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Giostre medievali | L’arte della guerra è conseguenza oppure origine della rivalità?

Aggiornamento: 20 ago 2021


«Accetterò le sventure che mi verranno per grazia di Dio»

(ser Tor in T. Malory, Storia di re Artù e dei suoi cavalieri)


Dopo aver dedicato qualche analisi ad alcuni tra i più antichi racconti sulle competizioni atletiche (vedi Rito e sport) e all’eclatante quanto scandaloso fenomeno dei munera romani (vedi Giochi gladiatorii), proseguiamo e giungiamo alle celebri giostre tra cavalieri medievali. A dispetto delle apparenze pittoresche con cui sono ricordate, esse celano qualcosa per certi versi di molto inquietante.

Dai duelli tra schiavi per il godimento del popolo si passa a quelli tra cavalieri per il godimento di dame e sovrani: se il primo fenomeno evidenzia una logica sacrificale tanto plateale da indurre a credere che i promotori avessero una certa consapevolezza del meccanismo del capro espiatorio e lo sfruttassero con machiavellica astuzia, il secondo caso sembra invece contraddire nettamente la dinamica sociologica proposta da Girard. Perché selezionare all’interno di un ceto medio-alto i partecipanti di un torneo, che per quanto regolamentato è di fatto un combattimento in una forma ludica (ma non privo di rischi), peraltro al cospetto di dame e sovrani, cioè di un ceto elevato anch’esso? E perché questi cavalieri ne sono appassionati? Sembra facile liquidare tutto ciò come il frutto di mondo barbaro e in crisi, invece il fenomeno merita forse maggiore attenzione.

È da sottolineare che già ai tempi dei gladiatori l’aristocrazia romana non era affatto esente da un certo fascino per questi loro prodi schiavi, esattamente come non lo siamo noi di fronte alle esibizioni di coraggio in cui si sfida la sorte, o meglio la violenza. Ma come mai questa attrattiva?

In La violenza e il sacro, dopo aver proposto molteplici esempi di pratiche e rituali, che periodicamente ricompattano la comunità a scapito di una vittima, Girard riconosce che invece nei riti di passaggio e di iniziazione è il soggetto che su di sé subisce la violenza. L’antropologo però risolve sbrigativamente questi casi dicendo che comunque «evocano il meccanismo della vittima espiatoria» (Adelphi, p. 397). Per quanto corretto, ciò non spiega come la comunità traduca uno schema che accetta come salvifico per sé in una prassi per il singolo individuo e soprattutto come un membro passi dalla tendenza centrifuga degli sfoghi collettivi verso soggetti marginali a una centripeta verso di sé. Perché non ci si accontenta di esorcizzare la violenza, ma si vuole essere uno «che partecipa del suo potere», trionfando su di essa?



La letteratura cavalleresca è straordinariamente esplicita a proposito della tendenza preponderante: l’eroe non intraprende il viaggio per raggiungere una meta che suo malgrado presenta degli ostacoli, cioè dei rivali, egli lo intraprende al solo scopo di affrontarli.

Anche in questo caso la narrativa di quest’epoca “buia” non è affatto esente da precedenti. Plutarco ci racconta di come Teseo, voglioso di gloriose imprese, per andare ad Atene sceglie un tragitto in cui sa già che incontrerà avversari da sconfiggere e l’autore greco loda il fatto che «mentre aveva la possibilità di regnare tranquillamente a Trezene, erede di una monarchia non oscura, preferì di sua iniziativa partire da solo alla realizzazione di grandi cose» (Vite parallele, Mondadori, Milano 1974, p. 76).

Un tentativo di spiegare questa ricerca dell’ostacolo, che non risulta essere affatto “scandaloso” come vorrebbe Girard, ma al contrario esplicitamente desiderato, è stato proposto da De Rougemont in L’amore e l’Occidente. Egli reinterpreta la dinamica prendendo come archetipo il mito di Tristano e Isotta e riconduce la tendenza fino all’estremo desiderio della morte a una certa prospettiva religiosa che, per farla breve, svaluta il mondo e divinizza l’Eros. Il merito è sicuramente quello di avvalorare la particolarità di un fenomeno in alcun modo riconducibile a meccanismi di conservazione (magari riscontrabili anche nell’ambito dell’etologia, come li cerca Girard), ma per giustificare come spiegazione ultima un pensiero religioso si basa, per sua stessa ammissione, ancora sull’opposizione spirito-materia, di cui lui stesso mina la credibilità.

Non è un’astratta critica filosofica sui presupposti teoretici: ciò che viene ignorato è che l’amor cortese è in realtà soltanto una delle espressioni culturali di una società che si caratterizza per essere innanzitutto guerriera e che non ha certo bisogno della passione per una “Dama” (reale, immaginaria o allegorica) per guerreggiare (nemmeno nella letteratura, per inciso); piuttosto costei compare come un più “elevato” pretesto (1). La giostra infatti ne presenta un altro altrettanto valido ed efficace: nella forma, dalla parvenza innocua, del gioco l’incontro/scontro con un rivale può essere reiterato all’infinito senza alcun bisogno di una scusante, poiché l’“innocente” dilettarsi con un’attività ludica si giustifica da sé.



D’altra parte la religione a cui De Rougemont in ultima istanza si riferisce è quella celtica, della quale lo studioso di mitologia comparata Dumézil ha sottolineato la preponderanza proprio della funzione guerriera rispetto alle altre due, tipiche di tutti i popoli indoeuropei. L’altra origine ideologica indicata da De Rougemont è il platonismo e forse non è un caso che sia stato elaborato da un aristocratico ateniese che, come buona parte dei suoi concittadini dello stesso ceto, sotto il profilo politico aveva una grande stima della società greca più militarizzata, cioè quella spartana. L’ascetismo religioso e platonico in effetti sembrano presentare non casuali tratti analoghi, lo spirito di abnegazione e l’esercizio di rinuncia all’attaccamento alla vita biologica per una dedizione totale a qualcosa di più elevato, all’educazione improntata su una rigida disciplina che viene impartita nelle comunità guerriere.

Certamente dunque De Rougemont non sbaglia nel riscontrare una divinizzazione dell’Eros, ma bisogna riconoscere anche un’altra divinità, che come minimo fiancheggia quella da lui identificata e forse è precedente e più influente, Polemos.

A conferma della effettiva capacità performativa di questa seconda vogliamo riprendere un passaggio degli studi dello storico Jean Flori. In Cavalieri e cavalleria nel Medioevo egli evidenzia che se i primi cristiani si erano fermamente opposti al servizio militare (denunciando una forma di idolatria nel giuramento che il soldato deve prestare) e questo ovviamente aveva provocato non poca ostilità da parte dell’Impero Romano, nel corso del Medioevo si assiste a un totale capovolgimento di presa di posizione a seguito della conversione di popoli, la cui classe dirigente è unicamente formata da capi militari.

Un’altra conferma è data dall’onnipresenza nel linguaggio di metafore belliche. Jean Flori sottolinea anche come si sia stato sfruttato dai cristiani medievali l’ampio utilizzo di esse da parte di Paolo di Tarso e risulta comunque difficile rimproverarlo, anche con il senno di poi, se si pensa che egli non ha fatto altro che adeguarsi a immagini famigliari ai suoi destinatari (infatti è un tratto stilistico che si ritrova in tanti altri pensatori del suo tempo, per esempio nei trattati filosofici dello stoico Seneca). Ancora nell’italiano si riscontrano espressioni come “conquistare” una ragazza, “militare” in un partito politico o “combattere” una malattia. L’ambito amoroso non ha alcun primato, al contrario è solo uno dei tanti che subisce queste contaminazioni della terminologia bellica.



È l’arte della guerra ad apparire come il paradigma di tutte le altre attività (2), il che rende improbabile che sia la semplice conseguenza di una di loro. La si considera come l’esito “involontario” di un degenerare delle rivalità causate dall’Eros, dall’economia, dalla giustizia retributiva, da un rituale, un gioco, una giostra tra “cortesi” cavalieri: qualunque giustificazione sembra plausibile, ma proprio ciò dimostra che alla guerra va bene una qualsiasi, è come dire che in realtà l’importante non è ciò che la scatena, ma che si scateni.

Come è vero che è una società già guerriera a organizzare perciò giostre tra cavalieri, così potrebbe essere che sia Polemos a suscitare la passione per l’ostacolo ed esserne quindi l’origine, come avrebbe sostenuto Eraclito, e non la conseguenza.

Resta il fatto che, se anche così fosse, la guerra non potrebbe essere presa semplicemente come un dato di fatto, senza essere a sua volta interrogata. Ciò ci riporta alla domanda sorta a partire da Girard e alla quale in definitiva anche con De Rougemont rimane insoluta: posta l’esistenza della violenza, come si passa dalla ricerca di vittime espiatorie a quella di ostacoli che mettano a rischio, invece che essere ottimali per preservare, la propria vita? In altri termini: perché l’umanità ha coltivato l’arte della guerra, invece che un’ipotetica arte della pace?

Le giostre dei cavalieri appaiono come l’emblema di un culto in ultima istanza fine a se stesso, tanto in realtà diffuso nella storia umana quanto bizzarro e inquietante. Per quanto elargisca prestigio e onori, nella dinamica si scorge una tendenza suicidaria, come si intravvede nel caso del più venerato sovrano, la cui storia è diventata famosa con il titolo errato (un errore estremamente interessante: il titolo della parte finale dell’opera viene inteso come quello di tutta) di La morte di Artù. Sviluppare una nuova ipotesi che risolva l’enigma sarà il tentativo del prossimo articolo.


(1) De Rougemont non si sofferma sui molteplici passaggi della letteratura in cui si loda la dedizione a una Dama da parte del cavaliere per il fatto di dargli ispirazione e permettergli di ergersi così al di sopra dei suoi avversari nei duelli (Lancillotto, perfetto amante della regina Ginevra e miglior combattente della Tavola Rotonda, è l’emblema di questo pensiero). Non si sofferma nemmeno su come opinioni divergenti su quale sia la Dama più bella offrano ottimi spunti per duellare (ciò sarà invece oggetto dell’ironia di Cervantes nel Don Chisciotte), tanti quanti ne offrono invece le convergenze di desideri amorosi nei confronti della stessa Dama, che generano altrettante ostilità: insomma, ogni scusa è buona.


(2) Si pensi per esempio alle letture di opere come quella di Sun Tzu, delle cui proposizioni si scopre una valenza universale, un’applicabilità a qualsiasi ambito dell’esistenza.

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