Nell’ultimo articolo ci siamo soffermati, a partire dal fenomeno eclatante delle giostre medievali, sul desiderio di affrontare prove e ostacoli, fino a ipotizzare che l’arte della guerra non sia la conseguenza di altre attività, ma il loro paradigma. Gli antichi riti di passaggio e di iniziazione (che sanciscono un nuovo status nella comunità), l’ossessione dei cavalieri medievali per il riconoscimento del loro valore (spesso nei racconti costoro non vogliono rivelare la propria identità finché esso non viene dimostrato nel combattimento, nonostante ciò provochi non poche volte spiacevoli malintesi) inducono a credere che in gioco sia la costituzione stessa dell’identità del soggetto. Ma perché proprio attraverso la violenza? È ovvio che a posteriori questa sembri sempre necessaria; ma è davvero l’autocoscienza a doverla produrre per costituirsi oppure di nuovo è lecito ipotizzare che sia la violenza l’origine (e non la conseguenza) di un’autocoscienza che in quanto da essa fin dall’inizio forgiata non trova altro modo per continuare il suo processo costitutivo che reiterarla?
Secondo Girard nella sua forma più originaria la violenza non è lotta per il riconoscimento tra soggetti, ma è al tempo stesso causa e conseguenza (in una dinamica circolare volta al continuo aggravarsi) di un’indifferenziazione, che lungi dal costituire identità, tende invece a un annientamento totale e suicidario. Gli esempi prima riportati lo confermano nella misura in cui si può evidenziare l’importanza che in essi riveste la codificazione e la regolamentazione della violenza ritualizzata. Si pensi per esempio al codice cavalleresco che impedisce di uccidere l’avversario nel duello qualsiasi sia la gravità dei torti da lui commessi, qualora si arrenda al vincitore: è chiaro che una tale regola possa essere applicata solo all’interno di un’élite aristocratica (quindi una comunità già strutturata), che vuole distinguersi per la sua “nobiltà d’animo” (costituendo così la propria identità), per il fatto che tale regola è funzionale all’obiettivo prioritario di un reciproco riconoscimento (tra i singoli soggetti) di far parte di questa élite.
Nel più antico rituale della krypteia spartana infatti, gli spartiati (figli della classe dominante) muovevano guerra agli iloti (i membri delle popolazioni sottomesse) nel modo meno “cavalleresco” che si possa immaginare: con agguati e linciaggi; eppure ricercavano evidentemente lo stesso riconoscimento del cavaliere che concedeva la grazia al suo pari, ciò che cambiava era che non era il rivale della lotta un membro del gruppo dal quale si desiderava il riconoscimento. Questo secondo esempio è un’ortodossa applicazione del meccanismo del capro espiatorio e la continuità con il primo caso induce a credere che sia da questo meccanismo che si debba partire per comprendere come si è arrivati a tutta la retorica sul valore guerriero, presente in culture distribuite in tutto il mondo.
In effetti, sempre secondo Girard, con l’unanime linciaggio della vittima espiatoria si manifesta la prima casistica di una violenza differenziatrice. Però l’individuo distinto dalla folla anonima, quanto meno all’inizio, è solo una vittima appunto, un oggetto sacro, non ancora un soggetto che costituisce la sua identità. Ma cosa accade con il tempo?
In Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo Girard offre degli spunti estremamente interessanti parlando della figura del sovrano. Molti dati sociologici fanno pensare che all’origine egli non era altri che proprio la sacra vittima, venerata in quanto oggetto dell’immolazione salvifica, ma deve anche esserci stato necessariamente uno sviluppo per arrivare all’immagine del monarca più vicina ai nostri tempi.
«Ci si può aspettare che l’intervallo tra la scelta della vittima e il sacrificio tenda molto rapidamente a prolungarsi. E questo prolungamento, in compenso, permetterà alla futura vittima di assicurarsi una influenza sempre più reale sulla comunità. Deve arrivare il momento in cui questa influenza è così effettiva, la sottomissione della comunità così servile, che il sacrificio reale del monarca diviene di fatto impossibile se non ancora impensabile. Il rapporto tra il sacrificio e la monarchia è troppo stretto per sciogliersi di colpo, ma si modifica. Essendo il sacrificio sempre sostitutivo, è sempre possibile operare una nuova sostituzione, sacrificare solo il sostituto di un sostituto. […] L’evoluzione verso la monarchia moderna, la monarchia ‘propriamente detta’, è compiuta.»
A ben guardare qui Girard non sta formulando un’ipotesi solo sulla nascita della prima istituzione politica: essendo questa incarnata dal primo individuo distinto dall’anonima comunità, l’ipotesi parla anche della costituzione di una prima soggettività, dell’identità di quel soggetto.
Ma il nostro dilemma resta ancora irrisolto: l’identità di questo sovrano si costituisce in un contesto in cui la violenza è sempre più allontanata ai margini della società; come compare allora il guerriero che costituisce la propria con il valore militare? Si direbbe che egli si affermi proprio in opposizione alla figura del sovrano.
In effetti se questa emerge dall’evoluzione del ruolo della vittima sacra, c’è anche un’altra figura che deve aver riconfigurato la sua funzione in concomitanza con questa evoluzione: quella del sacerdote, colui che prima immolava la vittima. Anch’egli è un individuo che si è ben presto distinto dalla massa anonima della comunità, specializzandosi in un compito considerato altamente rischioso (su questo punto rimandiamo alle analisi di La violenza e il sacro); ora che non c’è più la vittima resterà “disoccupato”? L’universale successo dell’arte della guerra induce a credere che egli abbia trovato il modo per proseguire il processo costitutivo della sua identità. Ora le azioni immolatrici, che lo rendevano altrettanto ammirabile della sacra vittima tanto più anch’egli condivideva il pericolo di morte o quanto meno subiva il rischio di contaminazione, non sono più a scapito del sovrano, ma al suo servizio, una volta che questi è diventato il rappresentante della comunità.
Polemos non è mai stato qualcosa di “laico”, che in un secondo momento sarebbe stato divinizzato, come imporrebbe di credere un certo empirismo; è stato oggetto di culto sin dal principio, perché sacerdoti erano sin dal principio i suoi adepti. La guerra è “già da sempre” necessaria non per motivi economici né per qualsiasi logica utilitarista, compresa quella di ottenere vittime per i rituali sacrifici umani (Girard in Il capro espiatorio riporta l’esempio degli Aztechi): ogni giustificazione di questo tipo è una successiva forma di regolamentazione attraverso una razionalizzazione che al fine di frenare il desiderio dell’ostacolo per costituirsi esige una preliminare valutazione dei possibili costi e benefici sul piano materiale; la guerra è “già da sempre necessaria” in quanto già religioso momento di incontro con la propria divinità, di scontro con il capro espiatorio (1).
L’ipotesi appare molto azzardata e meriterebbe un’ampia trattazione, qui ci limitiamo a offrire qualche spunto per rispondere a quelle che immaginiamo essere le principali perplessità.
Innanzitutto l’accostamento delle figure di sacerdoti e guerrieri: siamo abituati a pensare che siano opposte all’interno di una società. Eppure alcune narrazioni mostrano che potrebbe non essere stato sempre così. Se nell’Edipo re è presente come rivale di Edipo, figura di sovrano che diverrà vittima, Tiresia, una figura sacerdotale, nel primo canto dell’Iliade le figure sacerdotali di Crise e Calcante che si oppongono al sovrano Agamennone si eclissano per essere sostituite dalla figura di un guerriero, Achille, che emerge in primo piano sulla scena (2).
L’esempio omerico risponde anche a un’altra perplessità, cioè come possa essere l’antico rivale e aguzzino del sovrano lo stesso che lo serve come guerriero: i momenti di crisi rianimano la contrapposizione. De Rougemont in L’amore e l’Occidente non si capacitava proprio di questa contraddittoria coesistenza di ruoli nel rapporto tra il cavaliere Tristano e il suo re Marco, ma non si è accorto che era tutt’altro che un bizzarro elemento unicamente presente in quello che lui ha preso per un mito archetipico. Pur in un contesto letterario diverso, infarcito di retorica cortese, la dinamica che coinvolge Isotta non è in realtà essenzialmente diversa da quella di Achille e Agamennone che litigano per le loro schiave (proprio De Rougemont ha lungamente argomentato l’autoreferenzialità dell’amor cortese del cavaliere). L’opposizione di figure sovrane e guerriere in realtà non cessa mai, semplicemente mentre provoca continui ritorni all’antica indifferenziazione tra doppi mimetici, nel suo percorso storico si sviluppa perseguendo una differenza radicale, quasi ontologica. Non senza invidia l’uno verso l’altro, il sovrano insegue un’ideale di ordine e di stabilità e ambisce a una coscienza solida, nutrita da un’autorità conferitale per solo il fatto che è e non deve dimostrare nulla (3), il guerriero per contro vuole sfidare la morte e si vanta solo dei meriti raggiunti con il suo agire valoroso al devoto servizio di una divinità, una causa, un signore (o una dama).
Passiamo così all’ultima perplessità: un buon indizio della necessità di ricondurre all’antica immolazione sacrificale la figura guerriera come quella sovrana è l’onnipresenza del paradigma della loro contrapposizione. La riflessione di Marco Stucchi sull’oscillazione in tanti ambiti diversi della quotidianità nel tifare il forte piuttosto che il debole potrebbe essere riletta nei termini di un’oscillazione tra l’identificazione con un soggetto solido e sovrano piuttosto che con uno subalterno ma potenzialmente capace di affermare nella lotta il suo valore. Nella letteratura occidentale il manicheismo, che nel mito di Tristano e Isotta era solo agli inizi, ha cancellato sempre più le ambiguità mostrando il guerriero come colui che si ribella alla tirannia della figura sovrana (tornata quindi vittima da immolare), motivo esasperato nelle narrazioni mitico-supereroistiche in cui l’eroe guerriero combatte contro il cattivo che brama un potere sovrano (4). Persino nella saggistica, dopo che con straordinaria acutezza Hegel colse il passaggio di questo paradigma dal contesto bellico (del mondo aristocratico-cavalleresco) a quello economico (del nuovo mondo borghese), esponendolo nei termini di una lotta tra servo e signore (riconoscendo quindi che ciò era avvenuto perché la dinamica era radicata al livello dell’autocoscienza), lo schema è stato recuperato sia da chi ha preso le parti del valoroso proletario contro il capitalista sovrano sia da chi ha preso le parti del valoroso imprenditore contro lo stato sovrano.
Un ultimo breve spunto metterà in luce l’elemento, forse, più drammatico. La figura guerriera è oggi certamente la più seducente, probabilmente perché in essa si conserva quella sacerdotale, conquistatrice della salvezza nel suo essere immolatrice (infatti il carisma weberiano in Economia e società è una forza guerriera contro il sistema sovrano), ma nel suo desidero di reiterare la rivalità con la figura sovrana esaspera e quasi ontologizza insieme alla costituzione della propria soggettività quel movimento del doppio mimetico che pur di imporsi sul rivale, pur di distinguersi da chi è rappresentante di stabilità, marginalizzante il disordine, scandalizzato dalla violenza, persegue l’annientamento suicidario.
Dopo due guerre mondiali, oggi il sotterraneo desiderio di rischiare il suicidio si sta forse riproponendo in un’economia acriticamente ottimista nell’accrescere eternamente la propria produzione, di saper trovare sempre nuove risorse, di poter saziare indefinitamente gli appetiti che non possono che continuare ad aumentare le proprie pretese tanto più vengono accontentati. Se certi movimenti anti-sistemici, sacerdotali per la sacralità che attribuiscono alle loro ideologie e guerrieri per la prontezza con cui attaccano sprezzanti del pericolo, nel loro essere in ultima istanza suicidi diventano paradossalmente complici dell’inscalfibile sistema (5), anche i sacerdoti del dio denaro di fronte ai rischi non solo ambientali, che ormai nessuno più ignora, forse sono stuzzicati a incorrere in essi al posto che frenati. In un modo o nell’altro sono tutti successori dei cavalieri avventurieri, la cui vita era una ricerca di sempre nuove sfide fino alla morte.
(1) Un’idea per certi versi simile fu espressa dallo storico delle religioni J. Campbell in un linguaggio psicanalitico in L’eroe dai mille volti (1949): «Ecco perché l’uomo sente il bisogno irresistibile di fare la guerra: l’impulso di distruggere il padre si trasforma continuamente in violenza pubblica.» (2) Particolarmente interessante a questo proposito è la figura, contrapposta a quella del sovrano Creonte, di Antigone, il cui ruolo, in quanto soggetto femminile, tende a sfuggire a una chiara e precisa catalogazione all’interno dell’organizzazione della sua società prettamente maschile, e in lei si ritrovano mescolati sia elementi sacerdotali (la difesa dell’importanza dei riti funebri) sia elementi guerrieri (la volontà di lottare fino al suicidio). (3) Per un approfondimento sulla figura del sovrano rimandiamo alle riflessioni di Matteo Bisoni. (4) A questo proposito narrazioni estremamente interessanti sono quelle che decostruiscono il linguaggio mitico-supereroistico riproponendo un’idea di reciprocità al fondo dei poli opposti: si pensi in particolare a un film come Unbreakable (2000), in cui Glass con sovrana manipolazione insegue il sogno di essere il cattivo di qualcuno per costituire la sua identità e fa dell’eroe guerriero il suo rivale, ma anche (non si tratta solo di una contemporaneità temporale, ma proprio una connessione logica) il suo servitore (Batman begins recupererà nel 2005 quest’idea di reciprocità in termini prettamente mimetici, riproponendo lo schema girardiano del modello-discepolo: cfr. l’articolo dedicato).
(5) Rimandiamo alle osservazioni di Mattia Carbone su questo punto.
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