo sguardo: lasciarsi avvincere e trascinare dall'azione drammatica, correre a perdifiato insieme ai personaggi nel perenne inseguimento di sé stessi e di una ri-soluzione ma rimanere insieme vigili sui dettagli, lasciar scorrere il senso dagli interstizi, dalle fratture, dai momenti paradossali, perché la luce messianica è sempre fioca, marginale, debole: rimane sempre sospesa sul bordo e bisogna saperla accogliere e accettare, in un mondo prossimo al tramonto, quasi fosse il resto di una pellicola che arde.




Tempo narrativo-tempo etico-tempo messianico



Prendiamo in considerazione il doppio finale. Una volta recuperato l'algoritmo e salvato Il Protagonista e Ives dalla deflagrazione della struttura sotterranea attraverso l'ennesima torsione temporale, Neil rivela al suo compare e al pubblico la soluzione dell'intricato puzzle narrativo. Il Protagonista ha fondato nel futuro la società antiterroristica Tenet per sventare l'apocalisse temporale (l'inversione universale dell'entropia su cui dovremo tornare) che sarebbe dovuta avvenire nel passato, ossia il presente filmico di cui anche lo spettatore è testimone. Per riuscire in questa impensabile operazione ingaggia Neil, il quale dovrà simmetricamente replicare la medesima missione ma dal passato verso il futuro, ritrovandosi perfettamente al punto zero: la fine, ossia l'inizio. Sembra una totale follia ma, dal punto di vista della struttura narrativa non lo è. Il film nient'altro è che un'enorme manovra a tenaglia temporale di cui tuttavia vediamo solamente la prima parte, quella di un Neil che, silenzioso custode di un segreto, ribatte i passi dell'inversione temporale, proteggendo, riponendo fiducia e sacrificandosi per un Protagonista che ancora deve scoprire di essere Il Protagonista. L'incredibile originalità e la sconvolgente capacità di gestire penna e macchina da presa dimostrata da Nolan consiste questa volta nel fatto che la doppia inversione temporale non coinvolge solamente un soggetto che scompare e riappare in un punto spazializzato della linea temporale: in Tenet l'inversione procede in un mondo che continua ad esistere e che continua a scorrere secondo la propria temporalità, perché ciò che viene invertita in realtà è “solo” l'entropia, con tutto ciò che concerne il mondo sul piano fisico. «Abbiamo un futuro nel passato» dice Neil al Protagonista in mezzo al deserto, dopo la battaglia, teatro del primo, sincero, faccia a faccia. Il Protagonista piange perché sa (infatti c'è un futuro nel suo passato) di aver appena perso un amico, un fedele compagno d'avventura, un fratello che, proprio come lui, è disposto a sacrificarsi e a donarsi completamente per la propria squadra. Il Protagonista piange per aver perso questo Neil, nonostante, proprio in grazia dell'apocalisse sventata, ci sarà comunque un Neil con cui condividere tempo e mondo. Ma, ed è il punto decisivo, non esistono due tre quattro Neil, così come non esistono più Protagonisti, diversi Sator o doppi di Kat: condividere un tempo significa toccare una persona ma, nella logica dei passaggi temporali in cui è immersa la vita dei personaggi, il destino del ritrovarsi, l'avvenire da condividere, è sempre consegnato ad un forse, perché l'identità si produce attraverso il tempo, attualizzando nodi e urgenze sempre virtuali nell'infinita polivocità degli incontri. Cogliere differenze nelle ripetizioni.




Occorre a questo punto fare due notazioni:


1- Il tempo in Nolan tende a flettersi squassando la spazialità lineare della nostra rappresentazione priva di ritmo e continuità; il futuro si ripiega sul presente, quasi fosse un'onda minacciosa o un genitore che rimbocca le coperte al bambino prossimo al sogno, portando un sapere misterioso e minacciando con l'urgenza di una scelta, di un'azione; il passato si raggomitola appesantendo la coscienza e dando alla presenza un peso, una situazione ogni volta da comprendere ma anche un ricordo da conservare e proteggere devotamente o, al contrario, da cancellare. Nolan, si sa, si è spesso occupato dei loop temporali: se Memento metteva in scena la frattura tra un tempo interiore (il cui ritmo era il lavorio interno dell'elaborazione di un lutto, una soggettività ferita che si chiude dentro una stanza e si lancia messaggi cifrati sufficienti per continuare ad esistere) e un tempo “altrui” che racchiude, contiene e sfrutta a suo favore la “malattia” e l'illusione in cui Leonard è prigioniero, Interstellar, al contrario, mostrava sontuosamente la concretezza fisica del tempo, essendo quest'ultimo prima di tutto «vento gelido che attraversa i corpi» (per utilizzare l'espressione di Charlie Kaufman dentro la sua ultima stramba pellicola): sfruttando poeticamente la teoria della relatività, Nolan rivelava la gravità (nel senso fisico e metaforico del termine) dell'amore e della distanza.

Vissuto interiore e riflesso esteriore del tempo, quindi, riverbero che produce lo spettro della circolarità. Nolan è da sempre interessato a mostrare le interazioni tra tempo e soggettività, nelle forme più variegate e complesse, non tanto per dimostrare una tesi, quanto piuttosto per andare a comporre un palinsesto in cui confluisca l'esperienza umana della temporalità: a Memento e Interstellar possiamo aggiungere, per esempio, la compressione-dilatazione delle durate che convergono verso un presente condiviso di fatica, sofferenza, tensione e speranza in Dunkirk ma anche, diversamente, l'alterazione del ritmo sonno-veglia di Insomnia corrispondente ad un progressivo inabissarsi verso un'indifferenziazione morale -e mimetica- sempre più ambigua e inestricabile, risolta solo mediante l'inesausta fiducia di una giovane e inesperta poliziotta che insiste nel difendere, nonostante la prova contraria, la maestria e l'esempio di un modello in pericolosa decadenza.




Di che tempo siamo testimoni guardando Tenet? Dicevamo poc'anzi che futuro e passato eternamente si flettono e si ripiegano, o per meglio dire, sono il ripiegamento stesso. Occorre abbandonare la rappresentazione spazializzata del tempo lineare e puntiforme; in Tenet il tempo è circolare, è un istante incredibilmente dilatato, consistente, urgente che eternamente ritorna. Secondo un'intuizione analoga anche Denis Villeneuve, con Arrival, giungeva a mostrare come l'istante fosse gravido di ricordi e premonizioni, indicibili gioie e abissali tristezze. La protagonista, un'esperta studiosa di linguistica, doveva imparare a comunicare da zero non solo con le creature aliene portatrici del rivoluzionario messaggio di una salvezza raggiungibile mediante il dialogo ma anche con la propria interiorità, accogliendo il futuro non come possibilità ma come destino. Non voglio essere ridondante e retorico: qui riconosciamo il Nietzsche più incompreso. L'eterno ritorno denuda la volontà di potenza come sogno di pienezza; l'uomo dell'amor fati, l'uomo che sostiene il gravame dell'istante, il collasso in ogni attimo, è solo colui che si libera di sé donando e accogliendo, colui che fa spazio all'altro e all'agire del tempo con kenotica pazienza, affermandosi nella debolezza. Sacrificare sé stessi per proteggere un futuro, anche se fragile, finito, senza speranza: la speranza è custodita in tale disperazione, perché proprio lì è possibile cogliere la concretezza e la tenerezza delle cose semplici, il resto che resiste.


Tenet è questo istante costantemente ripetuto, splendido e confuso come un sogno lucido, sempre all'inseguimento disperato di una salvezza già garantita. Tanto che, durante il più lungo periodo di inversione di cui siamo testimoni, il Protagonista fa notare a Neil che «il fatto di essere qui, ora, non significa forse che ce l'abbiamo fatta?»; è proprio così, in effetti, ma tanto l'agire katechontico quanto la fede messianica, impongono uno sforzo comunque folle e disperato e obbligano pertanto ad un'attenzione insonne perché i segni dell'evento messianico non sono di facile lettura: niente a che vedere quindi con un'attesa stolidamente passiva e quiescente. La battuta succitata non significa infatti che, deterministicamente, il successo dell'impresa sia già in qualche modo inscritto in un futuro che può solo essere assecondato, ma che l'impresa ha successo nel presente proprio in quanto i personaggi, insieme, rispondono ad una chiamata dalla posterità: vi è quindi una disposizione all'ascolto che apre ad un'etica dell'azione.


Quali sono i simboli che rivelano la costituzione del tempo, e correlativamente della narrazione, in Tenet? Il primo è senz'altro quello della manovra a tenaglia temporale (1); due squadre condividono il medesimo intervallo di tempo e mondo percorrendolo in direzioni uguali e contrarie, scambiandosi informazioni utili al fine di disinnescare le manovre dell'associazione terroristica rivale (la stessa strategia viene usata da Sator e dalla setta gnostica che, dal futuro, vuole edificare un paradiso in terra aprendo un orizzonte sul passato). Ciò che vediamo in una delle battaglie più visionarie della storia del cinema -nella quale le operazioni tattiche non avvengono nello spazio bensì nel tempo- non deve distrarci dal fatto che questo tipo di tagliola temporale non possa anche avvenire con intervalli di tempo e di spazio ben più ampi. È appunto ciò che avviene in Tenet: dovete immaginare una matriosca in cui sono contenute molteplici manovre a tenaglia temporale, un dispositivo narrativo e temporale concentrico comprendenti però intervalli di durata estremamente varia.

Il secondo simbolo ci viene suggerito a più riprese nel corso del film. Lo troviamo nella parte iniziale durante la scena della tortura in mezzo alle rotaie: tale sequenza è straniante, fredda. Volutamente viene bandita nel fuori-campo o nel fuori-scena la violenza e il dolore fisico riconoscibile solo nel volto del Protagonista. Perché? Perché l'attenzione deve dirigersi verso i due treni che si muovono parallelamente in direzione opposta intorno agli attanti. Questi due treni sono uguali ma non sono gli stessi: l'universo in Tenet è quindi sovrapponibile ma in maniera concreta, non fantasmatica; questa scena prefigura quindi quelle altre sequenze future in cui i vari personaggi, nel tentativo di salvarsi reciprocamente ed insieme salvare il mondo, abbandonano definitivamente quelle identità che, per un intervallo, hanno condiviso con degli autentici alter-ego. Il passato viene modificato a partire da una posterità che, rispondendo alla chiamata, si fa evento sfondando la soggettività presente. L'altra scena-simbolo è, senza dubbio, quella della rivelazione del funzionamento del tornello per l'inversione a Tallinn. «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto» (2). Follia richiamarsi alla Prima lettera ai Corinzi? Forse. Sta di fatto che il meccanismo della scena, fondamentale per la comprensione dell'intero intreccio, marca precisamente il salto gnoseologico. Passare il tornello significa stravolgere la consueta prospettiva epistemica: la verità diventa silenziosa e deve sobbarcarsi il peso della menzogna per non scandalizzare e ostacolare l'evenire dell'evento; ciò che ri-definisce la soggettività non è la fiducia in sé stessi, non è il recuperare le proprie certezze, piuttosto è l'abbandonarsi all'altro che ha fiducia in me, aver fiducia nel fatto che ci sia un compagno sempre pronto a proteggermi, iniziare a guardarsi con gli occhi altrui per trasformare narrativamente la propria identità. Non occasione di redenzione, bensì di tradimento. Aiutare a tradire sé stessi, ad abbandonarsi, per ritrovarsi più integri al di là dello specchio. Da quel momento in avanti, infatti, inizierà tutto un altro film, per tutti i personaggi.

Terzo simbolo, la struttura palindromica del Quadrato di Sator. Si sono già spese molte parole a riguardo e io non aggiungerei nulla di interessante in merito. Lo riprenderò quando presenterò la questione dell'apocalisse.




Senza poter entrare nel grande tema della corretta soluzione delle antinomie che caratterizzano le interpretazioni che il nostro tempo ha dato al messianismo, dalla «vita vissuta nel differimento» di Scholem (ma assai diffusa nel giudaismo) nel senso di una tensione che non trova mai appagamento, all'altrettanto aporetica posizione (di certa teologia cristiana) che concepisce il tempo messianico come una specie di soglia o piuttosto come «un tempo di transizione fra due periodi, cioè fra due parusie» determinante il passaggio definitivo al nuovo eone, mi preme fare un riferimento alla lettura che Giorgio Agamben dà della prospettiva messianica in Paolo. Ne Il tempo che resta così si esprime: «Paolo scompone l'evento messianico in due tempi: la resurrezione e la parousìa, la seconda venuta di Gesù alla fine del tempo. Di qui la paradossale tensione tra un già e un non ancora che definisce la concezione paolina della salvezza: l'evento messianico si è già prodotto, la salvezza è già compiuta per i credenti e, tuttavia, essa implica, per compiersi veramente, un tempo ulteriore» (3). Umanizzate fino all'osso la prospettiva messianica paolina, innestatela nel contesto fantascientifico creato da Nolan: in gioco, forse, ci sono le stesse dinamiche. Qual è la forma di questo tempo ulteriore?



Amicizia-distanza-silenzio



2- La seconda notazione torna ad approfondire i temi dell'amicizia, della distanza e del segreto alla luce delle implicazioni etiche di cui la temporalità in Tenet è foriera. Per riuscire più persuasivo ed edificante nell'illustrare il pensiero dialogico, “politico”, relazionale dell'ultimo Nolan, ho pensato potesse essere utile per il lettore partire dal controesempio. La (non)relazione tra Sator e Kat testimonia l'assoluta mancanza di reciprocità dialogica, emotiva e affettiva: lo scandalo nasce da una speculare cecità, da un'impossibilità nel vedere l'altro per quello che effettivamente è, mentre riesce assolutamente più funzionale asservire il reale ad un'immagine pre-codificata artatamente. L'asimmetria che esiste fra i due, quel differenziale che permetterebbe la forza generativa della relazione, non è mai il luogo di un disvelamento sincero; questa viene al contrario giocata come uno strumento per affinare un gioco di ruolo sadomasochistico in cui entrambi finiscono per imprigionare l'altro in immagini che in realtà non desiderano. Al cuore di questa relazione vi sta palesemente una doppia mediazione rovinosa che inasprisce il comportamento di lui ed inaridisce il cuore di lei. Sator è completamente vinto da una sfrenata ossessione di possesso: la sua identità è tanto dipendente dalla consustanzialità dell'oggetto posseduto che Nolan, con intelligenza registica, si premura di nasconderci il volto del personaggio fino a che non compare davanti a lui un modello-ostacolo in grado di sottrargli il segreto del suo prestigio totalmente immaginario. La forma di desiderio di Sator è il sintomo della castrazione del desiderio stesso: l'altro viene completamente totalizzato, ossia inscritto in un sistema pienamente controllabile. Sator tiene Kat presso di sé solo per vederla annichilita sull'altare del proprio immaginario. La freddezza e la paranoia dominano incontrastati. Il desiderio pare riattivarsi solamente quando Kat si oppone orgogliosamente allo spietato oligarca, umiliandolo e denudandolo in tutta la sua meschinità. La dinamica è tanto gelida che entrambi finiscono per divenire invisibili a loro stessi, tanto da non riconoscersi nemmeno negli occhi dell'altro.

L'unico punto di riferimento possibile per marcare una differenza è suggerito dalla dinamica terziale. Nella relazione materna, infatti, Kat si ritrova, si riconosce, esce-fuori-da-sé superando l'immagine nichilistica e infelice in cui è stata reificata dal marito. Questo slancio materno trova il perfetto controcanto nelle premure mai invasive del Protagonista, il quale, dopo un inizio stentato in cui anch'egli, seguendo una logica speculare a quella di Sator, finiva per fruire teleologicamente di Kat non disponendosi all'ascolto, approderà ad un affetto dei piccoli gesti coltivato nella distanza, aiutando Kat a fugare le immagini spettrali tutt'intorno. Per Sator, al contrario, il figlio è solo la chiave per controllare Kat con una violenza ancor più brutale: l'orgoglio e la debolezza di Sator sono tanto deliranti da indurlo al progetto del sacrificio del proprio primogenito pur di redimere la possibilità del dolore, della morte, di un mondo volto al crepuscolo. Autentica scimmia di Dio, pallida parodia di Abramo, Sator si configura propriamente come la più canonica delle figure anticristiche che s'affacciano nell'approssimarsi dell'apocalisse.



Ben altra cosa è il fiore dell'amicizia colto nella separazione e nella distanza. Nietzsche, nel secondo volume di Umano troppo umano, ci consegna un aforisma in grado di riprodurre in icona non solo lo splendido doppio finale di Tenet ma anche altri paesaggi della filmografia nolaniana facendo di un filo rosso un arazzo, un tessuto poetico. L'aforisma 251, Nella separazione, recita: «Non nel modo in cui un'anima si accosta all'altra, ma nel modo in cui se ne allontana, riconosco la sua parentela e affinità con l'altro» (4). L'amicizia (così come l'amore) si dà in questo dono della distanza, poiché solo nella disgiunzione vedo l'altro per quello che è: l'altro è il volto della separazione stessa, è l'alba che tronca il sogno dell'Io. La durezza della sottrazione espone la fragilità insita in questa virile comunione. Nolan, come altri prima di lui (tra cui, appunto, Nietzsche), sonda i limiti di una tradizione metafisico-concettuale che da sempre codifica la semantica dell'amicizia secondo tratti maschili che fanno della fraternità il cuore della comunità. Nolan non sovverte, piuttosto scalca la superficie per costruire nuove strade, seguendo un carisma opposto.




Già in Interstellar le distanze siderali diventavano metafora di un diverso e dolente sguardo sull'esperienza della paternità, della filialità, dell'affetto. La distanza sospende la contemporaneità come circolare chiusura; il tempo diventa la ferita aperta dalla relazione, ferita non suturabile con una chirurgia a posteriori ma cicatrizzabile grazie al dolore, alla comprensione, alla cura, all'accettazione. Inserendo la distanza e il tempo al cuore delle relazioni, Nolan trova il modo per rivelare la concretezza del dono, del lasciar-essere (o ad-venire), della pazienza, della responsabilità e del ritiro come scaturigine e fine delle relazioni stesse.

Ovviamente, questa ri-semantizzazione del lessico comunitario in direzione della distanza e della solitudine produce un effetto traumatico anche dal punto di vista politico. Nolan, indiscutibilmente, è un cineasta a cui non interessa il “politico”, non certo secondo le polarizzazioni classiche: questo però non significa che non vi sia gesto politico nelle scelte di Nolan. Se in The dark knight e in The dark knight rises il politico era la zona d'indifferenziazione mimetica che produce e riproduce in ogni momento della narrazione una soglia in cui forza e legge tendono a implicarsi, indistinguersi ma reciprocamente escludersi producendo il sintagma forza-di-legge, con Dunkirk arriviamo al paradosso di un film di guerra che contemporaneamente propone l'assenza di un nemico (i nazisti relegati all'oscenità del fuori-campo) e la “assenza” di un amico. In Dunkirk la violenza si annida, infatti, nei rapporti uno-a-uno, nei piccoli gruppi, oppure piove impersonale dal cielo, in maniera fredda, distaccata, distante. E la madrepatria, mai così vicina, viene percepita tanto dallo spettatore quanto dai personaggi come minacciosamente lontana. Nolan inattuale: pensava addirittura di poter vincere un Oscar facendo un film di guerra che decostruisce il patriottismo, tanto caro all'Academy, sotto la lente della distanza.



« “Amici, non ci sono amici!” così gridò il saggio morente. “Nemici, non ci sono nemici!” grido io, il folle vivente » (5). Il finale dell'aforisma 376 di Umano troppo umano volume I che porta significativamente il titolo Degli amici risulta estremamente calzante se applicato alla poetica della distanza in Nolan. Non ho qui il tempo di seguire le tracce che legherebbero, in Nietzsche, quella che sembra a tutti gli effetti una conversione romanzesca ancorché discontinua («il prendere parte alla gioia, non il prendere parte al dolore, fa l'amico») con il tema della follia. È chiaro però che l'ascolto di questo grido impone una sovversione così dura ed elevata insieme, tale da porre l'Io all'accusativo, esposto e responsabile, nel senso di obbligato a rispondere. Ed è bene ricordarsi sempre che queste grida e questi pensieri ritornano dall'avvenire, sono pensieri dell'avvenire che chiamano ad una risposta mai garantita: il grido è infatti alla mercé delle correnti d'aria e delle dinamiche aleatorie del tempo.

In un passaggio di Politiche dell'amicizia dedicato a Nietzsche e ai filosofi dell'avvenire, Derrida espone con precisione la sensazione di fragilità, di intempestività, di slegamento che avvolge lo spettro delle relazioni nel cinema di Nolan: «noi siamo innanzitutto, in quanto amici, amici della solitudine, e vi chiamiamo a condividere quel che non si condivide, la solitudine. (…) amici soli perché incomparabili e senza misura comune, senza reciprocità, senza uguaglianza. Senza orizzonti di riconoscenza o di riconoscimento, quindi senza parentela, senza prossimità. (…) Si annuncia così la comunità anacoretica di quelli che amano allontanarsi. L'invito vi viene da coloro che amano solo separarsi, allontanarsi» (6).

Ripensate ora al finale di Tenet. Ripensate alla totale asimmetria che sussiste tra il Protagonista e Neil: quest'ultimo infatti già conosce, già è amico da una vita, è pienamente responsabile ai fini della missione, deve reggere da solo il peso del passato di entrambi, del segreto, della menzogna, quindi dell'incomprensione. Neil vive da separato portando il peso del messaggio da consegnare, del testimone da passare: tutta la solitudine si concentra qui, in questo destino di separazione. Eppure, nel tempo della fine, nell'ora messianico dell'azione -autentico tempo operativo-, nell'ora in cui i legami si sciolgono, vi è almeno il sollievo di condividere questa solitudine, di condividere l'incondivisibile. Ma mettere in comune la solitudine non ha niente a che vedere con la tentazione di ritornare al pleroma, alla confusione mistica dell'uno, al silenzioso abbraccio della dissoluzione. La bomba non deve esplodere: tutto si deve tenere nella distanza, nella tensione della separazione, così da lasciare aria agli sguardi e alle carezze, perché anche la gestualità in Tenet denota un profondo, religioso pudore.



A pensarci bene, i miliziani della società segreta Tenet, assomigliano tanto a una comunità di esiliati, di sradicati, ma non per questo privi di un'identità. La loro identità è data dalla responsabilità verso un destino, coincide con l'obbligo di rispondere a una chiamata inviata verso la posterità, con l'obbligo di dare una chance a questo forse disperato lanciato nel vuoto siderale del tempo. Autentici partigiani del tempo, sono sradicati da un suolo, da una terra, da una nazione e quindi da un interesse nazionale ma è proprio in virtù di tale sradicamento spaziale che trovano più forza e fede nella condivisione di un tempo e di un vissuto messianici a tutti gli effetti: a momenti vengono a decadere persino i nomi; restano solo i volti, le azioni concrete, gli sguardi, le differenze da preservare in quello che, seguendo le Lettere di Paolo, può essere definito come il tempo che ci resta.

L'azione intempestiva, emergenziale e risolutiva ha luogo nell'attimo di kairós che non aggiunge un istante in più al tempo cronologico, quasi fosse appendice di chronos; l'attimo kairologico è tempo contratto, densissimo, poiché si palesa come il tempo restante. In questo tempo qualitativamente “altro” rispetto al normale scorrere cronologico degli eventi, in questa visione contratta e accelerata di passato e futuro in stretto cerchio, l'autentica vocazione (klēsis) messianica prende la forma del come non (il famoso sintagma ōs mē che Paolo enuncia nella Prima lettera ai Corinzi come esigente prassi etica da seguire nel tempo in cui la grazia si fa evento), revoca per destituire tutte le certezze conseguenti la pratica della Legge.


I personaggi in Tenet sono costretti ad agire nella stessa maniera per reggere l'urto dell'evento. Immergersi nel paradosso di un'entropia invertita, vivere intensamente questo tempo che s'accorcia, significa per loro disporsi all'evento della rivelazione su loro stessi e sul proprio compito in terra. «Mentre la nostra rappresentazione del tempo cronologico, come tempo in cui siamo, ci separa da noi stessi, trasformandoci, per così dire, in spettatori impotenti di noi stessi, che guardando senza tempo il tempo che sfugge, il loro incessante mancare a se stessi, il tempo messianico, come tempo operativo, in cui afferriamo e compiamo la nostra rappresentazione del tempo, è il tempo che noi stessi siamo – e, per questo, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo» (7). Il tempo messianico diventa quindi l'unico tempo che conta, proprio perché è il poco tempo che resta; ecco perché Paolo ha cura di sottolineare che finché abbiamo una briciola di tempo, è tanto più necessario operare il bene (8).


Comunemente, quando c'è di mezzo il silenzio immerso in un contesto comunitario, il collegamento naturale porta il pensiero alla congiura, alla società segreta, alla sovversione anarchico-rivoluzionaria o criptofascista ma anche, specularmente, all'esercizio spietato del potere legale: il ché non è sbagliato. È bene tenere a mente però che, in questo caso, “silenzio” viene a coincidere con una parola sommersa che finisce per connotare senso e scopo dell'associazione stessa; “silenzio” diventa in questo senso una tecnica strumentale, una pratica che si trasforma in una tattica allineata con un certo fine: il silenzio significa qui omissione e nascondimento. È parlante proprio nella misura in cui cancella le tracce.


Non è di questo silenzio che voglio parlare riferendomi al comportamento di Neil o alle disposizioni di Ives. In diversi momenti della sua riflessione Nietzsche sostiene che l'amicizia debba essere protetta attraverso la pratica del silenzio, poiché lasciar emergere la verità dell'amicizia in quanto tale insegnerebbe «come la ragione viene - “alla ragione”!». Se la responsabilità verso il prossimo deve rimanere intatta deve esercitarsi in silenzio, anzi in segreto, in una sorta di contro-cultura del saper tacere. «Come se il saggio parlasse a se stesso in silenzio del silenzio, rispondendosi senza dir niente – per chiamarsi alla responsabilità», dice Derrida (9). E continua: «L'amicizia», quindi, «non mantiene il silenzio, si mantiene con il silenzio» (10). Nietzsche è, in tal senso, figlio della saggezza cinque-seicentesca francese e dunque il confine tra protezione dell'alterità dell'altro in nome dell'amicizia e sospetto di retro-pensiero impuro contagiante compassione e gioia appare quindi terreno assai scivoloso. Ma proviamo a collocare la co-implicazione nicciana amicizia-silenzio nel contesto di un mondo in cui l'entropia diventa un'arma. La pratica del silenzio sottende un gesto di micropolitica delle relazioni fondamentale, un'autentica rivoluzione copernicana: il silenzio esautora il logocentrismo. Mettendo al bando la parola, il silenzio riposiziona il soggetto portatore della maestria e dell'insegnamento ed insieme dona la possibilità all'altro di costruirsi dentro la relazione semplicemente per come può essere, non per come deve. Il silenzio non parla, lascia-parlare e in questo sta la forza della sua comunicazione: non porta contenuti bensì una forma con cui un'urgenza può essere dischiusa e sciolta. Il silenzio è il principio dell'ascolto (lo sa benissimo anche Heidegger quando in Essere e tempo fa del tacere, dell'ascolto, del silenzio, le porte dell'esistenza autentica). Il silenzio è disposizione, è sforzo ascetico, è pazienza, è speranza, è una forma dell'affidarsi. Solo così Neil e Il Protagonista possono rimanere integri quando, per sopravvivere, «mentire è la procedura standard».





Apocalisse gnostica / Apocalisse messianica



Come ultima svolta prima della ricapitolazione finale (termine quasi tecnico nel lessico messianico paolino) occorre fare una riflessione intorno al momento squisitamente apocalittico, tentando un'interpretazione delle differenti visioni che il film presenta a riguardo e portando al centro la questione dell'entropia. Illustrare le differenti immagini apocalittiche come portato delle specifiche tradizioni religiose avrebbe poco senso. Forse è più utile per il lettore proporre prima un discorso generale per avvicinarsi con maggior efficacia alle opposte visioni che Nolan propone lungo la narrazione. Per prima cosa occorre segnalare un equivoco, figlio del pensiero contemporaneo sulla secolarizzazione che va da Weber a Schmitt a Lowith, e che consiste nello schiacciare il tempo messianico (tempo della fine) su quello escatologico (fine del tempo), eludendo in questo modo la specificità del messianico. A intorbidire ancor di più le acque poi troviamo la posizione intermedia e altrettanto specifica del tempo apocalittico. A questi tre tempi corrisponderebbero nelle Scritture altrettante specifiche figure, la descrizione sintetica delle quali mi pare poter essere perspicua per addentrarsi nella questione.


Mi affido totalmente alla penna di Giorgio Agamben: «Che cos'è un profeta? È innanzitutto un uomo che è in relazione immediata con la ruah jahwé, col soffio di Jahvé e riceve da Dio una parola che non gli appartiene in proprio. (…) Come portavoce estatico di Dio, il profeta si distingue nettamente dall'apostolo, che, in quanto mandatario per uno scopo determinato, deve invece eseguire il suo incarico con lucidità e trovare da solo le parole dell'annuncio, che può pertanto definire “il mio evangelo”. Nel giudaismo, tuttavia, il profetismo non è un'istituzione di cui sia possibile definire le funzioni e determinare le figure: è, piuttosto, qualcosa come una forza o una tensione perennemente in lotta con altre forza che cercano di limitarla nelle modalità e, soprattutto, nel tempo» (11). In ogni caso, è importante sottolineare il fatto che il profeta è essenzialmente definito dalla sua relazione con il futuro. «Ogni volta che i profeti annunciano l'avvento del messia, l'annuncio riguarda sempre un tempo a venire, non ancora presente. In questo consiste la differenza tra il profeta e l'apostolo. L'apostolo parla a partire dalla venuta del messia. In quel punto, la profezia deve tacere: essa è, ora, veramente compiuta. La parola passa all'apostolo, all'inviato del messia, il cui tempo non è più il futuro, ma il presente. Per questo l'espressione tecnica per l'evento messianico è in Paolo: ho nyn kairòs, “il tempo di ora”». «Ma l'apostolo deve essere distinto anche da un'altra figura, con la quale viene spesso confuso, esattamente come il tempo messianico è confuso con quello escatologico. Non la profezia, che si rivolge al futuro, ma l'apocalissi, che contempla la fine del tempo, è il più insidioso fraintendimento dell'annuncio messianico. L'apocalittico si situa nell'ultimo giorno, nel giorno della collera: egli vede compiersi la fine e descrive ciò che vede» (12).


Da qui possiamo ripartire tenendo un occhio all'opera di Nolan. La società segreta che ha ingaggiato Sator (personalmente la immagino come la Seele di Evangelion), setta gnostica che desidera costruire un paradiso artificiale tra le ceneri del mondo, agisce come un profeta a posteriori, comunicando con le generazioni passate al fine di emendarle e redimerle dal male che hanno compiuto, in quello che dovrebbe essere a tutti gli effetti una sorta di gesto sacrificale-catartico. Questa profezia a posteriori dovrebbe fornire legittimità all'azione di Sator. Tuttavia la scrittura di Nolan (che finora, come abbiamo visto, ha lavorato sui margini per far emergere il cuore dei personaggi dai piccoli gesti e dalla stratificazione silenziosa delle emozioni) diventa impietosa nel rivelarne il fondo nichilistico, tracotante e teleologico. Le ultime parole di Sator riecheggiano uno dei capitoli più misteriosi e dibattuti dell'intera storia della cultura umana: il secondo capitolo della Seconda lettera ai Tessalonicesi (13).

Sator è propriamente l'antimessia, l'imitatore che giustifica le sue azioni coprendo la propria superbia con vesti umili. Ma in Sator, in realtà, non resta un briciolo di fede, per questo manca totalmente di charis, di cura e dono verso il prossimo. L'apocalisse gnostica ordita dai “futuri” è pura astuzia della ragione, è progetto intenzionale che fa del mondo e della vita un mero strumento. Il film non approfondisce nei dettagli la natura di questa universale inversione ma da quel che si può evincere l'operazione funzionerebbe istantaneamente, come se si potesse rivoltare il mondo come un guanto. Un universo ad entropia invertita risalirebbe il fiume dei nessi causa-effetto, il mondo naturale anziché aprirsi, slegarsi e disperdersi secondo un processo tendente al caos, al molteplice, al dif-ferirsi, tornerebbe ad un cosmo perfetto come una piccola perla, semplice come un punto, eterno e unitario. In quel punto, ovviamente, niente sarebbe; solo biancore e dissoluzione, in un nulla fattosi essere totale. Quei pochi consapevoli, immagino, predisporrebbero una vita in falansteri, serre o parchi umani in cui vivere significherebbe invecchiare in un mondo che ringiovanisce. Tornare alla perfezione di un essere pieno, ossia di un totale nulla, è il sogno di ogni gnostico che si rispetti, perché sono la materia, il molteplice, il proliferare delle differenze e delle impurità il nucleo sostanziale del male. Sator cerca di giustificare razionalmente il suo progetto di redenzione ma la sua sicumera idealistica tradisce il cuore torbido dei suoi sentimenti: ogni progetto gnostico è puro risentimento, desiderio di vendetta, dominio artificioso e programmatico della storia. Esattamente il contrario della fede messianica nell'a-venire. Il contesto di riferimento, anzi, è completamente pagano, di derivazione stoica o tuttalpiù neoplatonica.

In questo senso, il fallimento della prospettiva gnostica consiste nell'eliminare il potenziale rivelativo insito nell'evento apocalittico: l'avvento messianico sospende infatti, ossia rende inoperante, il funzionamento stesso della Legge e delle opere, schiudendo il tempo in cui agisce la grazia. Ciò non significa che non vi sia più trasgressione; al contrario, responsabilità e libertà vengono a coincidere radicalmente e l'altro-che-viene diviene un volto e una voce ineludibile. L'altro-che-viene ci pone all'accusativo conducendoci alla sbarra della coscienza: insieme ci rivela colpevoli e perdonati. Ma proprio in questa ora in cui il tempo si comprime in una sorta di ricapitolazione che deve essere assunta come il giudizio sommario della grazia, non è possibile rinunciare all'azione: proprio qui la fede diventa operativa, diventa micropolitica e azione rivoluzionaria: non però al fine di ribaltare l'albero avvicinando le radici al cielo, piuttosto, semplicemente, nel senso dell'esercizio della charis al di fuori della Legge: la responsabilità come compimento dell'anomia.

L'apocalisse per gli gnostici è, al contrario, quella che viene definita tecnicamente conflagrazione universale (sempre comunque finalizzata ad una nuova e rigenerativa palingenesi) ma è calzante anche l'idea di un'apocatastasi interamente emendata dalla questione del perdono. L'opposto, insomma, del folle grido di un Mitja Karamazov o della mitezza di un Alesa: il perdono integrale nel nome della croce nasce appunto dall'abissale responsabilità di cui entrambi si fanno carico; la loro fede è legata ai volti e alla terra e invita a vivere in maniera messianica ogni ora della vita.



Richiamare i Fratelli Karamazov mi permette di annotare un'ultima significativa dissonanza. Come vi sono due visioni opposte dell'evento apocalittico, allo stesso modo, tra gnostici e messianici, esiste un'opposta visione del seme (14). I “futuri” comunicano con Sator inviando capsule che contengono preziose informazioni e risorse per poter meglio controllare l'andamento del futuro-passato. Queste capsule assomigliano incredibilmente alle cosiddette rationes seminales, le ragioni seminali di matrice stoica: tali ragioni seminali, secondo una dottrina che dallo stoicismo è scivolata nel provvidenzialismo cristiano dei primi padri della Chiesa, contengono i modelli, gli schemi, le ragioni finalistiche intrinseche, delle varie componenti dell'universo. L'invio di queste capsule nel passato permette ai “futuri” di determinare finalisticamente quello che sarà il futuro-passato. Un rivolgimento che, quindi, prevede una radicale strumentalizzazione ed etero-direzione dell'esistente: l'atteggiamento gnostico è da sempre fautore di una precisa pedagogia tecnocratica e manipolatoria che immagina lo sviluppo e l'evoluzione della persona non a partire dal tempo, dal contatto con l'alterità, dalla valorizzazione delle differenze potenziali. L'eredità platonica e neoplatonica, permutando in secolarizzazione gnostica, ci consegna invariato il dogma per una buona ginnastica spirituale: più il singolo si manterrà puro, più potrà dissolversi nel pleroma divino.


Tutt'altro valore assume l'immagine del seme nella prospettiva messianica. È sufficiente riportare alla mente, sul finale dei Karamazov, la resa dostoevskijana dell'immagine contenuta nel Vangelo di Giovanni (15). La sepoltura del piccolo Iljusa è proprio quel seme che si schiude nei cuori dei personaggi che lo hanno conosciuto e amato. Per attecchire, per mettere radici e poter fiorire, il seme non abbisogna di una entelechia già inscritta; necessita solo di incunearsi in una certa debolezza, di trovare riparo in un terreno permeabile. Nell'ora messianica, infatti, secondo il Paolo della Seconda lettera ai Corinzi, «la potenza si compie nella debolezza»: è la fragilità, infatti, che espone all'evento della grazia. Non è certamente un caso che un altro apocalittico della rivoluzione come Walter Benjamin nelle sue Tesi sulla filosofia della storia dice: «a noi, come a ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data una debole forza messianica» (16). A tutte le generazioni è assegnato un preciso momento in cui il pensiero della fine del tempo, ossessione escatologica, si converte e trasforma in un pensiero del tempo della fine: questa chiamata all'azione è il kairós, il momento dell'assoluta responsabilità. L'entropia, così marginalmente centrale in Tenet, rappresenta la perfetta immagine per comunicare la subitaneità dell'evento, la necessità dell'assecondare il fluire della vita, l'abbandono come forma di comprensione, la necessità di un nucleo di senso non dominabile ma che sorprende e forza il soggetto a ri-definirsi. Proprio per questo, tutti i personaggi in Tenet devono morire per rifiorire e schiudersi in una nuova forma relazionale: la pillola per Il Protagonista, la pallottola per Kat, i sacrifici silenziosi di Neil. Tutti i personaggi ritrovano forza nella loro infinita vulnerabilità, fallibilità, umanità. Accogliere il tempo messianico, vivere l'attimo ricco di kairós, significa quindi disporsi alla tenerezza e abbracciare con lo sguardo tutta l'innocenza e la caducità del mondo profano.

É proprio perché viviamo in un mondo crepuscolare che la bomba non deve esplodere: affidare l'inquadratura finale alla generatività femminile significa più della semplice firma, è il gesto politico di un regista che, a suo modo, per un attimo, si è ritrovato tra gli apocalittici della rivoluzione.





Breve conclusione in mano d'Altri



«Il Profano non è, dunque, una categoria del Regno, ma una categoria – e certamente una delle più pertinenti – del suo più facile approssimarsi. Poiché nella felicità ogni essere terrestre aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità esso è destinato a trovarlo. Mentre l'immediata intensità messianica del cuore, del singolo uomo interiore procede invece attraverso l'infelicità, nel senso del dolore. Alla restitutio in integrum spirituale, che conduce all'immortalità, ne corrisponde una mondana, che porta all'eternità di un tramonto e il ritmo di questa mondanità che eternamente trapassa, e trapassa nella sua totalità, non solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è la felicità. Poiché la natura è messianica per la sua eterna e totale caducità. Tendere a questa, anche per quei gradi che sono natura, è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve essere chiamato nichilismo» (17).


«Se il Messia è alle porte di Roma tra i mendicanti e i lebbrosi, si potrebbe supporre che il suo incognito lo protegga o ne impedisca la venuta, ma viene invece riconosciuto; qualcuno sospinto dall'ossessione dell'interrogazione, gli chiede: “Quando verrai?”. Il fatto di esserci non è quindi la venuta. Vicino al Messia che è lì, deve dunque risuonare sempre l'appello: “Vieni, vieni”. La sua presenza non è una garanzia. Futura o passata, la sua venuta non corrisponde a una presenza (…) E se accade che alla domanda: “A quando la tua venuta?” il Messia risponda: “A oggi”, la risposta, certo, è impressionante: è dunque oggi. È ora e sempre ora. Non si deve attendere, sebbene il fatto di attendere sia come un obbligo. E quand'è quest'ora? Un'ora che non appartiene a un tempo comune (…) non lo mantiene, lo destabilizza» (18).



Ringrazio Simone per la pazienza e i preziosi consigli in sede di composizione del saggio: l'amicizia fraterna è ancora più bella quando si pensa e si agisce insieme.



***



(1) Secondo una misteriosa consonanza riconosciamo nella forma della tenaglia temporale quella che Giorgio Agamben definisce «relazione tipologica» come forma del compiersi il tempo messianico; si tratta di una tensione che stringe e trasforma passato e futuro mettendoli in comunicazione, così che, nell'istante ricco di kairòs, venga alla luce tutta la consapevolezza e l'urgenza dell'azione in nome di charis. «Non si tratta soltanto di una corrispondenza biunivoca che lega ora typos e antítypos in un rapporto per così dire ermeneutico, ma di una tensione che stringe e trasforma passato e futuro (…) in una costellazione inseparabile. Il messianico non è semplicemente uno dei due termini della relazione tipologica: è questa stessa relazione. Questo è il significato dell'espressione paolina: “per noi, nei quali le estremità dei tempi stanno l'una di fronte all'altra”. Le due estremità dell'olam hazzeh e dell'olam habba si contraggono l'una sull'altra fino a fronteggiarsi, ma senza coincidere: e questo faccia a faccia, questa contrazione è il tempo messianico – e nient'altro». In silenzioso dialogo Agamben accosta i passi paolini al messianismo di Scholem che, in una nota preparata per l'amico Benjamin, così scrive: «il tempo messianico è il tempo del waw inversivo». Agamben fa notare che «il sistema verbale ebraico distingue le forme verbali non tanto secondo i tempi (passato e futuro), quanto secondo gli aspetti: compiuto (che di solito si traduce col passato) e incompiuto (tradotto di solito col futuro). Ma se si premette un waw a una forma del compiuto, essa si trasforma in incompiuto e viceversa. Secondo l'acuto suggerimento di Scholem, il tempo messianico non è né il compiuto né l'incompiuto, né il passato né il futuro, ma la loro inversione. La relazione tipologica paolina esprime perfettamente questo movimento conversivo: essa è un campo di tensione in cui i due tempi entrano nella costellazione che l'apostolo chiama ho nyn kairós, dove il passato (il compiuto) ritrova attualità e diventa incompiuto e il presente (l'incompiuto) acquista una sorta di compiutezza». Cfr. pp. 73-74 Giorgio Agamben, Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, 2000, Torino.

(2) Cfr. Paolo, Lettere in La sacra Bibbia, CEI, 1971, in particolare 1 Corinzi (13, 12).

(3) Cfr. Giorgio Agamben, Op cit., pp. 69-70.

(4) Cfr. p. 98 in Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano – volume secondo, Adelphi, 2010, Milano.

(5) Cfr. pp. 224-225 in Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano – volume primo, Adelphi, 2011, Milano.

(6)Cfr. p. 50 in Jacques Derrida, Politiche dell'amicizia, Raffaello Cortina Editore, 1995, Milano.

(7)Cfr. Giorgio Agamben, Op. cit., p. 68.

(8)Cfr. Paolo, Lettera ai Galati (6, 10).

(9)Cfr. Jacques Derrida, Op.cit., p. 67.

(10)Cfr. Jacques Derrida, Op. cit., p. 68.

(11)Cfr. Giorgio Agamben, Op. cit., p. 61.

(12)Cfr. Giorgio Agamben, Op. cit., pp. 62-63.

(13) «Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà esser rivelato l'uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio (…) Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l'empio [Ànomos] e il Signore lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta, l'iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina, perché non hanno accolto l'amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d'inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all'iniquità». Cfr. Paolo, 2 Tessalonicesi (2, 1,16).

(14) Una delle possibili traduzioni di Sator è, forse non a caso, “seminatore” o “contadino”.

(15) «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv, 12, 24).

(16) Cfr. p. 76 in Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia in Angelus novus – saggi e frammenti, Einaudi, 2014, Torino.

(17) Walter Benjamin, Frammento teologico-politico in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-22, Einaudi, 1982, Torino.

(18) Cfr. p. 161 in Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, SE, 1990, Milano.

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